mercoledì 1 luglio 2015

Star bene senza PIL - Una battaglia ideologica

Fonte: sbilanciamociAutore: Claudio Gnesutta
L’inganno sta nel fatto che esso offre un’informazione distorta del progresso sociale. Questa consapevolezza ha sollecitato da tempo la costruzione di indicatori più appropriati del livello di “ben-essere” di una nazione. L’importanza dei nuovi indicatori risiede – oltre a certificare meglio le condizioni sociali esistenti – nel ruolo che avrebbero nel definire, in direzione socialmente più appropriata, gli obiettivi della politica economica.

La necessità di una tale innovazione è evidente nell’attuale fase storica nella quale la politica economica sta forzando la trasformazione degli assetti sociali ereditati dal passato. Legittimato da una teoria economica ristretta alle dimensioni strettamente economiche e quantitative del processo sociale, quando non ridotta esclusivamente agli aspetti finanziari, il policy maker può ignorare le altre dimensioni qualitative del benessere in quanto irrilevanti per le sue conclusioni.
Per tener conto del rapporto tra processo economico e situazione ambientale e socio-culturale non è peraltro sufficiente sviluppare una gamma di indicatori alternativi; è necessaria una teoria economica capace di spiegare come l’azione della politica economica influenzi e sia influenzata da quei fattori del benessere attualmente esclusi dal suo dominio di indagine.
Non si tratta di una questione teorica astratta, anzi. Si consideri, ad esempio, il caso – del Jobs Act? – nel quale la crescita della Pil è perseguita modificando la capacità contrattuale dei lavoratori con il deterioramento delle tutele e lo svilimento del loro ruolo e della loro dignità. Non disponendo di alcuna spiegazione della relazione tra benessere, aumento del Pil (peraltro sperato) e regressione nei rapporti di lavoro (peraltro certi), qualsiasi giudizio sugli effetti di questa politica in termini di benessere risulta infondato. In sostanza, assumere come obiettivo di politica economica il livello del Pil – solo parte del benessere della popolazione – condanna le prescrizioni degli economisti ad essere un’informazione distorta; tali prescrizioni non possono che avere un carattere “autoritario” quando - come si vede nel caso Grecia – si impone una teoria di riferimento che prevede una società ridotta ai soli rapporti economici per mettere a tacere le possibili alternative bollate come non scientifiche perché guardano al di là della sola contabilità nazionale.
Il superamento del Pil come criterio sufficiente per valutare i risultati perseguiti dalla politica economica non pone solo una questione analitica (l’estensione del dominio di indagine dell’economista), ma pone anche una questione politica dato che, in società complesse come la nostra, l’obiettivo di benessere può essere declinato in diversi modi. In altre parole, vi possono essere nel corpo sociale diverse idee di progresso sociale e civile tra le quali poter scegliere e ciò richiede la realizzazione di meccanismi di democrazia partecipata in grado di favorire, in uno spazio aperto e trasparente, le necessarie mediazioni tra interessi inevitabilmente diversi. In definitiva, assumere come riferimento il benessere piuttosto del Pil impone la ricerca di forme più avanzate di analisi economica e di pratiche democratiche.
Ma inevitabili sono anche le resistenze dei poteri costituiti. Ridimensionare il ruolo del Pil nel dibattito e nelle scelte politiche significa intaccare il potere tecnocratico fondato su una teoria economica che non ammette alternative all’assolutezza delle sue prescrizioni. La conquista di spazi di effettiva democrazia passa quindi anche attraverso la contestazione di quel nodo culturale che è l’informazione economica basata sul Pil che, a sua volta, è parte significativa di quella egemonia culturale fondata sulla pretesa “scientificità” di argomentazioni che, in maniera arbitraria e pretestuosa, delimitano i fattori (il prodotto invece del benessere) rilevanti per il futuro della società.

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