di Marco Bersani
Contesto
Nel giugno 2011, oltre 26 milioni di cittadini hanno votato “SI” a due referendum sull’acqua,
determinando, con la vittoria del primo quesito, l’abrogazione
dell’obbligo di privatizzazione di tutti i servizi pubblici locali e,
con la vittoria del secondo quesito, l’abrogazione dei profitti dalla
tariffa del servizio idrico integrato.
Si è
trattato, in maniera evidente, di un pronunciamento di massa contro le
privatizzazioni e per la gestione pubblica di tutti i servizi pubblici
locali.
E, nel
caso dell’acqua, come ha ben specificato la Corte Costituzionale, con
sentenza n. 26 del 2011, si è perseguita chiaramente:“(..) la finalità di rendere estraneo alle logiche del profitto il governo e la gestione dell’acqua”.
Si inserisce dentro questo contesto il Testo unico sui servizi pubblici locali di interesse economico generale, decreto attuativo della Legge Delega n. 124/2015, che definisce invece con le seguenti parole l’attuale quadro normativo: “(..)
risultato di una serie di interventi disorganici che hanno oscillato
tra la promozione delle forme pubbliche di gestione e gli incentivi più o
meno marcati all’affidamento a terzi mediante gara” (relazione
illustrativa, pag.1), includendo nella generazione di confusione
normativa i referendum abrogativi e la sentenza della Corte
Costituzionale n. 199/2012 (che difendeva l’esito referendario).
Un testo per mettere ordine, parrebbe.
Ma in
quale direzione, lo esplicita subito (sez. 1, paragrafo B) l’Analisi di
Impatto della Regolamentazione, allegata al testo di legge.
Fra gli obiettivi a breve termine, viene indicata “la riduzione della gestione pubblica ai soli casi di stretta necessità”, mentre sono obiettivi di lungo periodo: “garantire la razionalizzazione delle modalità di gestione dei servizi pubblici locali, in un’ottica di rafforzamento del ruolo dei soggetti privati” e “attuare i principi di economicità ed efficienza nella gestione dei servizi pubblici locali, anche al fine di valorizzare il principio della concorrenza”.
Si
tratta, in tutta evidenza, di un decreto che si prefigge, cinque anni
dopo la vittoria referendaria sull’acqua, la chiusura di quell’anomalia e
la privatizzazione dei servizi pubblici locali.
Finalità
Mentre il comma 1 recita incredibilmente la volontà di “affermare
la centralità del cittadino nell’organizzazione e produzione dei
servizi pubblici locali di interesse economico generale, anche
favorendo forme di partecipazione attiva”, il comma 2, aprendosi con le parole “In particolare” (quindi volendo rendere concreto quanto asserito nel comma 1) dice testualmente: “(..) le
disposizioni del presente decreto promuovono la concorrenza, la libertà
di stabilimento e la libertà di prestazione dei servizi di tutti gli
operatori economici interessati alla gestione dei servizi pubblici
locali di interesse economico generale”
Una
definizione che ricalca pedissequamente quella utilizzata in tutti i
trattati di libero scambio, dall’Accordo Generale sul Commercio dei
Servizi del WTO al più recente TTIP.
Funzione dei Comuni
L’art. 5 del testo sottolinea il ruolo dei comuni e delle città metropolitane, dichiarando, al comma 1 “funzione fondamentale”degli stessi “l’individuazione delle attività di produzione di beni e servizi di interesse economico generale”.
Peccato
che, immediatamente dopo, e per tutto il testo della legge, questa
funzione sia immediatamente misconosciuta: comuni e città metropolitane,
infatti, per individuare i servizi pubblici, devono effettuare
preventivamente una verifica, anche con forme di
consultazione di mercato, sul fatto che tali attività non siano già
fornite o fornibili da imprese operanti con regole di mercato (comma 2 e
3); verifica da inoltrare all’Osservatorio del Ministero dell’Economia
sui servizi pubblici locali (comma 5).
