martedì 1 gennaio 2019

Il capitalismo entra nella sua fase senile

contropiano
L’inizio d’anno distrae sempre un po’, anche sul piano delle “percezioni”. La visione si distorce nella comunque fiduciosa attesa che “il nuovo” porti novità, sperabilmente positive. E’ un momento che, paradossalmente, accorcia la capacità di visione, facendo passare in secondo piano sia la durezza delle cose che, soprattutto, “il lungo periodo”. Quello che determina entità e direzione dei processi storici, anche economici, e che ben poco risente di quanto avviene nel breve arco di 365 giorni.

Pensiamo perciò sia utile riproporvi questa intervista a Samir Amin, rilasciata a Ruben Ramboer nel 2012, che non ha perso un grammo della sua attualità. Del resto, il vecchio saggio ricorda lui stesso che – in fondo – la crisi attuale (segnalata da tutti a partire dal 2007-2008) si colloca al di qua di un crinale storico ben più fondamentale. Visto da lui e pochi altri già nella svolta degli anni ‘70.
Dedicato a chi ha sempre così fretta di “vedere i risultati” da rinunciare per sempre a capire in che direzione stiamo andando. Sono tanti, se ci pensate un attimo… Sicuramente quanti quelli che, con la scusante dei “tempi lunghi”, non muovono mai un passo perché non è mai “il momento giusto”.
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Il capitalismo entra nella sua fase senile
Ruben Ramboer intervista Samir Amin
 da www.ptb.be
Traduzione dal francese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
“Il pensiero economico neoclassico è una maledizione per il mondo attuale”. Samir Amin, 81 anni, non è tenero con molti dei suoi colleghi economisti. E lo è ancor meno con la politica dei governi. “Economizzare per ridurre il debito? Menzogne deliberate”; “Regolazione del settore finanziario? Frasi vuote”. Egli ci consegna la sua analisi al bisturi della crisi economica
Dimenticate Nouriel Roubini, alias dott. Doom, l’economista americano diventato famoso per avere predetto nel 2005 lo tsunami del sistema finanziario. Ecco Samir Amin, che aveva già annunciato la crisi all’inizio degli anni 1970. “All’epoca, economisti come Frank, Arrighi, Wallerstein, Magdoff, Sweezy ed io stesso, avevamo detto che la nuova grande crisi era cominciata. La grande. Non una piccola con le oscillazioni come ne avevamo avute tante prima, ricorda Samir Amin, professore onorario, direttore del forum del Terzo Mondo a Dakar ed autore di molti libri tradotti in tutto il mondo. “Siamo stati presi per matti. O per comunisti che desideravano quella realtà. Tutto andava bene, madama la marchesa… Ma la grande crisi è davvero cominciata a quel tempo e la sua prima fase è durata dal 1972-73 al 1980”. Inoltre Samir Amin afferma recisamente: “essere marxista implica necessariamente essere comunista, perché Marx non dissociava la teoria dalla pratica: l’impegno nella lotta per l’emancipazione dei lavoratori e dei popoli”.

Parliamo per cominciare della crisi degli ultimi cinque anni. O piuttosto delle crisi: quella dei subprimes, quella del credito, del debito, della finanza, dell’euro… A che punto siamo?

Samir Amin. Quando tutto è esploso nel 2007 con la crisi dei subprimes, tutti hanno fatto finta di non vedere. Gli europei pensavano: “Questa crisi viene dagli Stati Uniti, la assorbiremo rapidamente”. Ma, se la crisi non fosse venuta da là, sarebbe cominciata altrove. Il naufragio di questo sistema era scritto e lo era fin dagli anni 1970. Le condizioni oggettive di una crisi di sistema esistevano ovunque.
Le crisi sono inerenti al capitalismo, che le produce in modo ricorrente, ogni volta in modo più profondo. Non si possono comprendere le crisi separatamente, ma in modo globale. Prendete la crisi finanziaria. Se ci si limita a questa, si troveranno soltanto cause puramente finanziarie, come la deregolamentazione dei mercati. Inoltre, le banche e gli istituti finanziari sembrano essere i beneficiari principali di quest’espansione di capitale, cosa che rende più facile indicarli come unici responsabili. Ma occorre ricordare che non sono soltanto i giganti finanziari, ma anche le multinazionali in generale che hanno beneficiato dell’espansione dei mercati monetari. Il 40% dei loro profitti proviene da operazioni finanziarie.

