Il 2 marzo 1919 si apriva a Mosca il congresso di fondazione della Terza Internazionale. L’Internazionale Comunista si sciolse nel giugno 1943. Pubblichiamo un estratto dal libro di Lucio Magri “Il sarto di Ulm” in cui, prima di esaminare la complessa e originale storia del partito comunista italiano, traccia un bilancio della vicenda del comunismo tra le due guerre mondiali. Fortunatamente disponibile anche in edizione economica il libro di Magri è uno strumento fondamentale di conoscenza e riflessione sulla storia dei comunisti nel Novecento. Non possiamo che consigliarne la lettura.
Utile invece, perché oscurato da
successive e più aspre divisioni e oggi quasi dimenticato, è ricordare
l’esito cui quel tentativo arrivò nel periodo del suo decollo, cioè la
sua “straordinaria ascesa, su ogni versante, nel corso di poco più di
vent’anni, e i risultati ottenuti, molti dei quali permanenti. Conquiste
politiche: allargamento sostanziale in molti importanti paesi
dell’accesso al voto, spazi di libertà di parola, di stampa e di
organizzazione, pur pagando cruente repressioni, carcerazioni, esili.
Conquiste sociali: riduzioni dell’orario di lavoro, diritto alle
«coalizioni dei lavoratori», cioè alla contrattazione collettiva, primi
passi di assistenza sanitaria e previdenziale e di tutela di donne e
bambini, istruzione elementare obbligatoria. Crescita organizzativa (in
Germania quasi un milione di iscritti) e crescita elettorale (intorno al
1910 la socialdemocrazia raggiunse, in Germania ma non solo, oltre il
35% dei voti e divenne il primo partito in Parlamento). Infine successi
culturali: il marxismo penetrò nelle università (oltre che nelle
fabbriche, nelle carceri e fino in Siberia), formando gruppi dirigenti
di grande valore e imponendo ai maggiori intellettuali che lo
avversavano di confutarlo, ma prendendolo sul serio. Anche qualche
insorgenza rivoluzionaria, contro stati autoritari, sconfitta ma non
inutile, come in Russia nel 1905, o vincente, come in Messico. Una così
sorprendente e rapida ascesa era connessa a un’unità di fondo che, al di
là dei dissidi passati o di quelli in gestazione su alcuni punti, era
sufficiente a definire un’identità, a mobilitare grandi speranze in
grandi masse. Non c’era socialista, per quanto riformista e gradualista,
che non credesse alla necessità e alla possibilità di un superamento
del sistema capitalistico come obiettivo finale del suo impegno. Non
c’era socialista, per quanto rivoluzionario e impaziente, che “negasse
la necessità di una permanente e strutturata organizzazione politica,
con una precisa connotazione di classe, e come sede per formare una
coscienza di classe. La parola socialista e quella comunista non si presentavano quindi in quel contesto divergenti, tanto meno incomponibili
, designavano anzi la differenza e la complementarietà tra una fase di
transizione, più o meno lunga, e un approdo cui quella transizione
doveva portare.
Basta il semplice restauro della memoria di quella fase fondativa a
dirci qualcosa di importante su tante sciocchezze che tormentano la
discussione dei nostri giorni. Soprattutto quanto sia stato fondamentale il contributo del movimento operaio marxista alla nascita della democrazia moderna
, nei suoi caratteri essenziali e distintivi: sovranità popolare, nesso
tra libertà politica e condizioni materiali che la rendano
esercitabile. Quanto sia stato importante il nesso tra organizzazione,
pensiero strutturato, partecipazione di massa per fare di una plebe, o
di una moltitudine di individui, un protagonista collettivo della storia
reale. Infine, quanto sia parimenti assurdo supplire oggi a un vuoto di
analisi e di teoria riverniciando dietro nuovi nomi idee già logore e
battute un secolo fa, come l’anarchismo; o usare parole antiche, come
socialdemocrazia, per indicare idee o scelte del tutto diverse da ciò
che erano nate per indicare.
2. Nel giro di pochi anni, però, quel
movimento che sembrava avviato a essere una «potenza» precipitò in una
crisi verticale, si ruppe in molti frammenti. Perché? Perché si scontrò
con un evento tanto sconvolgente quanto difficile da leggere e da
governare: la Prima guerra mondiale.
Sembra ben strano, se non fosse
rivelatore, che, ancor oggi, l’acceso dibattito sul Novecento, e in
particolare sui suoi aspetti tragici, abbia trascurato o marginalizzato
quel passaggio storico fondamentale e «costituente» per l’intero secolo.
