La pubblicazione di alcuni contenuti del trattato TPP (Trans Pacific Partnership), che vede impegnate da qualche anno dodici nazioni in negoziazioni segrete per definire un accordo su misure di liberalizzazione commerciale, ha provocato un duro dibattito negli Stati Uniti, contribuendo a ridimensionare ulteriormente, ove possibile, il consenso e la fiducia nei confronti del ruolo “progressista” del presidente Obama.
Carlo Formenti
A rendere pubblico l’accordo ha provveduto il New York Times che è venuto in possesso dei relativi documenti grazie a Wikileaks. Se e quando l’accordo entrerà in vigore, spiega il giornale, le compagnie multinazionali operanti nell’America del Nord e del Sud, oltre che in Asia, potranno fare causa al governo degli Stati Uniti (come a quelli degli altri Paesi aderenti al trattato) per ottenere l’annullamento di quelle leggi nazionali e di quei regolamenti amministrativi regionali e locali che ritengono lesive delle loro “legittime aspettative di profitto”.
Adesso si capisce, commenta un lungo articolo dell’Huffington Post, perché l’amministrazione Obama, la quale preme per ottenere una corsia preferenziale per una rapida approvazione del trattato da parte di Senato e Camera dei Rappresentanti, ha fatto di tutto per mantenerne segrete le clausole. Se il pubblico ne fosse stato a conoscenza, si sarebbe scatenata una furiosa reazione – come è infatti avvenuto negli ultimi giorni – da parte degli esponenti della sinistra Democratica, delle organizzazioni sindacali nonché delle associazioni ambientaliste e dei consumatori.
Il punto non è solo che l’accordo regala alle multinazionali l’opportunità di neutralizzare le decisioni democratiche degli stati aderenti al trattato in tema di diritti del lavoro, tutela ambientale e ogni altro “impedimento” che possa danneggiarne gli interessi. A colpire ancora di più è il fatto che i “tribunali” internazionali organizzati dalla Banca Mondiale e dall’Onu e chiamati a dirimere le eventuali controversie fra stati e imprese sarebbero formati da “esperti legali” che, nella maggior parte dei casi, svolgono già attività di consulenza per le stesse multinazionali, sollevando un clamoroso caso di conflitto di interessi.
Non basta: dalla trattativa sono stati esclusi tutti i soggetti (rappresentanti di lavoratori, consumatori e movimenti ambientalisti) che avrebbero potuto bilanciare gli interessi privati delle imprese con quelli del bene comune. Questo spiega perché è escluso a priori che davanti a quei tribunali possano essere sollevate questioni che riguardino diritti del lavoro e tutela ambientale, a meno che ciò non avvenga per iniziativa e con il consenso degli stati interessati (cioè gli stessi stati che hanno svenduto gli interessi dei cittadini a quelli del mercato!).
L’unica nota stonata, in questa meritevole campagna per difendere il potere decisionale delle istituzioni democratiche statunitensi dall’invadenza del mercato globale, sono i toni nazionalistici con cui si condanna la resa dello stato americano agli interessi delle imprese straniere. Stona perché il trattato regala analoghi poteri alle multinazionali americane nei confronti degli stati di altri paesi (discorso che ci tocca da vicino, visto che il TTIP, il trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti che dovrebbe essere siglato fra Stati Uniti e la Ue e i cui negoziati procedono con la stessa opacità con cui sono stati condotti quelli per il TPP, avrebbe analoghi effetti).
Questo riflesso nazionalistico rispecchia l’illusione di poter ancora rivendicare i privilegi “imperiali” del popolo americano nei confronti del resto del mondo: più diritti, più libertà e più reddito pagati dall’altrui oppressione e povertà. Ma oggi quei privilegi imperiali spettano solo alle multinazionali (americane e non) e vengono pagati da tutti i popoli del mondo (ivi compreso quello americano). Prima se ne renderanno conto meglio sarà ai fini di una lotta comune contro TTIP, TPP e analoghe porcherie.
Carlo Formenti
(31 marzo 2015)
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