Quali sono state le ragioni oggettive della diffusione della crisi?

Le condizioni oggettive esistevano ovunque. È la sovranità “degli oligopoli o dei monopoli generalizzati” che ha posto l’economia in una crisi di accumulazione, che è allo stesso tempo una crisi di sottoconsumo ed una crisi di profitto. Solo i settori dei monopoli dominanti hanno potuto ristabilire il loro tasso di profitto elevato, distruggendo però il profitto e la redditività degli investimenti produttivi, degli investimenti nell’economia reale. 

“Il capitalismo degli oligopoli o monopoli generalizzati” è il nome con cui lei chiama una nuova fase di sviluppo del capitalismo. In cosa questi monopoli sono diversi da quelli di un secolo fa?

La novità è nel termine “generalizzato”. Dall’inizio del 20° secolo, ci sono stati attori dominanti nel settore finanziario e nel settore industriale, nella siderurgia, la chimica, l’automobile, ecc. Questi monopoli erano grandi isole nell’oceano delle piccole e medie imprese, realmente indipendenti. Ma, da una trentina di anni, assistiamo ad una centralizzazione sproporzionata del capitale. La rivista Fortune cita oggi 500 oligopoli le cui decisioni controllano l’intera economia mondiale, dominando a monte e a valle tutti i settori di cui non sono direttamente proprietari. Prendiamo l’agricoltura. Una volta un contadino poteva scegliere tra molte imprese per le sue attività. Oggi, piccole e medie imprese agricole devono affrontare a monte il blocco finanziario di colossi bancari e monopoli di produzione dei fertilizzanti, dei pesticidi e degli OGM di cui Monsanto è l’esempio più eclatante. E, a valle, deve affrontare le catene di distribuzione e i grandi supermercati. Con questo doppio controllo, la sua autonomia e i suoi redditi si riducono sempre di più.

È per questo che lei preferisce parlare oggi di un sistema basato “sulla massimalizzazione di rendite monopolistiche” piuttosto che “di massimalizzazione del profitto?”
Sì. Il controllo garantisce a questi monopoli rendite provenienti dal reddito complessivo del capitale ottenuto dallo sfruttamento del lavoro. Queste entrate diventano imperialiste nella misura in cui questi monopoli operano nel Sud. La massimalizzazione di queste entrate concentra i redditi e le fortune nelle mani di una piccola élite a scapito dei salari, ma anche dei vantaggi del capitale non monopolistico. La disuguaglianza crescente diventa assurda. In definitiva è paragonabile ad un miliardario che possiede il mondo intero e lascia tutti nella miseria.

I liberali sostengono che occorre “ingrandire la torta” reinvestendo i profitti. È soltanto dopo che si può operare la divisione.
Ma non si investe nella produzione, poiché non vi è più domanda. Le rendite sono investite dalla fuga in avanti sui mercati finanziari. L’espansione di un quarto di secolo di investimenti nei mercati finanziari non ha precedenti nella storia. Il volume delle transazioni su questi mercati è più di 2.500.000 miliardi di dollari, mentre il PIL mondiale è di 70.000 miliardi di dollari.
I monopoli preferiscono questi investimenti finanziari a quelli nell’economia reale. È “la finanziarizzazione” del sistema economico. Questo tipo d’investimento è l’unico modo per continuare questo “capitalismo dei monopoli generalizzati”. In questo senso, la speculazione non è un vizio del sistema, ma un’esigenza logica di quest’ultimo.
È nei mercati finanziari che gli oligopoli – non soltanto le banche – fanno i loro profitti e si fanno concorrenza tra loro per questi profitti. La sottomissione della gestione delle aziende al valore delle azioni della borsa, la sostituzione del sistema pensionistico con la capitalizzazione del sistema a ripartizione, l’adeguamento dei tassi di cambio flessibili e l’abbandono della determinazione del tasso d’interesse da parte delle banche centrali, lasciando questa responsabilità “ai mercati”, devono essere comprese in questa finanziarizzazione.