A dire il vero, l’incapacità di elaborare una convincente
spiegazione di quella guerra, delle sue cause, della sua portata e delle
sue conseguenze non è sorprendente in sé. L’intera generazione che la
visse e vi partecipò con convinzione, presto ne misurò concretamente la
tragedia: milioni e milioni di morti e di invalidi, economie demolite,
stati e imperi che si dissolvevano, particolarmente nei paesi perdenti
ma ovunque in Europa, colpirono l’intera società, quasi tutti gli strati
sociali, certezze e culture che sembravano consolidate. La sorpresa era
stata grande per tutti, perché ragioni e responsabilità di un tale
disastro sembravano, in quel momento, inspiegabili, non c’era una crisi
economica o sociale che spingesse a un conflitto militare di quelle
dimensioni e a quei costi, la spartizione coloniale del mondo si era
quasi conclusa con mediazioni accettate, la competizione tra le potenze
per l’egemonia, pur evidente, si svolgeva sul terreno finanziario e
tecnologico. Le stesse classi dominanti, pur da tempo impegnate in un
riarmo a scopo dimostrativo, non prevedevano e non auspicavano una
guerra mondiale, le alleanze tra loro apparivano casuali e
contraddittorie al loro interno, fino all’ultimo riluttavano al passo
decisivo. Ma poi, la scintilla di Sarajevo e una concatenazione quasi
casuale di provocazioni fatte alla leggera avevano portato al
precipitare di una guerra mondiale, alla quale i nuovi armamenti davano
il carattere mai conosciuto di «guerra totale». E masse enormi vi
parteciparono con la piena convinzione di «difendere la propria patria e
la propria civiltà», sopportando il ruolo di «massa da macello». Questa
duplice e contraddittoria coscienza («la guerra come incidente» o la
«guerra di difesa dall’aggressore») segnò a lungo la memoria collettiva,
cui concorse anche la grande intellettualità. Più tardi intervenne,
critica ma altrettanto limitativa, la teoria – Croce ne è un esempio –
della «parentesi di irrazionalità»; infine, prevalse stabilmente la
lettura della Prima guerra mondiale come lotta tra le «democrazie»
occidentali (che però erano al momento anche le maggiori potenze
coloniali) e gli imperi autocratici (peccato che il Kaiser e lo Zar
combattessero in campi diversi e gli americani fossero intervenuti solo
all’ultimo momento). È quest’ultima la lettura oggi codificata: la Prima
guerra mondiale come anticipazione di uno scontro che poi si ripropose
nella Seconda guerra mondiale e nella guerra fredda (non a caso un
presidente della Repubblica italiana, brava persona, è di recente
arrivato a chiamare «quarta guerra di indipendenza» quel primo conflitto
che un papa aveva definito giustamente «inutile strage»). Sarebbe
interessante approfondire questo discorso, dedicandolo ai tanti che
assolvono il capitalismo e il liberalismo dalla responsabilità della
faccia oscura del Novecento, compresi i legami che lo uniscono
all’attuale teoria della guerra preventiva. Ma ci porterebbe lontano da
ciò che ci interessa: le conseguenze della Prima guerra mondiale sul movimento operaio marxista
, sulle sue divisioni e metamorfosi, sulla nascita del comunismo.
Onestamente non si può dire che il movimento operaio sia stato sorpreso.
Al contrario, già a cavallo tra i due “secoli, non solo si sviluppò una
discussione in cui il tema della guerra via via acquistava maggior
rilievo, ma si andava direttamente al cuore del problema, se ne
indagavano le cause, la si collegava a una lettura generale della fase
storica, con una serietà di analisi e un impegno teorico di cui
rimpiangere il livello.
Chi ritualmente ripete che il marxismo è sempre stato prigioniero di
uno schema e per sua natura sempre incapace di cogliere le continue
trasformazioni del sistema che avversava, può qui trovare una delle
possibili smentite: parlo del grande dibattito sull’imperialismo, nel
quale il problema della guerra era parte e conclusione proprio di
diverse analisi della grande trasformazione del capitalismo intervenuta
negli ultimi decenni. Questa trasformazione già obbligava a rivedere
molte delle previsioni contenute nel Manifesto di Marx, e
delle strategie a esso legate, investiva e collegava fenomeni diversi e
contraddittori. Tanto per citare i più importanti: il salto tecnologico,
allora rappresentato dall’introduzione sistematica delle nuove scienze
nella produzione (chimica, elettricità, comunicazioni a distanza,
meccanizzazione agraria); la nuova composizione sociale, per la
concentrazione del lavoro operaio in grandi impianti industriali e le
differenziazioni nelle sue capacità professionali, cui si affiancava il
declino del ceto artigianale e commerciale, ma anche la crescita di un
nuovo e non meno numeroso ceto medio legato a funzioni impiegatizie e
ancor più a funzioni pubbliche; lo spazio maggiore per concessioni
salariali, in parte offerto dai proventi di uno sfruttamento coloniale
meno primitivo; la finanziarizzazione dell’economia con le società
azionarie e i grandi trust sostenuti dalle banche. E poi l’istruzione
generale, che riduceva l’analfabetismo ancora dominante ma creava
barriere di classe non meno rigide; la rapida accelerazione degli scambi
commerciali mondiali e l’esportazione “di capitali anche oltre i
confini degli imperi, che riapriva una competizione per l’egemonia,
spingeva al riarmo e accresceva il peso politico delle caste militari
per sostenerla; infine, l’allargamento del suffragio che imponeva e
permetteva di cercare, e spesso di ottenere, il consenso con nuovi
strumenti ideologici come il nazionalismo e il razzismo.
Molto di tutto ciò fu avvertito dai
gruppi “dirigenti del movimento operaio con una serietà e un impegno
scientifico invidiabili, ma li spingeva a interpretazioni diverse e a
conclusioni, all’inizio non cristallizzate ma via via divaricanti
(Lenin, Luxemburg, Hilferding, Kautsky, Bernstein e dietro di loro,
partecipi, intellettuali e operai, partiti e loro frazioni, sindacati).
Da una parte il nuovo capitalismo fu visto come conferma della
possibilità di una via graduale, tutto sommato indolore, al socialismo,
quasi un esito naturale dello sviluppo, da cui si deduceva la priorità
affidata al parlamentarismo e al tradeunionismo: autoritarismo e guerra
potevano intervenire nel percorso, ma erano evitabili e non l’avrebbero
comunque interrotto. Da un’altra parte l’imperialismo fu visto come fase
suprema e putrescente del capitalismo, l’avvio di una degenerazione:
concentrazione del potere effettivo dietro la maschera di un
parlamentarismo screditato e corrotto, sviluppo sempre più ineguale del
mondo, antagonismo tra grandi potenze, proteso a cercare all’esterno
risposte alle ricorrenti crisi di sottoconsumo, a raccogliere intorno a
sé ceti medi oscillanti con il furore patriottico, e a isolare la classe
operaia e i contadini. La guerra in questo caso era nel conto, ne
andava denunciato il carattere imperialistico e poteva offrire
un’occasione rivoluzionaria o sprofondarsi in una inutile strage.
