Per chi si interessa alla realtà del mercato del lavoro, mai come in questo periodo appare evidente la distanza fra la comunicazione politica e la realtà.
Partiamo dal Jobs Act, la riforma del mercato
del lavoro che doveva essere il fiore all’occhiello del Governo Renzi
nel 2015. Renzi, Poletti e gli economisti del principe per mesi hanno
lodato gli effetti benefici della riforma, nella forma dell’aumento dei
posti di lavoro a tempo indeterminato. Poi sono arrivati i dati
dell’INPS riferiti a gennaio 2016, in cui il saldo fra assunzioni e
cessazioni a tempo indeterminato è risultato negativo, a riportare tutti
alla brusca realtà: che le nuove assunzioni erano drogate dagli sgravi
fiscali e che è difficile definire “stabile” il lavoro al tempo del
contratto a tutele crescenti, dove al datore di lavoro basta pagare una
cifra tutto sommato esigua per liberarsi di un lavoratore indesiderato.
Si può continuare poi parlando dei voucher,
anch’essi parte del Jobs Act (che ha aumentato i massimali di reddito
percepibili tramite buoni lavoro), anche se questo ovviamente Renzi e i
suoi fanno finta di dimenticarlo. Il loro utilizzo è letteralmente
esploso durante la crisi: se nel 2008 erano 24.437 i lavoratori che
avevano ricevuto almeno una volta un voucher come forma di pagamento,
quest’anno il numero è arrivato ad 1 milione e quattrocentomila persone.
Il timore è che i buoni, nati con l’idea di remunerare prestazioni
occasionali non assimilabili e veri e propri rapporti di lavoro, stiano
pian piano divenendo la forma contrattuale del precariato, andando a
sostituire alcuni tipi di contratti (come quelli a chiamata o quelli
part-time) che offrivano alcune (seppur poche) garanzie in più. Eh sì,
perché il pagamento a voucher non garantisce diritti alla malattia o
ferie, e offre un pagamento di contributi previdenziali così basso che
perfino il presidente dell’INPS Boeri si è detto preoccupato per le
possibili ripercussioni sui futuri pensionati. Sempre ammesso che una
pensione ce l’avranno, ovviamente.
Concludiamo infine con lo spettacolare fallimento di Garanzia Giovani: il progetto europeo per migliorare la situazione lavorativa dei giovani NEET (ossia coloro che non sono né studenti né occupati) under 30. Un rapporto dell’ISFOL (ente che peraltro dipende dal Ministero del Lavoro) certifica che, a fronte del milione di giovani che speranzosamente s’è iscritto al programma, solo 32 mila hanno trovato un lavoro vero e proprio. A leggere i numeri si capiscono meglio le dimensioni del flop: degli 865 mila giovani che a Marzo si risultavano iscritti al programma, più di 200 mila non sono semplicemente stati presi in carico dai locali centri per l’impiego. I giovani presi in carico (ossia a cui è stato offerto un semplice colloquio) sono stati 642 mila. Quelli per cui è seguita una misura concreta però sono ancora meno: circa 227 mila. Fra questi troviamo i 32 mila vincitori della lotteria cui è stato offerto un posto di lavoro, poi un gran numero di persone che hanno svolto tirocini (138 mila) o corsi di formazione (52 mila), oltre a 5 mila giovani che hanno svolto il servizio civile. La morale della favola è che ciascun nuovo contratto di lavoro è costato 36 mila euro: un’enormità.L’ennesima boccata d’ossigeno per il capitalismo straccione all’italiana, che è riuscito ad intascarsi altri fondi. E il ministro Poletti? Stranamente non commenta.
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