Poche cose sono difficili da guardare in faccia più della verità. Quando bisogna chiamare le cose col loro nome, e magari prendersi a schiaffi da soli, la tentazione di scaricare la colpa su qualcun altro diventa irresistibile.
L’ordine di scuderia è quello solito: evocare un mostro dai contorni indefiniti (il “terrorismo”), modificabili alla bisogna (chiunque può essere definito tale, nel giro di poco tempo), contro cui indirizzare ogni paura sul futuro. E quindi chiamare alla guerra nel modo più acefalo possibile, in un’orgia di “fidatevi di noi”.
A noi sembra più che evidente che tutto ciò che va sotto il nome di “terrorismo” al massimo rappresenta una tecnica militare. Una delle tante possibili, in un arsenale pressoché infinito, ma privilegiata per forza di cose dal soggetto meno forte (classico il caso dei paesi invasi da truppe straniere, oppure delle guerriglie rivoluzionarie spesso connesse con le necessità della liberazione nazionale); oppure da un soggetto che non vuole apparire in modo esplicito come nemico (le altrettanto classiche “operazioni coperte” dei vari servizi segreti), magari perché formalmente alleato del soggetto che invece viene colpito.
Chiamare alla guerra contro una tecnica, anziché contro un nemico con un nome e una faccia, è per molti versi comodo. Per altri terribilmente rischioso. Comodo perché non si deve dichiarare guerra a nessuno, ci si può atteggiare a innocenti e amanti della buona vita civilizzata (basta non parlare dei bombardamenti e delle guerre seminate in giro da oltre 25 anni), meravigliarsi e sconvolgersi per il fatto che c’è qualcuno di così crudele o “folle” da farsi esplodere nelle nostre strade più belle (in effetti è più comodo e asettico farlo bombardando dal cielo); ci si può addirittura riparare dietro “i valori” (solo per un esempio tra i più volgari: http://www.corriere.it/cultura/16_marzo_23/i-nichilisti-l-argine-valori-57ee60e4-f06f-11e5-b1a2-f236e4ccb109.shtml), come se non fosse stato firmato pochi giorni fa un accordo tra l’Unione Europea e il massacratore Erdogan, per affidargli il controllo dei profughi che – secondo il diritto internazionale, dunque anche secondo “i valori” – andrebbero invece accolti e salvati.
È rischioso perché alimenta la confusione perenne, rimuovendo cause, storia, memoria, ragioni e quiindi impedendo di immaginare una qualsiasi soluzione che non sia – banalmente – combattiamo. Anzi, sopportate in silenzio che il potere faccia ciò che vuole, sotto il mantello della guerra contro un nemico senza volto. Nell’epoca degli eserciti di soli professionisti, infatti, alla popolazione civile non si chiede più di armarsi e partire per il fronte, ma solo di obbedire e applaudire, pagando il prezzo delle avventure militari, in termini monetari (tasse) o in corpi straziati da qualche bomba.
Naturalmente questo vale per il pubblico, per i lettori di giornali e i telespettatori attoniti. Gli “editori di riferimenti” sanno benissimo con chi hanno a che fare, quali sono gli interessi calpestati che ora si trasformano in bombe e kamikaze, quali sono i ricatti implici o espliciti che però non si possono dire.
Si trattiene in modo evidente, per esempio, Lucia Annunziata, direttrice dell’edizione italiana dell’Huffington Post:
È ora che si indichi anche il vero nemico politico che c’è dietro il terrorismo. Cioè che si facciano i nomi degli stati che finanziano questo progetto per i loro fini di dominio. Sappiamo chi sono.La si può capire. È stata a lungo direttrice della rivista Oil, finanziata dall’Eni, e sa dunque bene quanti corposissimi interessi impediscano di nominare il nemico reale, quegli “alleati che ci stanno tradendo”.
Sono nostri alleati, ufficialmente. Ma questa ambiguità diplomatica va rotta. Il costo è alto, e non solo in termini di affari. Il rischio di rotture internazionali interstatali acuisce il pericolo di una precipitazione globale ma se non si chiariscono gli schieramenti di questa guerra, non riusciremo certo a costruire strategie di difesa.
Non sembra dunque casuale che l’analisi più lucida sia frutto di Alberto Negri, grande conoscitore del mondo musulmano per averlo attraversato tutto, spesso a piedi e con grande rischio personale, che ha la fortuna di scrivere per IlSole24Ore. Il giornale di Confindustria, ovvero dell’associazione dei padroni e non di un padrone solo. Ossia un giornale che ha l’obbligo di dire ai propri azionisti – gli imprenditori italiani – come stanno le cose, in modo che possano regolarsi con nozione di causa nel condurre i propri affari.