Entrambe le parti “però non ritenevano la guerra imminente e, per
ragioni opposte, non pensavano che avrebbe cambiato profondamente il
corso delle cose. Perciò fu possibile per tutto il movimento socialista
assumere un solenne impegno contro la guerra, ma non sviluppare una
campagna di mobilitazione di massa che forse, data l’incertezza dei
governi, avrebbe potuto almeno rinviarla o permettere di non esservi
coinvolti.
Ma quando la guerra, quel tipo di
guerra, scoppiò, travolse il mondo e travolse la Seconda internazionale.
La maggioranza dei più importanti partiti che la componevano (con la
timida eccezione di quello italiano) tradì l’impegno a opporvisi e a
denunciarla. Lenin rimase solo. La parola tradimento non mi piace, e la
sua ripetizione ossessiva rappresentò un ostacolo grave,
successivamente, a ogni tentativo di dialogo o di convergenza, possibile
e necessaria; in quel momento però era fondata. Non mi riferisco solo
al voto dei parlamentari socialdemocratici sui crediti di guerra e al
sostegno dei governi belligeranti, né solo alla passività e anzi allo
stimolo con i quali i gruppi dirigenti contribuirono al furore
patriottico dei loro militanti e dei loro elettori, all’equivoco della
difesa della patria che ormai diventava volontà di vittoria. Mi
riferisco al fatto che anche quando – di fronte ai morti, alla fame,
all’uso cinico della «carne da macello» da parte delle caste militari – i
popoli, non solo nei paesi perdenti, cominciarono ad aprire gli occhi e
si produssero delusione, rabbia, diserzione, scioperi (anzi, anche dopo
la conclusione della guerra), quei gruppi dirigenti mantennero ferma
un’intesa con gli apparati burocratici e con la casta militare, per
garantire la loro continuità e chiamarli a «garantire l’ordine».
Rifiutarono “sia un’improbabile rivoluzione sia un serio tentativo di
democratizzazione politica e di riforme sociali, ruppero cioè con le
proprie stesse radici. E ne pagarono il prezzo: come forza politica e
come pensiero quella che ancora si chiamava socialdemocrazia rimase per
decenni marginale, dispersa, impotente, e ritrovò un ruolo importante
solo dopo la Seconda guerra mondiale, modificando in sostanza la propria
identità socialista in liberaldemocratica, ala sinistra, nel bene e nel
male, nel campo occidentale.
Dall’altro lato chi sulla guerra aveva avuto ragione, e dalle
insorgenze popolari sperava di intravedere l’esito di una rivoluzione
socialista, dovette constatare la propria minorità, cercare scorciatoie e
subire sconfitte e repressioni nell’Occidente europeo, si raggruppò
intorno al pensiero leninista (convinto richiamo e insieme revisione
profonda del marxismo originario) e intorno alla sola eredità effettiva
che la guerra aveva lasciato: la rivoluzione, in un grande paese
arretrato e destinato a un lungo isolamento, la Russia
. Qui dunque nacquero la forza e il richiamo, e altrettanto le
difficoltà e i limiti, di un nuovo soggetto politico che decise di
chiamarsi comunista, che ambiva a un ruolo mondiale, ed effettivamente
lo esercitò per molti decenni.
Arriviamo così al tema più controverso
ma ineludibile di una vera nuova riflessione sulla questione comunista.
Quello che segna il limite estremo tra revisione, critica e abiura e,
paradossalmente, è rimasto marginale e implicito nel dibattito storico e
politico degli ultimi anni: la lettura e il giudizio sulla Rivoluzione bolscevica e il suo consolidamento in un grande Stato e in una organizzazione internazionale.
È stata una scelta sciagurata che
portava già dall’origine in sé i cromosomi delle peggiori degenerazioni,
e alla fine si è autodissolta dopo aver fatto danni pesanti? Allora non
occorre spaccare il capello, ricostruire un processo storico nel suo
contesto: basta individuare quei cromosomi, far parlare il fatto della
sconfitta finale, lasciarlo al solo lavoro accademico, politicamente
archiviarlo. La «spinta propulsiva» dell’Ottobre non si è mai esaurita,
semplicemente non c’è mai stata. Oppure la Rivoluzione russa è stata un
grande evento propulsivo per la democrazia e l’incivilimento,
successivamente tradito dal potere personale e dalla burocratizzazione,
senza rapporto con il contesto storico dal quale era “originato e in cui
si collocava? Allora basta una robusta denuncia dello stalinismo, una
franca critica di chi non lo ha condannato in tempo, la fierezza
dell’antifascismo, per sentirsi liberi di cominciare da capo, in «un
mondo nuovo».
La mia indagine sul comunismo italiano
nella seconda parte del secolo vorrebbe appunto contribuire a una
valutazione più seria e circostanziata di quel che la Rivoluzione russa
ha avviato. Ma non potrebbe neppure cominciare, e risulterebbe falsata,
senza un breve accenno alle vicende di quella fase: gli anni tra le due guerre
. Perché proprio su quelli si sono accumulate nella memoria censure ed
equivoci di cui occorre sbarazzarsi. E perché in quella vicenda il
comunismo italiano ha poi trovato sia le risorse, sia i limiti, per la
costruzione di un grande partito di massa e la ricerca di una propria
«via al socialismo».
3. La Rivoluzione russa non ci sarebbe stata, né avrebbe retto, senza Lenin
, il Partito bolscevico, il suo insediamento nella pur minoritaria ma
concentrata classe operaia, il livello e la saldezza del suo gruppo
dirigente, non diviso ma allargato dalla confluenza del gruppo
trosckista e dal rientro di tanti esuli già formati in vari angoli
dell’Europa. Ma ancor meno ci sarebbe stata senza la guerra mondiale.
