mercoledì 25 marzo 2015

Renzi, Montesquieu e la divisione dei poteri

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di Angelo Cannatà 

Il Presidente del Consiglio parlando del caso Lupi ha detto: “Le dimissioni si danno per una motivazione politica o morale, non per un avviso di garanzia.” La frase nasce dalla volontà di difendere ad ogni costo (e contro ogni ragione) i sottosegretari inquisiti del suo governo. Buoni motivi ci spingono a contestarla. 

In tutti i Paesi occidentali dove vige il rispetto della legge, essere indagati dalla magistratura produce, se si ricoprono funzioni di governo, effetti politici. Giolitti, per citare dai libri di storia, coinvolto nello scandalo della Banca romana, si dimise: fu il giusto effetto – impossibile non vederlo – della divisione dei poteri (“il potere limita il potere”), al di là di ogni fuorviante lettura di Montesquieu. 

Qui però bisogna fermarsi a ragionare. Matteo Renzi, incontrando gli studenti della Luiss a Roma, cita l’autore de Lo Spirito delle leggi, ma ne fa – ecco il punto – un uso politico: “Quando dico che un sottosegretario indagato non si deve dimettere, sto difendendo il principio di Montesquieu”. Sottolinea, della divisione dei poteri, soltanto l’autonomia della politica dalla magistratura, “dimenticando” (c’è bisogno di scomodare Freud?) che le pagine del filosofo, e l’attualità politica, dicono, anche, dell’autonomia della magistratura dal potere esecutivo che – guarda caso – proprio la legge sulla responsabilità civile dei giudici mette in pericolo. 


Insomma: Renzi dimentica che la tesi – centrale in Montesquieu – “il potere limita il potere”, significa anche (in certi frangenti: soprattutto) controllo della magistratura sugli abusi della politica. Nonostante il Premier divaghi e occulti i dati reali – ed è significativo che avvenga nell’università della Confindustria – svalutare le Toghe vuol dire cancellare davvero Montesquieu in nome di una presunta autonomia esclusiva della politica. 

La verità, come sempre, è complessa e ama nascondersi. Soprattutto a chi non vuole vederla. Se l’abuso dei governanti non viene “frenato” dalla magistratura e l’avviso di garanzia non produce effetti, che fine fa la giustizia? Nessuno è colpevole fino a sentenza definitiva. Vero. Se, tuttavia, bisogna aspettare dieci anni (questi sono i tempi della giustizia in Italia), la corruzione distruggerà lo Stato. Impossibile negarlo. 

Renzi invoca la presunzione d’innocenza. Principio sacrosanto. Ma intanto c’è un magistrato che indaga, ci sono delle accuse, delle intercettazioni, delle ipotesi di reato, dei documenti da vagliare... Senza voler emettere la sentenza prima che si pronuncino i giudici, è bene che l’inquisito (se ricopre un ruolo politico) faccia un passo indietro. Accade in tutti i Paesi di democrazia avanzata: dall’Inghilterra di Locke alla Francia di Montesquieu. Perché non dovrebbe accadere nell’Italia di Beccaria? 

Del nostro filosofo si ricorda spesso la difesa della “presunzione d’innocenza”. Non sarebbe male evidenziare che parlò anche di terzietà del giudice, inteso quale “indifferente ricercatore del vero” (cap. XVII). Un’inchiesta giudiziaria non può essere svalutata, denigrata a-priori (è quel che accade), come se il magistrato fosse un avversario politico (Renzi: “qualsiasi giudice può iniziare un’indagine e decidere sul potere esecutivo”). Non è così: un giudice è “un indifferente ricercatore del vero”, fino a prova contraria. 

Di più: Beccaria parlò di “proporzione fra i delitti e le pene”, indicando il danno alla società, quale “vera misura dei delitti”. Capitolo VIII: “la vera misura dei delitti, cioè il danno alla società. Questa è una di quelle palpabili verità che, quantunque non abbiano bisogno né di quadranti, né di telescopi per essere scoperte (…) pure per una maravigliosa combinazione di circostanze non sono con decisa sicurezza conosciute che da alcuni pochi pensatori”. Domanda: quale danno – non solo d’immagine – alla società, al nostro Paese, produce il politico inquisito, raggiunto da un avviso di garanzia, che resta pervicacemente attaccato alla poltrona, agli interessi, ai suoi intrallazzi? 

Beccaria era garantista, d’accordo; tuttavia, senza esprimere condanne preventive, oggi inviterebbe il politico indagato a farsi da parte per il tempo necessario a chiarire la sua posizione. Per amore della Comunità. “L’attenzione alla società” (insieme a quella per il singolo) era – benché poco citata – un’idea importante nella sua dottrina. 

Infine. Una questione sottile ma non meno importante. L’etica e il diritto. Renzi dichiara che le dimissioni si danno per motivi morali, non per un avviso di garanzia. Scinde in modo troppo netto la morale dal diritto. E’ corretto? “Secondo l’indirizzo prevalente – scrive Norberto Bobbio –, il carattere specifico del diritto rispetto ad altre forme normative (come la morale sociale) consiste nel fatto che ricorre in ultima istanza alla forza fisica per ottenere il rispetto delle norme.” Un principio morale accettato dalla Polis trova nel diritto una codificazione che si avvale della forza. Anche un avviso di garanzia – per dirla alla Hegel – è un frammento del diritto che incarna in sé un valore morale. 

Ma è inutile volare così alto: la frase di Renzi nasce, purtroppo, dalla bassa cucina del potere, dall’arroganza (in questo ha ragione D’Alema), che pretende di avere l’ultima parola anche sul diritto: cosa vogliono questi magistrati con i loro avvisi di garanzia! I sottosegretari inquisiti non si dimetteranno: sono al di là del bene e del male. Nietzsche + volontà di potenza + cecità della sinistra = renzismo. Quanto tempo ci vorrà ancora per capire che la società civile e una forte coalizione sociale sono l’unica alternativa (vera) al Duce di Firenze? 

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