Nuovo Welfare. Oggi il tweet bombing
della campagna “reddito di dignità” promossa da Libera di Don Ciotti,
il Bin – Basic income network-italia e il Cilap alla quale ha aderito
Landini (Fiom). Le differenze con la campagna per il “Reddito di
inclusione sociale” (Reis) alla quale ha aderito anche la Cgil di
Camusso. Sul reddito le sinistre, e il sindacato, sono spaccati come una
mela. Ecco perché.
Il Manifesto
Roberto Ciccarelli
Mancano 87 giorni, e 43 mila firme su change.org
, per chiedere al Parlamento una rapida discussione
e approvazione di una legge sul «reddito minimo o di
cittadinanza». «Una misura necessaria, contro povertà e mafie»
sostengono le associazioni promotrici: Libera di Don Ciotti, il
basic income network-italia e il Cilap. A questa campagna ha aderito
anche la Fiom di Landini. Per tutta la giornata di oggi è previsto
un «tweet-bombing» ai capigruppo di Camera e Senato, oltre che sul
pluribersagliato account twitter del presidente del Consiglio
Matteo Renzi. I materiali della campagna possono essere scaricati da questo sito web . Ad oggi le firme raccolte sono 57 mila. L’obiettivo è raggiungerne 100 mila in 100 giorni.
Malgrado le risoluzioni dell’Unione
Europea abbiano incoraggiato dal 1992 a definire una soglia di
reddito minimo garantito, l’Italia (insieme alla Grecia) non ha una
legge che garantisca una protezione economica per chi
è disoccupato, precario o in povertà. La campagna «reddito per la
dignità» sollecita uno dei Welfare più arretrati d’Europa
a recuperare 23 anni di ritardo e promuove una misura ispirata ad un
principio consolidato: il reddito minimo è stabilito almeno al
60% del reddito mediano dello Stato membro.
«Reddito minimo o di cittadinanza»
In parlamento esistono due proposte
di legge presentate da Sinistra Ecologia e Libertà sul «reddito
minimo» (nata da una proposta di legge popolare) e dal Movimento
5 Stelle sul «reddito di cittadinanza», oggi incardinate nella
commissione Lavoro del Senato dove sono in corso le audizioni. La
campagna «Reddito per la dignità» propone mediazione migliorativa
tra proposte non proprio coincidenti: «Reddito minimo o di
cittadinanza». In tutta evidenza, si tratta di misure diverse: il
reddito minimo è condizionato alla scelta di un lavoro congruo,
quello di cittadinanza è rivolto a tutti i residenti. Da precisare
che la proposta dei Cinque Stelle non corrisponde ad un «reddito
di cittadinanza», ma è in realtà un reddito minimo soggetto
a limitazioni ispettive e lavoriste. Alla base di questo equivoco
c’è una confusione terminologica in cui tutto il sistema
mediatico si è fatto trasportare in modo acritico.
La proposta
La proposta di Libera, Bin e Cilap
invoca un accordo sulla base di quattro principi: il reddito
dev’essere individuale, sufficiente, congruo rispetto alle
competenze al reddito e al lavoro precedente e riservato a tutti
i residenti. La campagna propone inoltre un doppio passo in
avanti. Il reddito minimo non va considerato come una misura
alternativa al sussidio di disoccupazione (la «Naspi» o il
«Dis-Coll» previsti dal Jobs Act) e, tanto meno, un sussidio contro
la povertà assoluta. Dev’essere invece considerato anche uno
strumento opposto a chi pensa che un reddito deve essere accettato
in cambio di un lavoro «purché sia». Sono elementi utili per
prefigurare una riforma del Welfare in senso universalistico,
ben diversa da quella contenuta nel Jobs Act per il solo lavoro
dipendente.
I costi
Il costo del reddito minimo sostenuto
dalla campagna «Reddito per la dignità» varia tra i 15 ai 26 miliardi
di euro. L’incertezza deriva anche dal fatto che nel nostro paese
esistono misure frammentate e incoerenti che andrebbero
semplificate e gradualmente accorpate. Una buona parte di questi
fondi potrebbero essere ricavati da una riduzione strutturale delle
spese militari, da una imposta sui grandi patrimoni e da una
maggiore tassazione dei giochi d’azzardo.
Ipotesi ormai di senso comune, nella
società e in una larga porzione dell’opposizione parlamentare, che
non ha ancora trovato una sponda nel governo che ha preferito
l’erogazione a pioggia del bonus Irpef da 80 euro per il lavoro
dipendente con un costo di 10 miliardi all’anno. Soldi che avrebbero
potuto essere usati in maniera più efficace e universale, senza
cedere a tentazioni populistiche ed elettoralistiche come
invece ha fatto Renzi.
Le sorti delle proposte di legge sul
reddito restano comunque incerte. Non rappresentano, al momento,
una priorità per il governo impegnato in un “cronoprogramma” che
intreccia le esigenze imposte dalla famosa lettera della Bce con le
idiosincrasie di Renzi. Le audizioni in commissione — oggi è prevista quella del Basic Income Network
- sono interessanti perché mostrano le differenze tra i soggetti
della “società civile” impegnati nell’ardua battaglia per imporre in
Italia alcuni standard minimali di civiltà.