Furono la disgregazione dello Stato autocratico, la fame nelle città, i
milioni di contadini semianalfabeti strappati ai loro villaggi per
combattere, la loro insorgenza in un’armata in disfatta e la
delegittimazione dei suoi vertici a renderla una scelta possibile. I
soviet non furono l’invenzione di un partito, quanto una spinta
organizzativa indotta dalla necessità e dalla rabbia, avevano alle
spalle il 1905, e in essi si svolse un’effettiva lotta per l’egemonia
nella quale si affermò un’autorità riconosciuta e prese forma un
programma. Lenin, che pure aveva già elaborato la teoria dello sviluppo
ineguale, e dunque della rottura a partire dagli anelli più deboli della
catena, aveva resistito a lungo all’idea che essa potesse assumere un
carattere socialista, tanto meno consolidarsi, in un paese
economicamente e culturalmente arretrato (per questo aveva confutato
l’idea trockista della rivoluzione permanente). Ancora all’inizio della
guerra, era convinto che la Russia doveva e poteva essere il punto di
innesto di una partita il cui esito si sarebbe giocato in Occidente, là
dove il socialismo poteva contare su basi «più solide». La scelta di
conquistare subito e direttamente il potere statale fu presa da lui, e
contro molte esitazioni dei suoi compagni, quando non solo il potere
esistente era in una crisi irrecuperabile. La maggioranza del popolo
voleva fermamente la Repubblica, la terra, la pace immediata, che i
partiti liberaldemocratici non volevano né potevano concedere. Il potere
ai soviet e la conquista del Palazzo d’inverno avvennero su quel
«programma minimo», cui si aggiungeva la nazionalizzazione delle banche,
luogo e strumento del capitale estero. La rivoluzione non aveva
alternative, se non la restaurazione del potere autocratico o la
precipitazione nell’anarchia e nella dissoluzione dell’unità di uno
Stato “multinazionale”. E infatti avvenne in forma relativamente
incruenta (i feriti, nella presa del Palazzo furono meno numerosi di
quelli che costò la ricostruzione successiva dell’evento per un film). E
aveva, nel merito, un consenso nella popolazione larghissimo, per
quanto poteva esserlo in un paese immenso, disperso, analfabeta, e mai
unificato se non dal mito dello Zar e da una religione superstiziosa.
Nulla a che fare con un atto giacobino, da parte di una minoranza che
approfittando di un’occasione conquistava il potere. A quel programma ci
si attenne, anche contrastando spinte più radicali, come nel caso della
pace di Brest-Litovsk.
A dar però poi forma al nuovo potere
(deperimento dei soviet, sistema monopartitico, limitazione delle
libertà, esecuzione della famiglia imperiale, polizia segreta) fu la
vocazione, come oggi si dice, autoritaria del leninismo, o la coerente
ed estrema applicazione di alcuni concetti apertamente formulati da Marx
(«violenza come levatrice della storia», «dittatura del proletariato»)?
A me non pare vero, o quanto meno mi pare una parte secondaria del
vero. Basta rileggere e comparare due saggi di Lenin scritti a breve
distanza tra loro per rendersene conto: Stato e rivoluzione ,
al cui centro c’è l’idea di una democrazia (che rimane pur sempre una
dittatura come lo è ogni Stato) ma assume un carattere più avanzato
perché fondato su istituzioni partecipative dirette, rappresenta la
maggioranza del popolo e garantisce il contenuto di classe del nuovo
Stato; e La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky in
cui la dittatura proletaria appare invece «senza limiti» e l’istanza
democratica viene assorbita nel partito che la rappresenta e
l’organizza.
Il ruolo decisivo lo ebbero invece due fatti enormi. Anzitutto la lunga e tremenda guerra civile
con una straordinaria partecipazione di massa che confermò la
legittimità della rivoluzione ma devastò il paese in ogni angolo, quanto
e ancor più della guerra mondiale. Quella guerra civile non fu
provocata né combattuta contro forze liberali o borghesi ma, nel modo
più spietato, da armate zariste in nome della restaurazione,
prevalentemente con il reclutamento delle popolazioni che avevano sempre
gestito le repressioni imperiali, e con il sostegno dei governi inglese
e francese. E fu vinta dai bolscevichi al prezzo di una ferrea
militarizzazione, e lasciò dietro di sé caos nella produzione in ogni
settore, campagne costrette all’autoconsumo, ancor più fame nelle città,
proletariato industriale decimato e disperso, emigrazione degli strati
tecnicamente qualificati (salvo una parte che dalla rivoluzione era
stata conquistata e l’Armata rossa integrò senza remore). Anche una
semplice organizzazione della sopravvivenza spingeva ormai verso un
esercizio centralizzato e duro del potere.
Seconda novità: l’esaurirsi del
sommovimento di massa che in Occidente, soprattutto in Germania, per un
breve momento sembrò annunciare una possibile rivoluzione, ma presto si
dimostrò minoritario rispetto all’intera società. Non aveva obiettivi
chiari, né una guida politica sicura, né quadri, si ripresentò a lungo,
ma in rivolte disperse e occasionali, facilmente represse da apparati
militari ancora in piedi e da corpi di volontari nazionalisti.
Esecuzioni sommarie e assassini selettivi (da Rosa Luxemburg fino a
Rathenau) vennero usati non solo per sbarrare la strada a una
rivoluzione che non c’era, ma anche alla democratizzazione politica e a
limitate riforme sociali. Già in quel momento pesò non poco l’insensata
imposizione del trattato di Versailles e l’arroganza dei vincitori nel
gestirlo.
