Intervista ad Andrea Viani.
Andrea
Viani è uno dei fondatori e degli animatori delle esperienze di
"partito sociale" nate nel territorio del lodigiano e che attualmente
rappresentano quanto la sinistra antagonista italiana ha maturato di più
comparabile rispetto al "Solidarity for all" di Syriza.
Si fa
presto a dire partito sociale. In realtà, come testimonia l’esperienza
di Lodi, è un percorso lungo, tortuoso e di grande lavoro quotidiano.
Qual è la tua riflessione dopo il percorso fatto fino a qui con i Gap?
Siamo
partiti otto anni fa, quasi, e fondamentalmente abbiamo preso a
riferimento una riflessione di Gramsci sulla risposta che le masse
popolari danno nel rapporto con il capitale, ovvero l’attacco che il
capitale conduce nei confronti delle classi subalterne. In particolare,
Gramsci si pone precisamente due comande: come attacca il capitale; come
di risponde concretamente la classe proletaria. Mentre sul primo
quesito non propone un percorso interpretativo generale (l’attacco del
capitale cambia nel tempo), sul secondo, invece, mette a fuoco i tre
livelli del processo generale di risposta proletaria: dapprima l’attacco
del capitale è affrontato a livello individuale, famigliare o di
piccolo gruppo. È questa una azione frammentata di pura sopravvivenza
economica. Solo in un momento successivo, quando le condizioni di
attacco evidenziano una insufficienza del primo livello la risposta
diventa collettiva, si organizza, diventa di classe. Pur sempre, però,
nel perimetro della dimensione economica.
Infine, l’esperienza della risposta organizzata fa il passo successivo ovvero diventa risposta politica.
E’ da questa via che si arriva al partito sociale?
Ovviamente,
questi tre livelli di risposta delle classi subalterne non sono posti
sequenzialmente. Sono tre condizioni in cui i proletari sono
necessariamente immersi. La dimensione di piccolo gruppo rimane anche
quando prevale la fase dell’egemonia politica. Sulla base di questa
riflessione abbiamo sviluppato il lavoro del partito sociale come
risposta immediata. Non era ancora però quella organizzata. Il Gap è
quindi la risposta a un bisogno immediato. E il rapporto che si
stabilisce con le persone è percepito come un rapporto individuale e di
piccolo gruppo. Dal Gap quindi abbiamo pensato che potesse partire una
risposta organizzata. E consiste nel fatto che abbiamo incontrato le
famiglie in carne ed ossa e i loro problemi. Gli effetti dell’attacco
del capitale.
Qual è la specificità del territorio di Lodi?
Da
noi la situazione è drammatica perché è stata cancellata il 90 per cento
della struttura produttiva. Ci sono 200mila abitanti in tutta la
provincia e ci sono 23.539 disoccupati ufficiali a dicembre 2014 (erano
20.984 a gennaio); 13.614 licenziati ufficiali dal 2008 al 2014 (di
questi 6.446 senza diritto agli ammortizzatori sociali). Ne deriva il
disastro di oltre cinquemila costrette a richiedere aiuto per problemi
di cibo, abitativi (affitto, luce, gas), disturbi psicologici, ecc..
All’inizio sembrava sufficiente favorire l’accesso ai beni di prima
necessità. Poi però abbiamo incontrato tutti insieme i problemi della
gente in carne ed ossa, e il panorama è cambiato. E quindi abbiamo
pensato di dare più risposte corrispondenti a bisogni immediati.
Intervenendo su più problemi la nostra iniziativa è dovuta evolvere dal
primo livello, quello individuale e di piccolo gruppo, al secondo,
quello della lotta economica organizzata (così è cominciato a
configurarsi il partito sociale).
Nel concreto, per esempio, rispetto ai lavoratori licenziati?
Di
fronte ai lavoratori licenziati c’è stata l’idea del fondo di
solidarietà. Questo ha permesso per esempio di dare per sei mesi un
assegno di 400 euro. Un fondo accolto anche da diversi comuni che poi
molti hanno abbandonato per i tagli dello Stato centrale. Abbiamo
incontrato anche problemi di salute e ci siamo attivati. Abbiamo preso a
riferimento l’esperienza greca, che Syriza aveva sviluppato proprio a
partire dalla nostra idea di partito sociale con un percorso di
mutuo-aiuto. Loro l’hanno pienamente svolta costruendo sul piano
nazionale la rete Solidarity for all.
Insomma, avete cominciato a mettere in fila i vagoni del treno…
Ci
siamo resi conto che era possibile collegare assieme queste difficoltà e
questi problemi. Un altro problema era quello dell’abitazione, a Lodi
molto rilevante. Abbiamo organizzato i comitati inquilini. Abbiamo una
organizazione che cerca di affrontare complessivamente questi diversi
problemi. Il Gap non è più soltanto una associazione che affronta il
problema dei generi di prima necessità ma che si muove anche su lavoro,
sanità e casa.