Che cos’è il “Reddito di inclusione sociale” (Reis)
La campagna “reddito di dignità” per
il reddito “minimo o di cittadinanza” si differenzia da quella
sul “Reddito di inclusione sociale” (Reis) sostenuto dall’Allenza
contro la povertà promossa sin dal 2013 dalle Acli e dalla Caritas.
A questa campagna aderiscono, tra gli altri, la Comunità di
Sant’Egidio e i sindacati confederali Cgil Cisl e Uil. Le ipotesi
sostenute sono molto diverse, come anche gli obiettivi. Solo in parte
coincidenti. La divergenza non è solo tra “cattolici” e “laici” o
“sinistra”, ma spacca a metà le sinistre e il mondo sindacale. Il
Movimento 5 stelle cerca di restare nel mezzo, confondendo i termini
dei problemi e, come sempre, annacquando la radicalità delle
soluzioni, oppure peggiorando quelle avanzate dopo anni di lavoro.
Colpisce la differenza di
posizionamento tra la Fiom e la Cgil, in particolare. Per
Landini, infatti, avere scelto la campagna “reddito di dignità”
significa avere abbracciato questa idea: per combattere
disoccupazione, precarietà e povertà bisogna attivare l’individuo
e promuovere la sua autonomia. Camusso, e gli altri sindacati,
pensano invece di raggiungere gli stessi obiettivi privilegiando
misure a sostegno delle famiglie poverissime. Da un lato, c’è
l’aspirazione a costruire un Welfare universalistico, sia pure con
misure imperfette. Dall’altro lato, si rischia di imporre un workfare
paternalistico e caritatevole. Una volta ricevuto questo Reis,
infatti, tutti i membri della famiglia tra 18 e 65 anni ritenuti
abili al lavoro devono attivarsi alla ricerca di un impiego; dare
disponibilità a iniziare un’occupazione offerta dai Centri per
l’impiego e a frequentare attività di formazione
o riqualificazione professionale.
Questa misura è intestata ai
capofamiglia, e non ai singoli. Se realizzata, verrà rafforzata
l’immagine di un welfare maschile, fondato sul familismo, in
contesti di povertà e deprivazione. E lo Stato rischia di diventare
un censore, o un prefetto che controlla la vita delle persone che
devono rispettare l’impegno a dimostrarsi disponibili a qualsiasi
offerta di lavoro.
In più il Reis rischia seriamente di
sposarsi con l’idea del ministro del lavoro Poletti secondo il quale
bisogna mettere la gente al lavoro anche nel volontariato, o nei
lavori socialmente utili, in cambio di un sussidio di povertà.
Poletti le chiama “attività a beneficio delle comunità locali”,
un’idea che fa il paio con quella di tagliare le vacanze estive e mandare gli studenti minorenni a “scaricare cassette ai mercati generali”
. Un “modo per rendersi utili” agli occhi della “comunità” tipico di
una visione dove la differenza tra la carità e l’autoritarismo
è sottile.
Non è detto che il governo Renzi non
scelga questa strada. Sempre che voglia fare qualcosa contro la
disoccupazione e la povertà.
La distanza tra Landini e Camusso
In questo scenario di battaglia
culturale, e politica, sul reddito emerge la distanza tra Landini
e Camusso sul reddito. Sia pure in maniera ancora parziale,
e scarsamente argomentata, Landini si è più volte soffermato
sulla valenza di un reddito minimo in un contesto di
disoccupazione strutturale e di lavoro povero. Sembra avere
superato le reticenze, e le censure, del lavorismo della sua
cultura di provenienza per la quale chi non lavora non può avere un
reddito. Nel caso di Camusso, questo imperativo resta
inscalfibile. Ad esso si aggiunge un altro, decisivo per il futuro di
un sindacato che protegge i fondamenti di una società fordista,
ricavata sullo standard del lavoro salariato e dipendente. Camusso
crede, infatti, che oggi questa funzione vada restaurata e il
sindacato deve mantenersi autonomo dalla politica. Quando, invece,
Landini parla di “coalizione sociale” riconosce che il sindacato
non è più autosufficiente e deve mettersi al centro di una rete
sociale e politica molto più ampia se vuole iniziare una nuova stagione di “negoziazione sociale” che includa il quinto stato .
«Quando il sindacato è presente — ha detto Camusso commentando uno studio del Fondo Monetario Internazionale
- i risultati di protezione economica sono molto maggiori di
qualsiasi altro strumento, sia esso il reddito di cittadinanza
o il salario minimo deciso dalla politica».
Una pietra tombale sul tentativo
(anche di una parte della sinistra e dei movimenti sociali, oltre che
dei Cinque Stelle) di istituire un reddito minimo in Italia.
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Leggi il dossier sul reddito minimo “o di cittadinanza”
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