Cambiava così tutto il quadro: la Rivoluzione russa, al di là
dell’emergenza della ricostruzione, doveva affrontare insieme i problemi
dell’accumulazione primitiva, dell’organizzazione di uno Stato quasi
mai esistito, e ormai distrutto, della prima alfabetizzazione per un 80%
della popolazione, in un totale e minaccioso isolamento. Lenin
comprese, almeno in parte, la realtà. Liquidò seccamente entusiasmi e
furori del comunismo di guerra, impose la Nep, che ebbe presto successo,
avviò una politica estera prudente che poi portò al trattato di
Rapallo. Giunse a proporre una collaborazione economica che garantisse a
imprese capitalistiche estere la proprietà dei loro investimenti in
Russia (subito rifiutata). Infine, quasi dal letto di morte, espresse la
propria ostilità alla concentrazione del potere nelle mani di un capo.
Ma la gravità del problema restava in
campo, il consolidamento di uno Stato e di una società socialista, con
le proprie sole forze, per un periodo probabilmente lungo, in un paese
arretrato. Voglio con ciò giustificare ogni aspetto della Rivoluzione
russa come obbligata conseguenza di fattori oggettivi e soverchianti;
negare analisi e teorie sbagliate, errori politici macroscopici ed
evitabili, che la segnarono dall’origine e in modo permanente? Tutto il
contrario. Cerco di spiegare, o forse solo di spiegarmi, con i fatti, la
dinamica del processo, collocarla in un contesto, e di commisurare alle
difficoltà i successi che dall’inizio e a lungo quell’azzardo invece
ottenne (così come si è fatto, e anch’io feci, ricostruendo il decollo
della modernità borghese, le sue conquiste e i suoi errori). In questo
caso: uno sviluppo economico rapido e rimasto ininterrotto per molti
decenni (anche nel periodo della grande crisi “mondiale degli anni
trenta), un primo acculturamento di masse sterminate, la mobilità che
promuoveva dal basso in alto, la redistribuzione del reddito pur nella
dura povertà, la garanzia di elementari tutele sociali per tutti, una
politica estera generalmente prudente e non aggressiva, tutto ciò
insomma su cui in quegli anni non brevi si costruiva un alto grado di
consenso e di mobilitazione all’interno, e, malgrado tutto, anche
simpatia e prestigio all’esterno. E non voglio tacere alcuni errori fin
dall’inizio evitabili che pesarono a lungo, che non furono recuperati
anche quando potevano più facilmente esserlo e che oggi è utile, oltre
che doveroso, riconoscere. Il primo errore, al quale lo stesso Lenin
aprì la strada, fu quello dell’ossessione della «linea giusta», della
centralizzazione delle decisioni nel vertice della Terza internazionale,
fino al dettaglio della tattica, applicata a situazioni molto diverse.
Esso portò dall’inizio l’Internazionale comunista a decisioni oltre che
gravemente sbagliate, oscillanti, come per esempio la gestione
estremistica della politica in Germania (di cui furono direttamente
responsabili Zinov’ev e Radek); o in quella cinese, avviata d’intesa con
il Kuomintang, fino al momento in cui passò allo sterminio dei
comunisti. Col tempo portò alla consuetudine, accettata dai vari partiti
nazionali, di applicare alla lettera, e senza mediazioni, le direttive
del partito guida, come avvenne nel caso del patto Molotov-Ribbentrop.
Ne risultava compromesso uno dei migliori insegnamenti strategici della
Rivoluzione russa, ossia la capacità di analisi determinata di una
realtà determinata.
Il secondo errore fondamentale riguarda
la scelta, compiuta alla conclusione della Nep e per sostenere una pur
necessaria rapida industrializzazione, della collettivizzazione forzata
delle campagne. Anziché portare a una crescita produttiva agricola, da
cui trarre, con mezzi accettabili e reciprocamente convenienti, risorse
per l’industrializzazione, quella scelta, oltre “i tragici costi umani,
trasformò per sempre l’agricoltura in una palla al piede dell’economia
sovietica. Cosa necessaria potevano essere la pianificazione
centralizzata o il contenimento dei kulaki, cosa diversa erano la
pianificazione e la collettivizzazione frettolose anche della piccola
proprietà o le deportazioni di massa.
Un terzo errore corretto in fatale
ritardo, ma al quale lo stesso Lenin aveva aperto un varco, fu quello di
additare come nemico principale, all’interno del movimento operaio, il
cosiddetto «centrismo» (Kautsky e Bernstein in rotta con la loro destra,
il socialismo austriaco, il massimalismo socialista in Italia). La
socialdemocrazia aveva sicuramente contribuito a quell’errore: con
impegni traditi, concessioni poi rinnegate, con alleanze senza princìpi;
ma rifiutare di intervenire sulla vasta area di forze ancora incerte, a
volte disponibili come interlocutori, imporre loro rapidamente «o di
qua o di là», proporre esclusivamente un fronte unico dal basso che le
escludeva, portò a un settarismo, a un’autosufficienza che neppure
l’emergere del fascismo permise di superare prima che fosse tardi. Di
tutti questi errori, Stalin non fu più responsabile dei suoi oppositori.
Se non si considerano entrambe le facce della Rivoluzione russa, e
del primo decennio del suo consolidamento, è impossibile decifrare
l’ancor più contraddittoria fase del decennio successivo, il momento
della prova più dura, l’impresa più rilevante: la resistenza al fascismo
e la Seconda guerra mondiale. La tesi centrale dell’attuale revisionismo storico
, che è penetrata nella memoria diffusa e la altera totalmente, è
quella che vede nel fascismo la risposta forsennata e delirante
all’incombente minaccia del bolscevismo. Una tesi che non ha alcun
fondamento. Il fascismo in Italia nacque sul tema della vittoria tradita
e iniziò la sua campagna di violenza «contro i rossi» quando
l’occupazione delle fabbriche, peraltro niente affatto orientata verso
la «rivoluzione», si era già conclusa, rivolte contadine non ce n’erano o
erano stati episodi isolati, il Partito socialista era nella confusione
e si avviava a ripetute scissioni, il sindacato era guidato dallala più
moderata. Trovò poi finanziamenti nel padronato e la complicità delle
guardie regie, mentre la Chiesa aveva da poco concluso un patto con i
liberali e guardava con diffidenza il nuovo partito di Sturzo. Mussolini
si presentava dunque come definitiva garanzia dell’ordine. Arrivò
infine al governo, senza alcuna situazione di emergenza, per investitura
del re, e con l’appoggio diretto, in Parlamento, delle forze
conservatrici tradizionali (in un certo momento perfino i Giolitti e i
Croce) che pensavano di usarlo e domarlo semplicemente per restaurare il
precedente e oligarchico assetto del potere.