E l’approdo politico?
Distribuiamo in tredici
paesi del territorio. Le persone asscociate al gruppo di acquisto sono
oltre cinquemila. C’è il dentista sociale e il comitato inqulini, e
abbiamo appena avviato una attività di assistenza psicologica. Il
disagio psicologico si è sviluppato a livelli incredibili proprio in
relazione all’esplosione della crisi economica. La dimensione politica è
rimasta, tra virgolette, distinta. Ovvero quella politica in senso
gramsciano non è ancora raggiunta. La maggior parte dei compagni che
fanno partito sociale sono militanti di Rifondazione e sviluppano questa
iniziativa conducendola fino alla sua fase politica (quella cioè in cui
la lotta di classe economica pienamente sviluppata mostra i limiti
dello stato di cose presente e crea la coscienza comunista della
necessità di abolirlo). Da qui il limite del suo manifestarsi come
coscienza di classe soggettiva. Il problema vero dunque è che per
realizzare il percorso gramsciano dovremo riuscire a far emergere da
tutte le persone coinvolte il passaggio alla dimensione politica che
deve riguardarli.
Questa fase al momento non c’è...
Per
esempio quando abbiamo iniziato sapevamo che cominciavamo da zero e che
non potevamo pretendere un seguito politico. Facendo il lavoro ci siamo
resi conto che un elemento di debolezza era che per poter far si che il
processo si innescasse sulla politica occorreva tempo e una crescita di
consapevolezza. In questo ha un ruolo importante il passaggio da una
condizione di richiesta in relazione al bisogno ad una espressione di
protagonismo. Va in questa direzione il progetto di autoproduzione auto
distribuzione orticola.
Di cosa si tratta?
Siamo
partiti da terreni e attrezzature dati in uso gratuito da due
cooperative coinvolte nel progetto. Il lavoro, volontario e gratuito per
la coltivazione del terreno, è fornito dai licenziati che sosteniamo
con il fondo di solidarietà. In questo modo i costi di produzione sono
ridotti al minimo. La coop proprietaria del terreno vende a prezzo
sociale il prodotto al Gap che lo acquista lo distribuisce per nome e
per conto dei propri soci. I quattro componenti del protocollo decidono
il prezzo sociale che deve rispondere a tre obiettivi: 1) essere
inferiore a quello di mercato per favorire chi non arriva a fine mese;
2) garantire la copertura dei costi che come ho detto sono ridotti ai
minimi termini grazie al lavoro volontario gratuito; 3) assicurare il
versamento al fondo di solidarietà (quindi a beneficio dei disoccupati)
con l’obiettivo di rendere il fondo autonomo dal contributo del comune
nel tempo più breve possibile. Questa coltivazione è iniziata l’anno
scorso e il primo raccolto sarà a giugno. Con questo progetto si
coinvolgono concretamente nella idea di lotta di classe i militanti
delle cooperative e del GAP, i licenziati sostenuti dal fondo di
solidarietà, i proletari che non arrivano a fine mese, tutti consapevoli
che è grazie alla loro azione di classe possono resistere all’attacco
del capitale. Proprio in questi giorni abbiamo fatto la conferenza
stampa in cui abbiamo presentato questa esperienza.
Torniamo ai tre livelli di Gramsci…
Le persone
che sono coinvolte in questa attività si collocano a tutti e tre i
livelli dello schema di Gramsci: quelli che ricevono i beni ai prezzi
bassi. E così anche i lavoratori appartengono alla risposta individuale,
mentre i soci attivi e quelli delle due coop sono il livello
organizzato. In più c’è la dimensione politica per quelli che vedono
questa iniziativa come propriamente politica, ovvero orientata al
cambiamento dei rapporti sociali. Noi pensiamo a questa esperienza come
un evento emblematico che allude all’organizzazione consigliare, come
già nella Comune di Parigi. Una cosa che faremo sarà l’assemblea.
Abbiamo stabilito per convenzione l’assemblea dei promotori. Ma poi
faremo l’assemblea con tutti gli operatori. Cioè l’obiettivo è far
emergenre che l’associarsi a questa esperienza non è solo in relazione
al bisogno individuale ma alla scelta politica. E quindi il livello
progettuale. E poi stiamo proiettando questa esperienza a una dimensione
territoriale, cioè verso altri comuni. L’idea è di trasformare questa
autoproduzione in un intervento a dimensione territoriale.
Tutto questo percorso in che rapporto sta con il sindacato, per esempio?