Peccato che il direttore di quello stesso giornale, seguendo un altro obbligo “istituzionale” – quello di supportare il governo e l’establishment europeo, sguazzi nella peggiore retorica – arrivando a invocare Una governance globale per combattere il terrorismo che sa davvero di presa in giro…
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Il fallimento della politica
di Alberto NegriIl sonno della ragione genera mostri e diabolici terroristi. Ma senza memoria la ragione funziona assai male. C’è una geopolitica e una storia del terrorismo islamico che ha due fronti, uno esterno e un altro interno. È sul fronte esterno che tutto comincia. L’errore è stato quello iniziale: dopo l’11 settembre del 2001 gli americani lanciarono una “guerra al terrore” che non solo non ha reso il mondo più sicuro ma l’ha portato nelle case degli europei. Il regime talebano-qaedista venne nominalmente abbattuto ma è in Pakistan che era nato ed lì che poi sono morti il capo di Al Qaeda Osama Bin Laden, nel blitz di Abbottabad, e il Mullah Omar, in un ospedale di Karachi: ma non si poteva certo colpire un Paese con l’atomica che con l’approvazione degli Usa e i finanziamenti dei sauditi aveva sostenuto dal 1979 la guerra dei mujaheddin contro l’Unione Sovietica e causato la sua sconfitta.
Un ufficiale dei servizi pakistani, sostenitore di Bin Laden, mi mostrò appena dopo l’11 settembre un pezzo del Muro di Berlino con una dedica della Cia: «È per questo che lei ha combattuto». Nacque così negli anni ’80 un legame tra Washington e il mondo sunnita più integralista quasi indissolubile: è sufficiente esaminare la relazione con Riad stipulata già nel 1945 con il famoso scambio tra Roosevelt e Ibn Saud “petrolio contro sicurezza”. L’Europa si è infilata in questo rapporto da “free rider” direbbe Obama, scroccando vantaggi politici ed economici. Ma chi semina grandine raccoglie tempesta. Con la guerra del 2003, con cui dei leader approssimativi volevano ridisegnare il Medio Oriente, gli Usa hanno scoperchiato il vaso di Pandora è non l’hanno più richiuso.
Al Qaeda, da cui in seguito è nato l’Isis, dall’Afghanistan si spostò in Mesopotamia. I gruppi jihadisti si sono moltiplicati e dopo il Califfato ci sarà qualche cosa d’altro, soprattutto se andremo a bombardare in Libia come nel 2011 senza sapere davvero cosa fare e con chi. La Tunisia sta già pagando l’instabilità nordafricana del post-Gheddafi che ha contagiato tutto il Sahel e le frontiere europee da un pezzo sono sprofondate di alcune migliaia di chilometri a Oriente e Occidente: l’Europa di Bruxelles è stata l’ultima ad accorgersene finendo con l’arrangiare un dubbio accordo sui profughi con la Turchia.
Il Califfato non aveva inizialmente come obiettivo l’Occidente ma in primo luogo il governo sciita di Baghdad e poi quello filo iraniano di Assad: lo scopo era la rivincita dei sunniti in Mesopotamia e nel Levante, un proposito condiviso dalla Turchia e dalle monarchie del Golfo, Arabia Saudita in testa. Con l’evidente menzogna di sostenere un’opposizione moderata quasi inesistente, gli Stati Uniti hanno dato via libera alla Turchia per aprire “l’autostrada della Jihad” con l’afflusso di migliaia di jihadisti da tutto il mondo musulmano, Europa compresa.
La risacca sanguinosa di un conflitto con 250mila morti e milioni di profughi da qualche tempo è tornata e vive accanto a noi. Il delirio terrorista del jihadismo ha una sua logica alla quale non siamo per niente estranei. Ma oggi versiamo lacrime, stringiamo i denti, paghiamo i nostri errori e magari anche qualche promessa mancata. Gli Stati Uniti e la Francia progettavano nel 2013 di bombardare il regime di Damasco e fino a ieri hanno continuato a proclamare che Assad doveva andarsene: quando non è avvenuto i jihadisti hanno deciso di vendicarsi. Nel 2014, prima che tagliassero la testa a un cittadino americano, gli Usa non avevano fatto una piega quando Mosul era caduta in mano all’Isis, assistendo alla rotta di Baghdad senza intervenire. Poi è iniziata una guerra al Califfato tra le più ambigue della storia militare recente. Lo stesso è accaduto con i militanti dell’Isis in Turchia. Ankara ne ha fatti passare migliaia, li ha anche usati contro i curdi siriani, poi con l’intervento della Russia a fianco di Assad ha dovuto rinunciare a entrare in Siria per pendersi Aleppo e Mosul in Iraq grazie agli accordi con l’Isis: anche qui i jihadisti si vendicano del loro sponsor Erdogan a colpi di attentati.
Sono oltre 35 anni che le potenze occidentali si appoggiano a quelle arabe del Golfo che utilizzano, armano e finanziano l’estremismo islamico – è avvenuto anche in Bosnia – per scaricarlo quando non serve più. Questo spiega pure quanto accade sul fronte interno europeo dove legioni di sociologi si affanneranno a spiegare come mai intere periferie sono diventate roccaforti del radicalismo. I jihadisti hanno portato la guerra del Siraq nelle nostre case, che poi sono anche le loro, perché i nostri alleati gli hanno fatto credere che l’avrebbero vinta.
Nella lotta al terrorismo si intersecano piani differenti ma non così incomprensibili. Per fare la lotta al terrore ci vuole una polizia informata, ad alta penetrazione sociale, come avrebbe detto un grande agente come Calipari, ma l’aspetto più controverso e decisivo è districare i nodi che tengono avviluppato l’Occidente ai complici del jihadismo, ai loro mandanti materiali e ideologici. Prima ancora del fallimento dell’intelligence c’è stato quello della politica.
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