In Germania il nazismo, marginale e
sconfitto per tutto il periodo durante il quale le turbolenze della
sinistra erano state represse da governi socialdemocratici, da un
esercito ricostruito e tornato politicamente attivo e da una maggioranza
parlamentare decisamente conservatrice, crebbe all’improvviso sull’onda
del rinato nazionalismo e della crisi economica aggravata dalle
perduranti riparazioni di guerra. La violenza selettiva delle SA e
l’antisemitismo ricevevano espliciti appoggi dall’alto. Raggiunse
l’apice dei voti nel 1932, ma era di nuovo in calo quando Hitler fu
fatto cancelliere da Hindenburg, con la complicità di von Papen e di
Brüning, e con il decisivo sostegno degli stati maggiori prussiani. In
Ungheria Horty andò al potere quando già la «Repubblica dei soviet» di
Béla Kun era stata repressa. Franco più tardi avviò in Spagna la guerra
civile contro un governo democratico moderato, legittimato dal voto, e
tra le masse, più dei «bolscevichi», pesavano gli anarchici.
Indubbiamente in tutti questi casi i comunisti avevano una qualche
corresponsabilità, per non aver visto la gravità e la natura del
pericolo e per non aver costruito, anzi per aver ostacolato, con la teoria del socialfascismo
, l’unità delle forze che dovevano e potevano arginarlo. Ma le
responsabilità delle classi dirigenti nella nascita del fascismo furono
ben maggiori: per aver seminato culture, esacerbato ferite che ne
avevano costituito le premesse, per averlo agevolato e legittimato mosse
non dall’intento di fronteggiare un’altra e maggiore minaccia, ma da
quello di sradicare ogni possibile contestazione futura dell’ordine
sociale e imperiale esistente. Comunque sia, a metà degli anni trenta,
quando a tutto ciò si aggiunse la grande crisi economica, il fascismo
prevaleva in gran parte d’Europa e già manifestava chiaramente non solo
la propria essenza autoritaria, ma la propria vocazione aggressiva. Qui
si colloca il momento più tragico della storia del Novecento e qui
ebbero origine sia la straordinaria e positiva ascesa dell’Unione
Sovietica, sia i germi di una sua possibile involuzione.
I “partiti comunisti erano in grave
difficoltà ovunque ma particolarmente in Occidente, indeboliti
organizzativamente ed elettoralmente, messi fuori legge, in esilio, in
carcere o sterminati. L’Unione Sovietica, malgrado il successo dei primi
piani quinquennali, si sentiva esposta a un’aggressione militare che da
sola non poteva reggere. Fece dunque, in meno di due anni, una svolta
politica e ideologica radicale, ben sintetizzata più tardi dallo slogan:
«risollevare dal fango la bandiera delle libertà borghesi». Stalin non
solo accettò, ma promosse quella svolta, il VII congresso dell’Internazionale
la sancì, Togliatti, Dimitrov, Thorez la tradussero nell’esperienza dei
Fronti popolari. Sulle vicende dei governi di Fronte popolare, molto
brevi e mal elaborate sul piano strategico, ci sarebbero molte cose da
approfondire. Sottolineo solo alcuni punti essenziali.
a) Nei loro obiettivi immediati
(impedire una nuova guerra mondiale, avviare una “politica di riforme)
furono sconfitti. Rappresentarono comunque in concreto il primo segnale
di una grande mobilitazione democratica di popolo e di intellettuali
contro il fascismo e a sostegno di nuove politiche economiche. In
connessione, non pienamente consapevole, con il New Deal americano
gettarono le prime pietre di un edificio che poi nella guerra fu
costruito e portò alla vittoria: qualcosa più di un’alleanza militare.
b) Se furono battuti ed entrarono in
crisi non lo si può imputare all’estremismo dei partiti comunisti.
Malgrado essi mettessero al primo posto la difesa dell’Unione Sovietica,
anzi proprio per questo, i comunisti vi parteciparono con piena
convinzione (in Spagna con eroismo) ma anche con una prudenza perfino
eccessiva. In Francia conquiste sociali importanti, e permanenti, furono
il prodotto di un grande movimento rivendicativo dal basso, sul quale
il Pcf intervenne «perché non si esagerasse». Il governo Blum, che i
comunisti sostenevano dall’esterno ma lealmente, cadde rapidamente per
le proprie incertezze in politica economica e finanziaria, la fuga dei
capitali, lo sciopero degli investimenti. La vittoria di Franco in
Spagna fu favorita dall’intervento esplicito e diretto del fascismo
italiano e tedesco, e con la benevola neutralità degli inglesi, che si
impose a Blum e fu “poi imitata da Daladier. I comunisti cercarono con
durezza di arginare la spinta anarchica alla radicalizzazione, e
l’Unione Sovietica fu sola nel portare alla legittima Repubblica un
sostegno per quanto poteva. La critica che si può loro applicare sta nel
fatto che quella politica restò per loro una scelta legata anzitutto a
un’emergenza, non incise profondamente nella strategia di lungo periodo.