La deregolamentazione dei mercati finanziari è nel mirino da qualche anno. I dirigenti politici parlano “di moralizzazione delle operazioni finanziarie” e “di sbarazzarsi del capitalismo-casinò”. La regolazione sarebbe dunque una soluzione alla crisi?

Queste non sono che parole, frasi vuote per fuorviare l’opinione pubblica. Questo sistema è destinato a proseguire la sua pazza corsa alla redditività finanziaria. La regolazione peggiorerebbe ancor più la crisi. Dove andrebbe allora l’eccedenza finanziaria? Da nessuna parte! Comporterebbe una massiccia svalutazione del capitale, che si tradurrebbe tra l’altro in un crac di borsa.
Gli oligopoli o monopoli (“i mercati”) ed i loro servitori politici, non hanno dunque altro progetto che restaurare lo stesso sistema finanziario. Non è escluso che il capitale sappia restaurare il sistema esistente prima dell’autunno 2008. Ma ciò richiederà somme gigantesche delle banche centrali per eliminare tutti i crediti tossici e ristabilire il profitto e l’espansione finanziaria. E il conto dovrà essere accettato dai lavoratori in generale e dai popoli del Sud in particolare. Sono i monopoli che hanno l’iniziativa. E le loro strategie hanno sempre dato i risultati sperati, vale a dire i piani d’austerità.

In effetti questi piani d’austerità si succedono, a quanto pare, per ridurre i debiti degli stati. Ma si sa che ciò peggiora la crisi. I dirigenti politici sono degli imbecilli?
Ma no! È sull’obiettivo che c’è menzogna. Quando i governi pretendono di volere la riduzione del debito, mentono deliberatamente. L’obiettivo non è la riduzione del debito, ma che gli interessi del debito continuino ad essere pagati e, preferibilmente, a tassi ancora più elevati. La strategia dei monopoli finanziari, al contrario, ha bisogno della crescita del debito: il capitale ci guadagna, sono investimenti interessanti.
Nel frattempo l’austerità peggiora la crisi, c’è chiaramente una contraddizione. Come diceva Marx, la ricerca del massimo profitto distrugge le basi che lo permettono. Il sistema implode sotto i nostri occhi, ma è condannato a proseguire la sua folle corsa.

Dopo la crisi degli anni 1930, comunque lo Stato è stato capace di superare parzialmente questa contraddizione ed è stata adottata una politica keynesiana di rilancio.
Sì, ma quando è stata introdotta questa politica keynesiana? All’inizio, la risposta alla crisi del 1929 è stata esattamente la stessa di oggi: politiche di austerità, con la loro spirale discendente. L’economista Keynes diceva che era assurdo e che occorreva fare il contrario. Ma è soltanto dopo la Seconda Guerra Mondiale che è stato ascoltato. Non perché la borghesia fosse convinta delle sue idee, ma perché ciò è stato imposto dalla classe operaia. Con la vittoria dell’Armata Rossa sul nazismo e la simpatia per la resistenza comunista, la paura del comunismo era davvero molto presente.
Oggi alcuni – non molto numerosi – economisti borghesi intelligenti, possono dire che le misure d’austerità sono assurde. Ed allora? Finché il capitale non sarà costretto dai suoi avversari ad allungare con l’acqua il suo vino, tutto questo continuerà.

Quale è il legame tra la crisi emersa da qualche anno e quella degli anni 1970?

All’inizio degli anni 70 la crescita economica ha subito una caduta. Nel giro di qualche anno, i tassi di crescita sono scesi alla metà di quelli del trentennio glorioso: in Europa dal 5 al 2,5%, negli Stati Uniti dal 4 al 2%. Questa caduta brutale era accompagnata da una caduta di medesima ampiezza degli investimenti nel settore produttivo.
Negli anni 1980, Thatcher e Reagan hanno reagito con le privatizzazioni, la liberalizzazione dei mercati finanziari e una durissima politica di austerità. Ciò non ha fatto risalire i tassi di crescita, ma li ha mantenuti ad un livello molto basso. D’altra parte lo scopo dei liberali non è mai stato il ripristino della crescita che dicevano. Lo scopo era soprattutto di ridistribuire i redditi verso il capitale. Missione compiuta. Ed ora, quando in Belgio si passa dal -0,1% allo 0,1% di crescita, alcuni esultano: “La crisi è terminata!” È grottesco.

