mercoledì 16 gennaio 2019

L’Europa massacrata dall’Unione Europea.

Oggi è giornata di piccole soddisfazioni… Dopo tre settimane, anche i giornali economici italiani – e solo quelli, mentre il mainstream gioca cone le “armi di distrazione di massa” – si sono accorti che la Cina ha messo in campo una colossale manovra di stimolo dei consumi interni, in modo da mettersi almeno in parte al riparo dalla tempesta in arrivo.
 
 

Milano Finanza, per esempio, parla di “Asia in festa e futures su Wall Street ben intonati, oggi”, riferendosi soprattutto ai benefici portati da questa manovra sui mercati finanziari. Proprio mentre cominciavano seriamente a preoccuparsi della frenata generale dell’economia mondiale, particolarmente accentuata in Europa (con una media del -2% nella produzione industriale nell’ultimo mese) e specialmente in Germania (-4,7).
Ancora non è diventata consapevolezza generale, invece, che nella recessione incipiente è il “modello mercantilista europeo” quello destinato a saltare. In estrema sintesi: la Germania, tramite i trattati dell’Unione Europea, scritti sempre sotto la propria supervisione (altrimenti non avrebbero passato l’esame della Corte costituzionale di Karlsruhe, l’unica a mantenere prevalente la propria Carta rispetto ai trattati), ha imposto un modello di capitalismo fondato sulla compressione salariale in modo da essere “competitivi” nelle esportazioni. Per maggiore sicurezza di profittabilità a favore dei capitali privati, i trattati impongono anche una forte riduzione del debito che limiti al massimo gli investimenti pubblici, sia nell’economia reale che nel sostegno indiretto al salario (sanità, istruzione, pensioni, ecc).

Un modello del genere sembra fichissimo nei periodi crescita economica generale, ma diventa suicida quando si va in recessione. E nell’ultimo decennio ci si è andati piuttosto spesso, visto che questa in partenza è ormai la terza.
Se poi ci aggiungiamo una Bce gestita avendo come unico scopo il “controllo dell’inflazione” (e non anche il sostegno all’occupazione, come nel caso della Federal Reserve statunitense), ecco che vengono a mancare del tutto gli strumenti classici per contrastare le crisi. Lo stesso Mario Draghi, negli ultimi anni, ha dovuto definire tutti i suoi interventi come “non convenzionali”; ossia improvvisati, al di fuori di un quadro coerente con lo statuto della Bce.
La stesa Bce, in questi giorni, sta imponendo alle banche la svalutazione degli Npl (non performig loan, prestiti che difficilmente rientreranno), accantonando coperture fino al 100% del loro valore nominale. La tempistica sarà variabile a seconda dello stato di salute dei vari istituti, ma non dovrebbe superare l’orizzonte del 2016.
Che significa? Che le banche non concederanno più molti prestiti ai soggetti dell’economia reale (famiglie e imprese), se non a fronte di “garanzie” patrimoniali più che solide. In pratica è come curare la febbre (la recessione) imponendo di immergersi nell’acqua gelida.
La Cina, non a caso, applica la ricetta opposta: favorire consumi di massa alzando il salario medio e contemporaneamente abolendo le tasse sui salari, riducendo fortemente quelle delle piccole imprese (che non hanno mercato internazionale, in genere), incentivando i prestiti all’economia reale e orientando lo sviluppo con grandi investimenti pubblici. Secondo la banca olandese Ing, ci sarebbero 2.000 miliardi di yuan (300 miliardi di euro) in taglio delle tasse e altri 2.000 per investimenti da decidere nelle amministrazioni locali. Proprio come nei Comuni italiani, vero?
Ma qualcosa di simile sta avvenendo anche negli Stati Uniti, in parte favorendo le imprese che ri-localizzano la produzione negli Usa (aveva cominciato già Obama), in parte facendo crescere i salari anche per le mansioni meno qualificate.
Ma se i due big dell’economia mondiale cercano di tener vivo il proprio mercato interno, anche a scapito di quello globale, ne consegue che il terzo (l’Unione Europea) si troverà in maggiore difficoltà, visto che ha fortemente ridotto il proprio e soprattutto non sembra aver nessuna intenzione di sostenerlo.
Persino un ministro di questo governo, come Paolo Savona (ex direttore generale di Confindustria e tante altre cariche nei cda che contano), è costretto a sottolineare che la gestione della crisi da parte di Bruxelles “ha spaccato l’Europa tra paesi creditori e paesi debitori, aiutando i partiti populisti a emergere”; tanto più che “la crisi può tornare, e potrebbe consegnarci una condizione politica anche peggiore”.
Al contrario di quanto sta facendo la Bce, occorrerebbe invece “evitare che le banche e i debiti sovrani si trascinino a vicenda, danneggiando l’economia. Le difformità tra le economie dell’eurozona richiedono che gli shock locali vengano compensati della perdita della loro indipendenza monetaria (…) In linea con le regole EU, esse devono avere più margini per uno stimolo fiscale nelle crisi. Ciò, tuttavia, per le stesse regole UE non è possibile per i paesi come l’Italia afflitti da decenni di debito elevato. I cittadini degli Stati indebitati non possono sopportare una stagnazione perpetua (….) L’eurozona dovrebbe avere una qualche politica fiscale centralizzata in funzione anticiclica (…) che includa una spesa per investimenti finalizzata e (…) una comune assicurazione per la disoccupazione”.
Niente di tutto questo è alle viste. Ma che la situazione sia davvero grave è confermato addirittura da uno come Mario Monti, che qualche settimana fa – dopo anni di tortura contro la spesa pubblica – è arrivato a ipotizzare la necessità di non calcolare gli investimenti pubblici all’interno del deficit. In pratica, di “sforare” i parametri di Maastricht ogni volta che c’è bisogno di stimolare una economia privata altrimenti pronta alla fuga.
Divertente, vero?

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