c) Il partito italiano, pur ridotto
dalla repressione, costituì la maggioranza delle brigate internazionali
in Spagna (insieme al piccolo Partito d’Azione), fu lì decimato ma formò
una nuova leva di quadri che poi fu essenziale alla Resistenza in
Italia, e lì cominciò a maturare, soprattutto in Togliatti, un primo
abbozzo strategico di quell’idea della «democrazia progressiva», che
riallacciava il tenue filo interrotto del congresso di Lione (guidato da
Gramsci) ed era coerente con le sue originali Lezioni sul fascismo dei
primi anni trenta. Al di là dei Fronti popolari, tanto più dopo la loro
sconfitta, il vero elemento dirimente del decennio fu però la questione
della guerra: come evitarla, come combatterla. Ed è su questo che oggi
si sono riproposte tante reticenze, tante alterazioni dei fatti e del
loro concatenamento. La follia aggressiva di Hitler poteva essere
fermata in tempo. Un’amplissima documentazione storica testimonia che,
malgrado il potere assoluto conquistato, la prospettiva della guerra, a
tempi brevi, e apertamente esibita, trovava in Germania resistenze anche
in poteri forti che potevano frenarla o rovesciarla. Innanzitutto il
vertice delle forze armate, convinto che la guerra, almeno allora, la si
perdeva, e lo faceva sapere. Militarizzazione della Renania, annessione
dell’Austria, invasione dei Sudeti e occupazione di fatto dell’intera
Cecoslovacchia: in ognuna di queste tappe di avvicinamento, una
coalizione simile a quella che poi lo batté in guerra, anche solo
mostrando determinazione, avrebbe interrotto il sogno hitleriano di
dominio mondiale. Una tale coalizione difensiva fu ripetutamente
proposta dall’Unione Sovietica e ripetutamente elusa o rifiutata dai
governi occidentali. Perfino la Polonia, nuova vittima designata, negò
un patto di difesa comune al governo di Mosca. Questi successivi
cedimenti alimentarono il progetto nazista, Monaco ne è l’esempio (non a
caso Mussolini fu rite“nuto un mediatore credibile, benché non
neutrale). L’opinione pubblica tirava il fiato, perché non voleva
rischiare una guerra. Ma già dopo poche settimane Hitler cancellò,
indenne, il compromesso appena raggiunto. Viltà, incoscienza di chi
doveva fermarlo? Non ci credo, e quasi nessuno successivamente ci ha
creduto. Il fatto era che Chamberlain, e di rincalzo Daladier (Roosevelt
era lontano, perché condizionato dall’opinione pubblica isolazionista, e
da Wall Street che sempre più gli si opponeva), avevano un progetto,
inconfessabile ma non privo di logica, quello di usare la Germania e
indebolirla, deviando verso Est le sue pulsioni imperiali: due piccioni
con una fava. A questo punto l’Urss siglò il patto di non aggressione
con Ribbentrop, per evitare di diventare la vittima isolata, per
guadagnare tempo, rovesciare il gioco. E le cose dimostrarono che aveva
ragione; la Russia fu invasa poco dopo, ma come parte di una grande
alleanza, militarmente adeguata. L’errore, semmai, fu quello di
trascinare per un anno i partiti comunisti nella teorizzazione, ormai
assurda, della guerra interimperialista, che oscurò il loro impegno
antifascista e compromise in parte la stima conquistata sul campo.
Errore a cui, più facilmente, il Pci poté sottrarsi. A confermare questa
ricostruzione sta il fatto che anche dopo la dichiarazione di guerra e
l’invasione della Polonia, inglesi e francesi non si mossero fino a
quando il blitz tedesco attraverso il Belgio sfondò il fronte
occidentale, la Francia crollò e il suo Parlamento (compresi ottanta
deputati socialisti) concesse la fiducia al governo fantoccio Pétain.
Olanda, Danimarca e Norvegia furono invase, la Svezia restò neutrale
senza vietarsi neppure proficui commerci, Romania e Ungheria erano già
al fianco della Germania, l’Italia, ingenua e furba come sempre, entrò
in guerra per parteci“pare alla vittoria. L’Europa era in mano fascista,
solo gli inglesi restavano intransigenti combattenti, protetti dal mare
e sostenuti dagli aiuti americani, ma con prospettive incerte, e anche
per merito di un conservatore intelligente e di carattere, Churchill. Le
sorti del conflitto si rovesciarono nel momento in cui Hitler decise di
invadere l’Urss. Col senno di poi è facile dire che, fra le tante, fu
la maggiore tra le sue follie, ma spesso nella follia c’è una logica.
Evidentemente Hitler era convinto che l’Unione Sovietica, al primo urto
perdente, in breve crollasse, sul fronte interno più ancora che per
debolezza militare, come era crollata la Francia, e come era crollata
trent’anni prima la Russia dello Zar. Come poteva resistere una razza
inferiore, male armata, dominata da un autocrate asiatico? Il suo crollo
avrebbe assicurato alla Germania il controllo di un immenso paese, una
riserva inesauribile di forza-lavoro e di materie prime. A quel punto
l’Inghilterra non avrebbe potuto resistere, gli Stati Uniti avrebbero
avuto nuove ragioni per tenersi alla larga. E infatti molti anche tra i
suoi avversari temevano che andasse così come Hitler era sicuro che
andasse. Il primo urto vincente ci fu, forse anche perché Stalin non se
lo aspettava così presto; i tedeschi arrivarono alla periferia di Mosca e
ai confini delle regioni petrolifere. Ma a quel punto, anche per la
geniale intuizione della «guerra patriottica», l’Unione Sovietica si
mostrò capace di una miracolosa mobilitazione popolare e di una
sorprendente capacità industriale, gli alleati ne capirono l’importanza
vitale e mandarono armi e risorse, Leningrado tenne duro accerchiata e
affamata con mezzo milione di morti, i tedeschi furono fermati sulla
strada di Volokolamsk, furono circondati e annientati a Stalingrado:
cominciò la lunga marcia verso Berlino. Nel frattempo, Roosevelt
incoraggiò e utilizzò l’attacco a Pearl Harbor dei giapponesi per
portare finalmente gli Stati Uniti in guerra, una lotta partigiana
efficace emerse in Grecia e in Jugoslavia. Dopo Stalingrado per Hitler
la guerra era persa. E nella vittoria l’Unione Sovietica aveva avuto un
ruolo decisivo, pagando con ventuno milioni di morti. Il comunismo stato
un mito? Ammettiamo pure che in parte lo sia stato, ma a quel punto il
mito trovava buone ragioni per crescere. Inscrivere la Seconda guerra
mondiale come scontro tra i due «totalitarismi» è una pura stupidaggine:
il fiume di sangue non l’avevano prodotto i comunisti, l’avevano
versato.