Chi gestirà i servizi?
Le
modalità di gestione sono la polpa del provvedimento normativo, e
infatti, per quanto riguarda acqua, rifiuti e trasporto pubblico locale,
prevalgono su qualsivoglia normativa di settore (art. 3).
Qui il
decreto (art. 2) opera una distinzione fra “servizi pubblici locali di
interesse economico generale” e “servizi pubblici locali di interesse
economico generale a rete”.
Entrambi
sono servizi “erogati dietro corrispettivo economico su un mercato, che
non sarebbero svolti senza un intervento pubblico”, i secondi sono
“organizzati tramite reti strutturali”.
Il
primo principio posto chiaramente sulle modalità di affidamento è che
la gestione in economia o mediante azienda speciale è possibile solo per
i servizi non a rete (comma 1, lettera d) art.7).
Si
tratta di un preciso attacco alle proposte di ripubblicizzazione da
parte del movimento per l’acqua, che da sempre propugna la gestione
attraverso enti di diritto pubblico, quali le aziende speciali, e di un
attacco concreto alla realtà di ABC Napoli, azienda speciale che
gestisce il servizio idrico della città partenopea.
Tutti i servizi pubblici locali a rete devono di conseguenza essere gestiti attraverso società per azioni.
Ma,
perché sia chiaro quali siano le opzioni privilegiate dal decreto, ecco
quali ulteriori vincoli vengono posti, laddove gli enti locali scelgano una società per azioni a totale capitale pubblico.
In
questo caso, gli enti locali devono deliberare con provvedimento
motivato, dando conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato,
nonché dell’impossibilità di procedere mediante suddivisione in lotti
del servizio per favorire la concorrenza (comma 3, art.7).
Inoltre,
il provvedimento deve contenere un piano economico- finanziario con la
proiezione, per l’intero periodo della durata dell’affidamento, dei
costi e dei ricavi, degli investimenti e dei relativi finanziamenti;
tale piano deve specificare inoltre l’assetto economico-patrimoniale
della società, il capitale proprio investito e l’ammontare
dell’indebitamento, da aggiornare ogni triennio.
Dulcis in fundo, il piano deve essere “asseverato da un istituto di credito” (comma 4, art.7).
Adempiute
tutte queste incombenze, l’ente locale dovrà inviare lo schema di atto
deliberativo all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, per
un parere che verrà espresso entro trenta giorni (comma 6, art.7).
Nulla
di tutto questo è richiesto per le gestioni attraverso società per
azioni a capitale privato o a capitale misto pubblico-privato.
Chi gestirà le reti e gli impianti?
Poiché nulla dev’essere tendenzialmente sottratto al mercato, ecco la possibilità, sempre “per favorire la tutela della concorrenza”
di affidare la gestione delle reti, degli impianti e della altre
dotazioni patrimoniali separatamente dalla gestione del servizi, nel
qual caso l’affidamento dovrà essere fatto ad una società per azioni a totale capitale pubblico, a società a capitale misto pubblico-privato o a società a capitale privato (coma 4, art.9)
Anche in questo caso, la preferenza per le società miste o private si esprime con la possibilità per le stesse di realizzare direttamente e senza gara d’appalto tutti i lavori connessi alla gestione della rete e degli impianti (comma 2, art. 10)
A chi andranno i finanziamenti pubblici?
Domanda retorica: gli eventuali finanziamenti statali saranno “prioritariamente
assegnati ai gestori selezionati tramite procedura di gara ad evidenza
pubblica (..) ovvero che abbiano deliberato operazioni di aggregazione
societaria” (comma 2, art.33)
Le tariffe remunerano i profitti
Lo
schiaffo al referendum non poteva essere reso più evidente: dopo anni
con cui i profitti erano stati mascherati nella tariffa sotto la
definizione di “oneri finanziari”, viene reintrodotta nella
determinazione delle tariffe dei servizi pubblici locali, “l’adeguatezza della remunerazione del capitale investito” (comma 1, lett. d) art. 25), nell’esatta dizione abrogata dal secondo quesito referendario del giungo 2011.
