Il 22 marzo è la giornata mondiale delle risorse idriche. Dietro questa data simbolo ci sono i cambiamenti climatici, l’approvvigionamento di cibo, politiche migratorie e battaglie per tariffe eque. Con movimenti trasversali che ne hanno fatto una bandiera dei beni comuni.
Una giornata per l’acqua. Una giornata mondiale e una data simbolo – il 22 marzo – per ricordare quanto è indispensabile alla vita e quanti interessi ci sono in gioco. Nata nel 1992 su spinta delle Nazioni Unite, oggi la sua assenza o, al contrario, la sua abbondanza è diventata soprattutto sinonimo di cambiamenti climatici e diritti negati, tutela dei beni comuni e inquinamenti macroscopici come ha ricordato il geologo svedese Jan Lundqvist, esperto di fama internazionale che ha inventato il neologismo «idrocidio». «Stiamo uccidendo l'acqua che porta la vita» ha spiegato con un concetto semplice Lundqvist.Rischi globali legati alla scarsità, migrazioni delle popolazioni, aumento degli abitanti e quindi la necessità di produrre più cibo. La maggior parte del consumo idrico serve all'agricoltura e agli allevamenti intensivi, in pratica l'acqua viene soprattutto impiegata per produrre quello che arriva sulla nostra tavola. E poi le battaglie per i beni comuni che uniscono i movimenti e la lotta internazionale per i diritti e tariffe eque. Tutto questo è (anche) acqua.
IL TUO VOTO NON CONTA
Nel nostro Paese a tenere banco è la volontà del Governo di annullare la scelta di 26 milioni di italiani che hanno votato per la gestione pubblica dei sistemi idrici. Oggi a distanza di cinque anni da quella vincente battaglia referendaria alla Camera due emendamenti Pd chiedono l'abolizione dell'articolo che prevede l’obbligo della gestione pubblica.
Un attacco frontale al comitato acqua pubblica che ha risposto con una petizione ( via change.org ) inviata direttamente al premier Matteo Renzi scritta dal deputato di Sel Franco Bordo: «Il Governo e i deputati democratici hanno modificato una proposta di legge stralciando l'articolo che da corpo e realizza la gestione esclusivamente pubblica dell'acqua aprendo la possibilità di gestione ad aziende private. Abbiamo ancora la possibilità di intervenire, prima che la proposta, ormai così stravolta da spingere gli stessi proponenti a ritirarsi, diventi effettivamente legge. Dobbiamo unirci e fare pressione. Non è una questione partitica o ideologica: si tratta di far udire la voce corale degli italiani affinché sia rispettata la loro volontà».
Mentre la politica sceglie il modello migliore negli ultimi dieci anni nelle città della Penisola le tariffe dell’acqua hanno continuato ad aumentare (più 60 per cento) così come il suo tasso di dispersione nelle tubature: più di un terzo di quanto immesso in rete continua a essere sprecato.
E non stupisce che abbiamo la maglia nera per impronta idrica pro capite, con un totale annuo di 2.232 metri cubi di acqua dolce. Un quantitativo che viene calcolato considerando il volume totale di acqua dolce impiegata in tutte le fasi, anche quella cosiddetta “virtuale” o invisibile, contribuendo al 90 per cento del totale del consumo giornaliero.
Un esempio: il consumo varia anche in base al tipo di dieta e con un regime alimentare ricco di carne, ecco che l’acqua “virtuale” schizza fino a 5.400 litri, a differenza di una dieta vegetariana che, invece, va dai 1.500 ai 2.600 litri.
DAL LOCALE AL GLOBALE
La geopolitica per il controllo dell'acqua è anche una storia di grande attivismo che parte da una rivendicazione locale per diventare un tema globale. La madre di tutte le battaglie è nella città boliviana di Cochabamba . Nel 1999 scoppia la cosiddetta “guerra dell’acqua” diventando un caso mondiale. Un braccio di ferro durato mesi, con la popolazione opposta al proprio governo, responsabile di aver venduto l’acqua della regione a un gruppo di multinazionali straniere.
Nel paese più povero del continente latinoamericano si fanno avanti, a partire dagli anni ottanta, i piani di aggiustamento imposti dal Fondo monetario internazionale per ripianare il debito estero. E anche la Banca mondiale che fa pressione per aprire alle privatizzioni delle imprese statali. Vengono così venduti i monopolisti elettrici, l’industra petrolifera, le ferrovie e le telecomunicazioni, infine l’acqua.
A settembre del 1999 il presidente Hugo Banzer e l’ex sindaco della regione, Manfred Reyes Villa, vendono infatti per 2 miliardi e mezzo di dollari le acque superficiali e sotterranee della regione di Cochabamba al gruppo transnazionale “Aguas del Tunari”, un consorzio dalla nascita ambigua: la prima sede alle isole Cayman poi, dopo la firma del contratto, una casella postale di Amsterdam. Proprietarie a metà di questa impresa sono due colossi: l’italiana Edison e la statunitense Bechtel.