d) Ma gli anni trenta
, per i comunisti, ebbero anche un’altra faccia, di cui non si può
tacere, e che nel lungo periodo si è dimostrata decisiva. Mi riferisco,
ovviamente, all’esercizio del terrore interno , alla
repressione massiccia e crudele di oppositori potenziali o supposti.
Esso non solo rivelò senza veli la pratica autoritaria di un potere
senza limiti ormai istituzionalizzato, ma rappresentò anche un vero
salto di qualità nel contenuto, oltre che nel metodo, di cui Stalin
portava una personale responsabilità, e innescò meccanismi difficilmente
reversibili. Il salto di qualità non si misura solo sul numero dei
morti e delle deportazioni, sull’arbitrio delegato a esecutori che
spesso a loro volta rapidamente ne restavano vittime. Si coglie
piuttosto in due nuovi aspetti che stabiliscono una differenza profonda
rispetto al leninismo, sia pur estremizzato, e anche rispetto alle lotte
brutali contro le opposizioni negli anni venti, perfino rispetto alla
liquidazione dei kulaki, forma estrema di una lotta di classe. Primo
aspetto: la repressione allora, soprattutto dal ’36 al ’38, si
concentrò, oltre che sui resti di un’élite bolscevica ormai priva di
influenza sulla società e sugli apparati, e sinceramente disposta alla
disciplina, sul partito stesso e, nel suo insieme, su coloro cioè che
avevano seguito e applicato le scelte di Stalin e gli restarono fedeli.
Dato irrefutabile: dei delegati al XVII congresso del Partito
bolscevico, il «congresso dei vincitori» del 1934, dopo pochi anni
quattro quinti erano stati uccisi o deportati, come accadde a 120 su 139
tra i membri del nuovo Comitato centrale. Il terrore raggiunse il suo
culmine quando ormai le scelte economiche e politiche erano state
applicate con successo, il pericolo, seppure incombente, era del tutto
esterno. Un terrore quindi privo di base razionale, di giustificazione
plausibile, che non rafforzava ma indeboliva il sistema a tutti i
livelli (esempio estremo: la liquidazione proprio alla vigilia di una
guerra, del gruppo dirigente dell’Armata rossa, fedele e competente, tre
generali d’armata su cinque, centotrenta su centosessantotto generali
di divisione e così via, a cascata). Lo stesso Stalin era promotore e
vittima di quell’insensatezza: nelle memorie della figlia si ricorda che
a ogni ondata di epurazioni egli era spinto da un giudizio critico
sulla qualità dei quadri e da un sospetto nevrotico sulla loro fedeltà,
dal timore della stabilizzazione di una casta burocratica, che si
autoproduceva, e di apparati repressivi che via via agivano in proprio, e
alla fine constatava che l’epurazione ne aveva promossi di più
pericolosi di cui liberarsi in fretta. Secondo aspetto della novità che
definiva lo stalinismo in senso proprio, collegato al primo, ma che non
basta a spiegarlo: le giustificazioni addotte come prove per i verdetti
più crudeli, nei processi più importanti, e le confessioni estorte.
Agenti provocatori, complotti terroristi, spie dei fascisti o
addirittura dei giapponesi fin dall’origine. Appare assurdo e quasi
futile chiedere, come tanto spesso si è fatto e si continua a fare, alle
generazioni che seguirono: che cosa sapevate, quanto sapevate di tutto
ciò? A ogni livello, infatti, allora e dopo, come poteva qualcuno
credere effettivamente che quasi l’intero gruppo di uomini che avevano
diretto la Rivoluzione di ottobre già lavorassero per farla fallire, o
che la maggioranza dei quadri sui quali Stalin si era affermato e
l’avevano seguito si preparassero a tradire? Così si creava una rottura
non solo tra fini e mezzi, ma una deformazione culturale profonda e
duratura, la riduzione della ragione entro i confini più o meno
ristretti imposti da una fede. Il volontarismo e il soggettivismo, nella
coscienza non solo dei vertici ma delle masse, gettavano nel lontano
futuro i semi che avrebbero prodotto il loro contrario: l’apatia delle
masse e il cinismo della burocrazia. E tuttavia la forza di un ideale, i
sacrifici compiuti in suo nome, i successi ottenuti per sé e per tutti,
e altri che si delineavano, portavano anche i consapevoli non solo a
giustificare i mezzi, ma a considerarli transitori. Una catastrofe era
stata fermata, uno spazio si apriva per conquiste democratiche e sociali
e per la liberazione di nuovi popoli oppressi. Il mondo era
effettivamente cambiato e “progredendo, avrebbe sanato quelle
contraddizioni. Questa era l’eredità complessiva che il comunismo
italiano raccoglieva. Le risorse che la storia gli offriva e insieme i
limiti da superare per fondare un partito di massa e cercare di definire
una propria strategia: non un modello da riprodurre, ma un retroterra
necessario «per andare oltre». Non a caso, per tratteggiare questa
eredità ho voluto riformulare l’espressione, volutamente ambigua, che
Kipling rese famosa: «il fardello dell’uomo comunista».
da Lucio Magri. “Il Sarto Di Ulm”
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