Lei compara gli anni 1990 e 2000 con quelli del secolo precedente: una sorta di seconda “Belle Epoque”.
Ho fatto il parallelo tra le due lunghe crisi perché, curiosamente, cominciano esattamente con cento anni di differenza: 1873 e 1973. Inoltre, hanno gli stessi sintomi all’inizio e la risposta del capitale è stata la stessa, cioè tre serie di misure complementari.
In primo luogo, una centralizzazione enorme del capitale con la prima ondata dei monopoli, quelli analizzati da Hilfirding, Hobson e Lenin. Nella seconda crisi, ciò che chiamo “i monopoli generalizzati” che si sono costituiti negli anni 1980.
In secondo luogo, la mondializzazione. La prima grande crisi è l’accelerazione della colonizzazione, che è la forma più brutale della globalizzazione. La seconda ondata, sono i piani d’adeguamento strutturale del FMI, che si possono qualificare come ricolonizzazione.
Terza ed ultima misura: la finanziarizzazione. Quando si presenta la finanziarizzazione come un fenomeno nuovo, sorrido. Cosa è stato creato in risposta alla prima crisi? Wall Street e la City di Londra nel 1900!
E ciò ha avuto le stesse conseguenze. Inizialmente, per un periodo breve, sembrava funzionare, perché si pompava sui popoli, soprattutto quelli del Sud. Fu dal 1890 al 1914, la “Belle Epoque”. Si sono tenuti gli stessi discorsi “sulla fine della storia” e la fine delle guerre. La globalizzazione era sinonimo di pace e di colonizzazione per una missione civilizzatrice.
Ma, a cosa ha condotto tutto ciò? Prima Guerra Mondiale, Rivoluzione Russa, crisi del 1929, nazismo, imperialismo giapponese, Seconda Guerra Mondiale, Rivoluzione Cinese, ecc. Si può dire che dopo il 1989 c’è stata una sorta di seconda “Belle Epoque”, fino al 2008, sebbene sin dall’inizio, sia stata accompagnata da guerre del Nord contro il Sud. Il capitale ha, in questo periodo, stabilito le strutture affinché gli oligopoli potessero beneficiare delle loro rendite. E, come la globalizzazione finanziaria ha condotto alla crisi del 1929, ha recentemente condotto alla crisi del 2008.
Oggi, si è raggiunto lo stesso momento determinante che annuncia una nuova ondata di guerre o di rivoluzioni.

Senza tanto ridere, su quest’immagine futura… Lei scrive che “un nuovo mondo sta nascendo, che può diventare di gran lunga più barbaro, ma che può anche diventare migliore”. Da che cosa dipende?

Non ho la sfera di cristallo. Ma il capitalismo è entrato nella sua fase senile, che può causare enormi spargimenti di sangue. In questo periodo, i movimenti sociali e le proteste portano cambiamenti politici, verso il meglio o verso il peggio, fascisti o progessisti. Le vittime di questo sistema riusciranno a formare un’alternativa positiva, indipendente e radicale? Questa è oggi la sfida politica.

Quali sono le caratteristiche di questo “capitalismo senile” che potrebbe, a suo giudizio, condurre “ad una nuova era di grandi spargimenti di sangue”?

Non esistono più imprenditori creativi, ma “dei wheeler-dealers” (intriganti). La civilizzazione borghese, con il suo sistema di valori – elogio dell’iniziativa individuale, ma anche dei diritti e delle libertà liberali come della solidarietà sul piano nazionale – ha fatto posto a un sistema senza valori morali. Guardate ai criminali presidenti degli Stati Uniti, ai burattinai e tecnocrati alla testa dei governi europei, ai despoti del Sud; guardate all’oscurantismo (talebani, sette cristiane e buddisti…); alla corruzione generalizzata (nel mondo finanziario in particolare)… Il capitalismo d’oggi può essere descritto come senile e può inaugurare una nuova era di massacri. In un periodo siffatto, le proteste dei movimenti sociali portano a cambiamenti politici. Nella buona e nella cattiva sorte, fascisti o progressisti. La crisi degli anni 1930 ad esempio, ha condotto al Fronte Popolare in Francia, ma anche al nazismo in Germania.