Quando
abbiamo iniziato ci era chiaro che le condizioni di partenza non erano
tali da rendere immediatamente realizzabili pratiche di massa. Ci era
altrettanto chiaro che la crisi avrebbe spinto in tal senso. E proprio
perché abbiamo riflettuto non ci siamo minimamente posti il nodo del
consenso politico. Gramsci dice esplicitamente che il sindacato deve
essere il protagonista di questa risposta organizzata. E quindi ci siamo
posti anche il problema di stabilire rapporti con la Cgil ma senza
risultato. L’attacco del capitale, che abbiamo studiato, è forte. E
sembra non prevedere una fase anche di parziale remissione. Sono le
condizioni stesse dello scontro che spingono a sviluppare questo tipo di
intervento. Il lavoro che stavamo impiantando si imponeva e si imporrà
sempre più da se. E’ quello che sta accadendo. In giro per l’Italia ci
sono altri soggetti (anche di area cattolica) che hanno sviluppato
attività analoghe (il nostro progetto di autoproduzione coinvolge
appunto due cooperative laiche di origine cattolica).
Syriza dimostra che il livello politico si può raggiungere…
Il
capitale sta generando povertà di massa. E quindi il bisogno non potrà
più essere soltanto individuale. Oggi la situazione tiene perché le
famiglie italiane sono molto patrimonializzate. La dimostrazione che è
generalizzabile è l’esperienza di Syriza in Grecia. Quando abbiamo fatto
le prime esperienze di partito sociale (come per esempio a l’Aquila)
sono venuti loro da noi a vedere come fosse realizzabile. E le hanno
sviluppate perché le condizioni oggettive che si sono prodotte hanno
fatto esplodere questa necessità. Hanno articolato i tre livelli fino a
quello politico. Che sia difficile da noi perché gli elementi di inerzia
sono significativi è altrettanto vero. Il disastro occupazionale è
sotto gli occhi di tutti, però. E anche se non c’è un esplicito livello
politico queste esperienze si stanno allargando a vista d’occhio.
Abbiamo messo assieme tutti i soggetti (laici e cattolici) che
distribuiscono beni alimentari gratuiti. Per esempio abbiamo costruito
la cittadella del cibo. Un capannone che raccoglie i prodotti e li
distribuisce gratuitamente. In questo modo contattiamo circa quattromila
famiglie. Lì dentro ci sono tutte le associazioni che si occupano di
questo problema. Oggi c’è l’assessorato ai servizi sociali che gestisce
questa iniziativa. I volontari prestano cinque ore di lavoro gratuito e
volontario presso la cittadella del cibo.
Lo schema è intervento su
cibo, lavoro, casa, salute. E su questo schema ci proponiamo a tutti i
soggetti del volontariato che incontriamo. Veniamo da otto anni di
lavoro costante. Forse Rifondazione avrebbe dovuto avere più
lungimiranza su questi temi. La possibilità di crescere è assolutamente
scontata. E potrà prodursi attraverso una direzione politica oppure in
altre modalità.
Oltre che di partito sociale oggi si parla di coalizione
sociale, è il concetto gemello. Dalle tue parole però si capisce
benissimo che forse non ha senso parlarne fuori da una precisa pratica
di intervento.Una rete di questo genere non si costruisce
componendo assieme due o tre organizzazioni nazionali e facendo ricadere
a pioggia questo livello organizzativo ovunque. Questa soluzione mi
aveva lasciato già scettico quando due mesi fa Landini aveva appoggiato
in qualche modo l’articolo di Roldotà che alludeva a questa linea di
programma. Il modello che loro utilizzano è quello dell’organizzazione
sociale che esiste già e che si pone il problema di dare risposte in
più. Se Landini ha detto che il sindacato è finito, la sua ricostruzione
non passa attraverso la semplice sommatoria di iniziative alternative
strutturate e centralizzate. Che la sua iniziativa sia pregevole non c’è
dubbio, ma non basta. Le reti di coalizione sociale devono generare
autodeterminazione. Il fatto che Landini voglia in qualche modo
ripristinare il vecchio sindacato non può essere motivo di dissenso
verso la sua proposta. Landini si è posto per la prima volta la
questione della tutela sociale immediata cogliendo così pienamente il
segno delle contraddizioni aperte. Non si tratta dunque di ridurre le
sue posizioni dentro valutazioni puramente ideologiche. Se Landini ci
chiamasse e ci chiedesse di partecipere noi ne saremmo felicissimi e
proveremo a chiedere di poter contribuire allo sviluppo di una
coalizione sociale adeguata ai disastri della crisi. E’ l’attività
stessa che si auto-valida. Facendo le cose che abbiamo fatto siamo
riusciti a produrre aggregazione di forze che solo qualche anno fa non
avrebbero nemmeno potuto incontrarsi.
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mercoledì 25 marzo 2015
"La coalizione sociale si costruisce dal basso, con la rete di solidarietà contro la crisi".
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