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Non sprecheremo mai abbastanza parole riguardo alle supposte virtù del cosiddetto “modello tedesco”, riferimento produttivo-lavorativo verso il quale vengono spinte le altre economie europee. L’Unione Europea stessa è fondata su questo specifico modello di relazione economica, che non è semplicemente neoliberista, ma completamente post-democratico. Come ormai iniziano a dire numerose pubblicazioni, l’intero ciclo del valore dell’economia tedesca è per un terzo prodotto nel territorio nazionale; i restanti due terzi realizzati altrove. Questa premessa chiarisce che per riprodurre tale modello è necessario delocalizzare due terzi della propria economia.
In secondo luogo, la Germania ha sfruttato pienamente la possibilità data dalla colonizzazione interna dell’est tedesco seguita all’annessione della DDR. Anche in questo caso, ha delocalizzato ad oriente interi cicli di produzione sfruttandone le economie di scala realizzate dal socialismo sommate al costo del lavoro inferiore allo standard tedesco occidentale. Una colonizzazione interna difficile da replicare altrove e che ha garantito alla Germania una vera e propria seconda accumulazione originaria.
Queste due premesse costituiscono la cornice economica per comprendere anche le riforme interne del mercato del lavoro. Ricalcando il processo di delocalizzazione produttiva, la Germania ha al proprio interno riproposto il modello coloniale imposto ai paesi del proprio “spazio vitale”. In buona sostanza, le riforme Hartz degli anni Duemila hanno generato un mercato del lavoro duale. Da una parte, nuclei di operai legati ai sindacati aziendali, interni ai processi di valorizzazione del capitale di fabbrica, cogestenti la produzione. Si tratta di lavoratori super-garantiti, tedeschi, con livelli salariali elevati e protetti da forti misure di welfare statale e aziendale. Tale modello è però riferibile a una estrema minoranza, quella parte di lavoratori legati al “cervello” dell’azienda, inseriti nel processo produttivo ancora situato in loco. In pratica, gli operai che assemblano i pezzi prodotti altrove, nonché l’apparato amministrativo-gestionale dell’azienda.
Dall’altra, attraverso la creazione e la moltiplicazione dei cosiddetti “mini-jobs”, viene dislocata in patria tutta la fase produttiva precedente all’assemblaggio e non (ancora) trasferita all’estero. Milioni di lavoratori pagati, al massimo, 450 euro al mese ed esclusi da processi di integrazione welferistica e pensionistica, sia statale che aziendale. Un vasto precariato, tedesco e soprattutto migrante, relativamente giovane, senza garanzie contrattuali, con salari inferiori alla soglia di povertà. Il soggetto attorno a cui fa perno l’economia tedesca: ciò che non riesce a delocalizzare all’estero viene riprodotto entro i confini nazionali. Una pletora di poveri mantenuti sopra il livello di sussistenza grazie ai contributi statali erogati come forma di workfare, cioè di welfare legato alla formazione e alla ricerca di lavoro. Un esborso statale possibile solo grazie agli enormi profitti derivati dal surplus finanziario determinato dalle esportazioni. In pratica, la mancia paternalistica che i governi tedeschi elargiscono per mantenere un mercato del lavoro che altrimenti produrrebbe solo povertà.
Si dirà, tale articolazione del mercato del lavoro non ha impedito in questi anni alla Germania di crescere economicamente, fare fronte meglio di altri alla crisi e in sostanza di mantenere inalterato il proprio standard di vita. Questa parte del racconto costituisce esattamente la falsa coscienza riprodotta dalla vulgata politico-mediatica generalista.
In Germania da un decennio abbondante i consumi interni sono in regressione. La moderazione salariale imposta dalle riforme Schroeder-Hartz ha prodotto un panorama lavorativo impoverito che impedisce al consumo interno di reggere gli elevati livelli produttivi. Una capacità produttiva che l’economia tedesca riversa nelle esportazioni, unica dinamica che permette al sistema di reggere la competizione internazionale accumulando profitti che però non vengono ripartiti in casa, attraverso una normale dinamica salariale espansiva in fase di crescita. Oggi i lavoratori tedeschi sono, in proporzione al reddito generale dello Stato, fra i più poveri d’Europa. Povertà che si riflette sulla domanda interna in costante recessione. Lo sviluppo dei mini-jobs, oltretutto, ha consentito artificiosamente di tenere sotto controllo il livello di disoccupazione, che altrimenti sarebbe esploso come e più degli altri paese europei. Considerati dalle statistiche come lavoratori normali, gli schiavi dei mini-jobs vengono contati come occupati anche quando nei fatti non lo sono (il mini-jobs dovrebbe essere, appunto, un “piccolo lavoro”, un avviamento alla mansione lavorativa che poi andrebbe stabilizzata: solo da allora dovrebbe considerarsi un lavoratore come occupato). Senza tale strumento, insomma, la disoccupazione tedesca schizzerebbe ben sopra il 15%, in linea con gli altri paesi europei.
Tutto questo, che ribadiamo è possibile solo grazie ad una costruzione economica – l’Unione Europea – che garantisce alla Germania di servirsi di una moneta relativamente debole rispetto al Marco, di usufruire di territori uniti economicamente tali da poter essere sfruttati dall’economia egemone, dimostra che il modello tedesco tende alla povertà generalizzata, al trasferimento delle risorse pubbliche nelle mani private, e come riflesso sovrastrutturale ad un regime di perenne post-democrazia, in cui quote sempre maggiori di sfruttati vengono impossibilitati ad una qualsiasi ipotesi di condivisone delle lotte e dei destini, dunque incapaci di essere rappresentati politicamente. Uno scenario apocalittico ma molto prossimo alla realizzazione.
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