Che cosa significa tutto ciò per i movimenti di sinistra attuali?

Viviamo un’epoca dove si profila un’ondata di guerre e di rivoluzioni. Le vittime di questo sistema riusciranno a dar vita a un’alternativa positiva, indipendente e radicale? Questa è la sfida politica oggi. Occorre che la sinistra radicale prenda l’iniziativa nella costruzione di un fronte, di un blocco alternativo antimonopolista che comprenda tutti i lavoratori e produttori vittime di questa “oligarchia dei monopoli generalizzati”, di cui faccia parte la classe media, gli agricoltori, le Piccole Medie Imprese…

Lei afferma che la sinistra deve rinunciare a qualsiasi strategia che aiuti il capitalismo ad uscire dalla crisi.

È tempo di mostrare audacia! Non siamo in un momento storico in cui la ricerca “di un compromesso sociale” tra capitale e lavoro, costituisca un’alternativa possibile, come nel dopoguerra con la socialdemocrazia degli Stati assistenzialisti. Alcuni nostalgici si immaginano di poter “fare arretrare” il capitalismo dei monopoli alla posizione di alcuni decenni fa. Ma la storia non permette mai un ritorno al passato.
Siamo in questo momento storico e la sinistra radicale deve essere audace. Parlo della sinistra che è convinta che il sistema capitalista debba essere sostanzialmente superato. Ma anche di una sinistra che non perde di vista il socialismo, che deve essere inventato senza avere necessariamente un modello preesistente. Nei paesi del Nord, ci sono le condizioni oggettive per isolare il capitale dei monopoli. Ciò comincia con un’alleanza sociale e politica che raccoglie la stragrande maggioranza.

Questa audacia esiste, oggi?