L’accordo prevedeva l’aumento delle tariffe, l’installazione di contatori a carico degli utenti, il monopolio della gestione al consorzio per quarant’anni e l’esproprio dei sistemi tradizionali di approvvigionamento delle comunità contadine e dei quartieri urbani. Veniva garantito un profitto annuo del 15 per cento. Un mese dopo il Parlamento approvava velocemente una nuova legge che tra l’altro, aboliva gli usi civici dopo cinque anni.
A gennaio del 2000 arrivano le nuove bollette, con aumenti fino al 300 per cento. La protesta esplode, i campesinos e la gente scende in strada contro la polizia e, al prezzo di 6 morti e centinaia di feriti, vince la sua battaglia per un diritto basilare perché neppure quella piovana era più gratis.
Oggi a distanza di sedici anni il mondo ha dimezzato la percentuale di persone che non hanno accesso a una fonte potabile, e l’acqua è stata riconosciuta dalle Nazioni Unite come un diritto umano fondamentale proprio grazie a una risoluzione proposta dalla Bolivia.
Eppure, nel paese da cui tutto è partito, c'è ancora chi cammina ogni mattina per rifornirsi da un fiume contaminato, mentre gli attivisti della prima ora accusano il governo di Evo Morales di aver usato l’acqua come uno strumento di clientelismo, come raccontato da “l’Espresso” nel webdoc “Bolivia's everyday water war” .
LA DEAD CITY WALKING IN ANATOLIA
In molte regioni del mondo in cui l'acqua sembrerebbe disponibile (come in Brasile, Cina, India, Turchia), larghe fasce della popolazione non riescono a far valere il proprio «titolo valido», secondo la definizione del premio Nobel per l'economia Amartya Sen. Un «titolo non valido» anche per i curdi che vivono sul fiume Tigri.
“Gli arabi hanno il petrolio, noi l'acqua”, recita un proverbio turco che qui ripetono come un mantra. Così la storia recente di Hasankeyf, l’antica città nel sud-est dell'Anatolia, considerata un gioiello abbandonato dell'architettura mondiale, ora ha gli anni contati.
Diecimila anni di storia con una data di scadenza. Hasankeyf ai margini del Kurdistan, è una “dead city walking”. Da più di un decennio, infatti, questa cittadina sul fiume Tigri vive sotto la minaccia della diga di Ilisu: un progetto faraonico che quando sarà completato manderà sott'acqua l'intero borgo e i suoi monumenti, risparmiando forse solo la punta del minareto della moschea di El Rizk, che risale al 1400 e conserva le iscrizioni di tutti i 99 modi con cui viene chiamato Allah.
Il progetto della diga da un miliardo e duecento milioni di euro e finanziato inizialmente anche da aziende italiane, dopo un primo stop nel 2008 è ripartito ed oggi è completato per l'80 per cento.
L'acqua, in questa zona dell'Anatolia, è fondamentale. Un centinaio di chilometri più a ovest, la diga di Ataturk ha radicalmente modificato le condizioni economiche e naturali dell'area intorno a Urfa, la città di Abramo: i contadini che un tempo vivevano nelle capanne e d'estate dormivano all'aperto su baldacchini azzurri per confondere gli scorpioni, oggi si possono permettere moderne abitazioni con l'aria condizionata. Il problema è che l'ecosistema è andato in tilt ed è comparsa persino la malaria.
Negli ultimi anni, Hasankeyf (ma sono oltre 200 i siti archeologici minacciati dalla diga di Ilisu) ha attirato l'attenzione di organizzazioni e associazioni. Sono nate in tutto il mondo petizioni e iniziative per cercare di salvarla e il Governo turco ha provato a rassicurare gli abitanti, proponendo loro costosissimi appartamenti sulla collina poco lontano.
La stragrande maggioranza ha rifiutato: chi è nato e cresciuto ad Hasankeyf ha scelto per ora di restare, cercando di sfruttare il più possibile l'insolita ondata di popolarità che sta portando ondate di turisti turchi e non solo a visitare la perla con i giorni contati.
Dignità e orgoglio, ma anche e soprattutto rassegnazione: in molti, senza alternative, hanno accettato di lavorare per la diga che sommergerà il proprio paese e oggi, tra i tavoli dei ristoranti dove si mangia con i piedi a mollo nel fiume e dietro le bancarelle dei souvenir, si vive alla giornata, con la speranza che lo spirito che ha consentito a Hasankeyf di sopravvivere a saccheggi e dominazioni, riesca a far superare anche la prova più difficile di oltre diecimila anni di storia.
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