L’Authority e il consumatore
L’ideologia
liberista del decreto, trasparente in ogni paragrafo del testo, risulta
oltremodo evidente laddove si affrontano le “garanzie” su erogazione e
qualità del servizio. Qui scompaiono sia le comunità locali in quanto
tali, sia il cittadino-utente: entrambi cedono il passo all’individuo
consumatore da una parte -a cui va garantita (art. 24) la carta dei
servizi- e l’Authority dall’altra, che, per l’occasione viene
ridenominata (art.16): “Autorità per energia, reti e ambiente (ARERA)”.
Diritti garantiti dal mercato
Vale la pena riportare un ulteriore passaggio tratto dall’Analisi di Impatto della Regolamentazione allegata al testo di legge.
Ecco cosa si dice alla sezione 4:
“(..) Il decreto attua la delega contenuta nell’articolo 19 della legge
7 agosto 2015, n. 124 e la previsione di limiti e condizioni per
l’assunzione del servizio pubblico locale permette di valorizzare il
ruolo dei privati, secondo la regola generale che alle esigenze
dell’utenza risponde il mercato in libera concorrenza, fatta salva la
necessità di garantire a tutti un servizio che non sarebbe svolto senza
un intervento pubblico”.
Peccato che il comma c) dell’art. 19 della legge cosi recitasse: “individuazione
della disciplina generale in materia di regolazione e organizzazione
dei servizi di interesse economico generale di ambito locale (..) tenendo conto dell’esito del referendum abrogativo del 12 e 13 giugno 2011”
Si
tratta quindi di un’ulteriore violazione: il decreto attuativo di una
legge delega deve infatti attuare, e non stravolgere, quanto previsto
dalla legge delega.
Riflessioni politiche finali
Il
decreto Madia prova a chiudere un cerchio: quello aperto dalla
straordinaria vittoria referendaria sull’acqua del giugno 2011, sulla
quale i diversi governi succedutisi non avevano potuto andare oltre
all’ostacolarne l’esito, all’incentivarne la non applicazione, ad
impedirne l’attuazione.
Questa
volta l’attacco è esplicito: forte di quanto ottenuto con gli attacchi
ai diritti del lavoro (Job Acts), alla scuola pubblica (“Buona Scuola”),
alla difesa dell’ambiente e dei territori (“Sblocca Italia”), il
governo Renzi si sente sufficientemente forte da tentare l’assalto
finale, buttando a mare il referendum del 2011 e privatizzando tutti i
servizi pubblici locali.
Il
rilancio delle privatizzazioni dei servizi pubblici risponde a precisi
interessi delle grandi lobby finanziarie che non vedono l’ora di potersi
sedere alla tavola imbandita di business regolati da tariffe, flussi di
cassa elevati, prevedibili e stabili nel tempo, titoli tendenzialmente
poco volatili e molto generosi in termini di dividendi: un banchetto
perfetto, che Renzi e Madia hanno deciso di apparecchiare per loro.
Con
l’alibi della crisi e la trappola artificialmente costruita del debito
pubblico, si cerca di portare a termine la spoliazione delle comunità
locali, mercificando i beni comuni e privatizzando i servizi pubblici.
Per poter attuare tutto questo, è essenziale sottrarre democrazia. Per
questo, lo schiaffo al referendum non è un semplice effetto collaterale
del decreto Madia, me ne costituisce il cuore e l’anima.
L’ennesima
drammatica partita è appena cominciata. A tutte le donne e gli uomini
che da anni si battono per l’acqua, per i beni comuni e per un altro
modello sociale il compito di giocarla fino in fondo.
Non dobbiamo permettere a Madia/Renzi ciò che abbiamo impedito a Ronchi/Berlusconi.
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