Attualmente la mancanza d’audacia a sinistra è terribile. Vi ricordate come i socialdemocratici erano contenti quando il regime sovietico è crollato e con esso i Partiti comunisti dell’Europa occidentale? Ho detto loro: “Siete stupidi. I prossimi a cadere sarete voi, il capitale ha avuto bisogno di voi soltanto perché c’era la minaccia comunista”. E, anziché radicalizzarsi, al contrario sono scivolati verso destra. Sono diventati social-liberali. Attualmente, il voto socialdemocratico o di destra, è equivalente. Tutti dicono: “Non possiamo fare nulla, è il mercato che decide, le agenzie di rating, il super partito del capitale dei monopoli.”
Si vedono anche segmenti importanti della sinistra radicale che accettano questo, per timore o per confusione. Allo stesso tempo c’è gente che si definisce “comunista”, considerandosi però nulla di più che l’ala sinistra della socialdemocrazia. È sempre la stessa logica di accomodamento del capitalismo. La logica del “meno peggio”, del “ce lo impone l’Europa”, argomentazione per eccellenza. “L’Europa non è buona, ma la distruzione dell’Europa sarebbe ancora peggio“. Ma di meno peggio, in meno peggio, si arriva alla catastrofe. Due anni fa, abbiamo detto ai greci, via! una piccola cura d’austerità e tutto andrà a posto! Si, ma di che giorno del mese? L’ottavo?
Quali potrebbero essere le parole d’ordine “dell’alleanza sociale e politica” che propone?
L’idea generale è la creazione di un blocco antimonopolista. Occorre un progetto globale che rimetta in discussione il potere “dei monopoli generalizzati” (vedi sopra). Non possiamo sognare che gli individui possano cambiare il mondo solo con il miracolo della loro azione individuale, idea che si trova in molti movimenti socialisti ed in filosofi come Toni Negri. Questo blocco antimonopolista comincia col spiegare che esistono alternative alle politiche di austerità, in forma divulgativa, rompendo il discorso del capitale “di competitività e moderazione salariale”. Perché non dire l’opposto, cioè che i salari non sono sufficienti e i profitti troppo grandi?
Nel migliore dei casi, ciò conduce ad una leggera riduzione delle disuguaglianze…
Non è naturalmente abbastanza. Una sinistra autentica deve ribaltare il disordine sociale prodotto dai monopoli. Strategie per garantire la massima occupazione e garantire salari adeguati, che procedano parallelamente alla crescita. È semplicemente impossibile senza espropriare i monopoli.
I settori chiave dell’economia devono dunque essere nazionalizzati. Le nazionalizzazioni sono, in un primo momento, statalizzazioni, il trasferimento della proprietà del capitale privato allo Stato. Ma l’audacia consiste qui “nel socializzare” la gestione dei monopoli nazionalizzati.
Prendiamo questi monopoli che controllano l’agricoltura, le industrie chimiche, le banche e la grande distribuzione. “Socializzare” significa che gli organi di gestione comprendono rappresentanti degli agricoltori, dei lavoratori dei monopoli preesistenti, certamente, ma anche delle organizzazioni di consumatori e degli enti locali (concernenti l’ambiente, ma anche la scuola, la casa, gli ospedali, l’urbanistica, il trasporto…)
Un’economia socialista non si limita alla socializzazione della sua gestione. Il socialismo non è solo il capitalismo senza i capitalisti. Deve integrare la relazione tra l’uomo, la natura e la società. Continuare sulla forma che il capitalismo propone, significa ritornare a distruggere l’individuo, la natura ed i popoli.
Cosa si fa di Wall Street e della City?
Occorre “una definanziarizzazione”. Un mondo senza Wall Street, per riprendere il titolo del libro di François Morin. Ciò implica imperativamente la soppressione pura e semplice dei fondi speculazioni e dei fondi pensione, diventati operatori principali nella finanziarizzazione. L’abolizione di quest’ultimi deve essere realizzata a vantaggio di un sistema di pensioni per ripartizione. Occorre riconsiderare interamente il sistema bancario. Negli ultimi decenni, il sistema bancario è diventato troppo centralizzato e solo alcuni giganti dettano legge. Di conseguenza, si potrebbe concepire “una banca dell’agricoltura”, o “una banca dell’industria” nelle quali i consigli di amministrazione eletti siano composti dai clienti e dai rappresentanti dei centri di ricerca e dei servizi per l’ambiente.

Come vede il ruolo di movimenti come Occupy, degli Indignati e dei Sindacati, nella lotta contro i monopoli?

Che ci sia negli Stati Uniti un movimento come Occupy Wall Street è un segnale magnifico. Che non si accettino più quelle ingiunzioni come “non ci sono alternative” e “l’austerità è obbligatoria”, è molto positivo. Idem per gli Indignati in Europa. Ma sono movimenti che restano deboli, che non ricercano sufficienti alternative.
I sindacati svolgono un ruolo importante, ma devono ridefinirsi. Le parole d’ordine di cinquanta anni fa sono superate. Cinque decenni fa, quattro lavoratori su cinque avevano un’occupazione sicura e stabile, e la disoccupazione non esisteva quasi del tutto. Oggi, solo il 40% ha un lavoro stabile, il 40% lavora con un contratto precario e il 20% è disoccupato. La situazione è radicalmente diversa. I sindacati non possono dunque limitarsi a rivendicazioni che riguardano soltanto la metà della classe dei lavoratori. È assolutamente necessario che si tenga conto del diritto dei disoccupati e dei precari. Si tratta spesso di gente d’origine immigrata, di donne e di giovani.
Come vede la relazione tra la lotta di classe nel Nord e nel Sud?
I conflitti capitalismo/socialismo e nord//sud, non sono dissociabili. Il capitalismo è un sistema mondiale e le lotte politiche e sociali, se vogliono essere efficaci, devono essere condotte simultaneamente in ambito nazionale e su piano mondiale. Questo Marx voleva dire con “proletari di tutti i paesi, unitevi!”. Essere comunista vuole anche dire essere internazionalista.
È assolutamente indispensabile integrare la questione del clima, delle risorse naturali e dell’ambiente nel conflitto Nord-Sud. La proprietà privata di queste risorse e l’uso improprio del pianeta, mettono in pericolo il futuro di tutta l’umanità. L’egoismo degli oligopoli nel Nord è stato brutalmente espresso da Bush, che ha dichiarato “the American way of life is not negotiable” (lo stile di vita americano non è negoziabile). Quest’egoismo ritorna a negare al Sud l’accesso alle risorse naturali (80% dell’umanità).
Credo che l’umanità non possa impegnarsi seriamente nella costruzione di un’alternativa socialista se non si cambia questo “way of life” nel Nord, cosa che non vuole dire che il Sud debba solo pazientare.
Al contrario, le lotte nel Sud riducono le rendite imperialiste e indeboliscono la posizione dei monopoli nel Nord, cosa che rafforza le classi popolari del Nord nella loro lotta per la socializzazione dei monopoli. La sfida nel Nord è che allora l’opinione generale non debba limitarsi alla difesa dei suoi privilegi a scapito dei popoli del Sud.

