Tutte le borse del pianeta hanno ripreso a scendere in questi ultimi giorni del primo trimestre. Eppure gli investitori erano stati ampiamente rassicurati dalla Federal Reserve statunitense, che nella riunione di martedì aveva non solo lasciato fermi i tassi di interesse, ma soprattutto affermato che il programma di rialzi – quattro nel 2016, secondo il programma definito a dicembre – era di fatto annullato.
Niente riduzioni della liquidità monetaria circolante, dunque.
Ma in tempi di crisi sistemica ogni buona notizia presenta un lato oscuro, anzi nerissimo. Le motivazioni addotte dal presidente della Fed, Janet Yellen, sono infatto altrettante paure. Le economia del pianeta sono in rallentamento o recessione, anche il “motore americano” segna passaggi a vuoto che solo due mesi fa sembravano impossibili, il quadro geopolitico è incerto (Siria, Libia, impazzimento turco e pressioni saudite, ecc), le stesse elezioni americane a fine anno, condizionate da due alieni su fronti opposti (Sanders e Trump) che danno voce all’ex “ceto medio bianco”… Difficile immaginare slanci di crescita a breve.
Così una decisione desiderata – non rialzare i tassi – è diventata motivo maggiore incertezza.
È ormai evidente a tutti gli operatori di mercato, dunque anche agli analisti, che i governatori delle banche centrali non costituiscono pià un’ancora di sicurezza. Le loro mosse, da qualche anno, avvengono al di fuori del quadro concettuale liberista classico. I tassi di interesse negativi – il mondo alla rovescia, quello in cui chi presta denaro se vede restituire di meno, anziché di più – sono ormai realtà quasi dovunque, anche negli Stati Uniti (dove il tasso di inflazione è comunque superiore a quello di interesse). Senza che questo abbia il benché minimo effetto sulla dinamica economica.
Anzi, si cominciano solo ora ad evidenziare i problemi concreti del mondo alla rovescia. Problemi ovviamente mai studiati prima, o al massimo ipotizzati come esercizi intellettuali, per assurdo.
Il primo allarme o avvisaglia di questo nuovo mondo era stato il prezzo del petrolio, in caduta libera (da 110 a 35-40 dollari al berile, nel giro di pochi mesi) senza che si mettesse in moto un aumento dei consumi. E se questo può esser comprensibile per i normali consumatori, come gli automobilisti, stressati da anni di redditi in contrazione, è invece un segnale d’allarme sul lato delle imprese: se non si usa più energia, vuol dire che gli impianti viaggiano al solito – basso – regime.
Yellen ha dovuto dunque prendere atto che «nella misura in cui la recente turbolenza dei mercati finanziari segnala un’accresciuta probabilità di ulteriori frenate all’estero, i prezzi del petrolio potrebbero ricominciare a scendere e il dollaro potrebbe nuovamente risalire». Abituati da sempre a scaricare i propri problemi economici sul resto del mondo, ora gli americani sono obbligati a fare i conti con i rallentamenti altrui, che si rovesciano immediatamente anche al loro interno. E un contemporaneo calo del greggio (di cui sono da pochissimo tornati esportatori netti, grazie alla devastazione dello shale oil) accompagnato dal rialzo del dollaro è una iattura che questi Usa di oggi non possono tollerare.
Anche perché non dispongono più di strumenti analitici in grado di fornire previsioni attendibili, neppure a breve termine. Un’ammissione di impotenza scientifica venuta dalla stessa Yellen: le previsioni dell’istituto centrale «non sono un piano scritto nella pietra», «è ancora troppo presto» per dire se l’inflazione stia aumentando, il ritmo della crescita globale «è motivo di preoccupazione» e «probabilmente sarà quest’anno più lenta di quanto previsto in precedenza». Si naviga a vista, insomma, ma la nebbia è fitta…
D’altro canto, tra i paradossi della prima potenza tecnologica globale, va annoverata la caduta della produttività media nelle imprese Usa, giunta ormai a quasi la metà di quanto registrato negli anni ’90. Vero è che la Silicon Valley è il volto dell’innovazione parossistica, del continuo innalzamento della produttività. Ma solo in quel settore, con ricadute più limitate a monte e a valle. Il grosso della nuova occupazione statunitense è in settori a bassissima composizione organica del capitale, ovvero in aziende con poco capitale fisso (macchinari, ecc) e molto lavoro umano: ristorazione, sanità, distribuzione, pulizie, ecc. Settori in cui la produttività è bassissima e quasi impossibile da migliorare (ritmi e orari sono infatti già vicini al limite fisiologico).
Torna dunque in primo piano una legge economica che, soprattutto in Italia, si tende a dimenticare: la produttività dipende dagli investimenti, non dagli orari di lavoro, da salari ridotti, dalla presenza o assenza di diritti del lavoratore. E se le imprese non investono, la produttività non aumenta, se non di quello zero virgola che si può spremere non pagando contributi, straordinari, maternità, malattia, ferie, ecc.
E proprio i tassi di interesse a zero sono, in questo quadro, un disincentivo ad aumentare la produttività investendo in tecnologie di processo. Un rialzo dei tassi eliminerebbe molte delle imprese più arretrate, ma senza che queste vengano sostituite da altre più avanzate. Come constatava alcuni giorni fa Carlo Bastasin, autorevole editorialista de Ilsole24Ore, “il tradizionale meccanismo di distruzione creativa attraverso il quale le imprese più innovative sostituiscono quelle più tradizionali sembra essersi incagliato”. Il panorama aziendale si divarica, con poche isole di eccellenza e una marea crescente di piccolezze senza ambizioni che vadano al di là della semplice sopravvivenza.
Il sistema nel suo complesso dunque si arresta, vivacchia, sopravvive, ristagna. Gli aumenti di produttività concentrati in pochi settori fanno crescere le disuguaglianze e quindi comprimono indirettamente i consumi di massa (dipendenti dal salario medio nei settori meno competitivi). Le banche centrali si vengono perciò a trova nella classica situazione per cui “comunque fai, sbagli”, Che non è solo il titolo di un serial televisivo, ma il manifestarsi pratico di una contraddizione. Paralizzante.
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