Le economie di paesi emergenti come la Cina, il Brasile, la Russia e il Sudafrica, non minacciano già un po’ il potere “dei monopoli generalizzati”?

Dal 1970 il capitalismo predomina il sistema mondiale con cinque vantaggi: il controllo dell’accesso alle risorse naturali, il controllo della tecnologia e della proprietà intellettuale, l’accesso privilegiato ai media, il controllo del sistema finanziario e monetario e, infine, il monopolio delle armi di distruzione di massa. Chiamo questo sistema ” apartheid su scala globale” (segregazione su scala mondiale).
Implica una guerra permanente contro il Sud, una guerra iniziata nel 1990 dagli Stati Uniti e i suoi alleati della NATO in occasione della prima Guerra del Golfo. Ma i paesi emergenti, soprattutto la Cina, sono intenti a decostruire questi vantaggi. Per primo, la tecnologia. Si passa dal “Made in China” al “Made by China”.
La Cina non è più l’officina del mondo per le filiali o i soci del grande capitale dei monopoli. Controlla la tecnologia per svilupparsi. In alcuni ambiti in particolare, quello del futuro dell’automobile elettrica, del solare, ecc., possiede tecnologie d’avanguardia in anticipo sull’occidente. D’altra parte, la Cina lascia che il sistema finanziario mondializzato, si distrugga. E finanzia anche la sua autodistruzione attraverso il deficit americano e costruendo in parallelo mercati regionali indipendenti o autonomi attraverso “il gruppo di Shanghai”, che comprende la Russia, ma potenzialmente anche l’India ed il Sud-est asiatico.
Sotto Clinton, una relazione della sicurezza americana prevedeva anche la necessità di una guerra preventiva contro la Cina. E’ per farvi fronte che i cinesi hanno scelto di contribuire alla morte lenta degli Stati Uniti, finanziandone il deficit. La morte violenta di una bestia di questo genere sarebbe troppo pericolosa.

Ed i paesi dell’America del Sud?

Le democrazie popolari in America latina hanno certamente indebolito la rendita imperialista. Ma avranno difficoltà ad andare più lontano nel loro sviluppo finché culleranno l’illusione di uno sviluppo nazionale capitalista autonomo. Lo si vede chiaramente in Bolivia, in Ecuador o in Venezuela. Lo si vede meno in Brasile perché è un paese molto grande, che ha risorse naturali gigantesche. Hanno iniziato la cooperazione tra loro con l’ALBA. Ma l’ALBA resta finora modesta in confronto alla cooperazione militare, economica e diplomatica del gruppo di Shanghai, che si stacca dall’economia mondiale dominata dai monopoli occidentali. Ad esempio, nulla è pagato in dollari o in euro. Il Sud America può anche “sganciarsi” dal capitalismo dei monopoli. Ha le possibilità tecniche e risorse naturali per fare commercio Sud-Sud. Cosa che era impensabile molti decenni fa.

Versione ridotta di un’intervista di Samir Amin tratta da Etudes marxistes n° 99
La prima parte di quest’intervista è stata pubblicata su Solidaire n°38 e la trovate anche in
www.ptb.be/nieuws/artikel/interview-samir-amin-1-le-capitalisme-entre-dans-sa-phase-senile.html
Vedi anche Samir Amin,
Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi?, Il Tempo delle ciliege, 2009.
Traduzione dal francese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

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