di Nino Lisi
Non
c’è bisogno di ricorrere ad Alessandro Manzoni ed ai suoi Promessi
Sposi per riconoscere che il torto e le ragione non si separano con un
coltello e che mai in un conflitto tutte le ragioni stanno da una
parte sola e tutti i torti dall’altra. Ciò vale ovviamente anche per il
conflitto asimmetrico che oppone lo Stato di Israele al Popolo
Palestinese e viceversa.
Lo
affermo in premessa, perché non sopporto più che ogni qual volta si
cerchi di trovare una via d’uscita dalla situazione di stallo in cui si
sono impantanati i cosiddetti colloqui di pace, qualcuno voglia rifarsi a
questa ovvia e banale constatazione per spostare il discorso e
riportarlo al 1948, anzi a qualche anno prima, come è avvenuto appena
martedì scorso 24 febbraio ad opera dell’editorialista del Corriere
della Sera Pier Luigi Battista, nella nota trasmissione di Radio 3
<Tutta la Città Ne Parla>.
E’
evidente che risalire alle sue origini è indispensabile per capire la
genesi di qualsiasi conflitto, distinguerne le componenti e
comprenderne le dinamiche. Ma l’anamnesi non si può ripetere
all’infinito, altrimenti non si parla più dell’oggi, tanto meno di un
futuro possibile ma si resta fermi nel pantano. Un volta che il
ritorno alle origini sia servito per identificare e qualificare i
punti cruciali della situazione in atto, se si vuol tentare di superarla
bisogna procedere oltre.
Partiamo
dunque dalla situazione attuale del conflitto, i cui tratti essenziali
sono bene evidenti. Possono secondo me indicarsi così: a) il processo di pace ipotizzato dagli accordi di Oslo è definitivamente fallito; b) i colloqui sono bloccati e non c’è verso di farli riprendere; c) a
seguito della guerra del ‘67 i territori assegnati ai Palestinesi sono
passati dal 49% della Palestina storica deciso dall’ONU nel 1948 al
22%; d) in
quel 22% insistono anche le colonie israeliane che sono
collegate tra loro da una efficiente rete stradale, controllata
dall’esercito israeliano ed inibita ai palestinesi; quel 22% si
riduce quindi di molto e per di più è estremamente frammentato; e) il
processo di colonizzazione che ha portato il numero dei coloni dai
150.000 dell’epoca di Oslo agli attuali 600.000, è tuttora in atto in
Cisgiordania come a Gerusalemme, il che rende evidente che l’obiettivo
di Israele è di non lasciare spazio ad uno Stato di Palestina; e) a
riprova vi è la testimonianza di uno dei maggiori artefici degli
Accordi di Oslo, il diplomatico israeliano Ilan Baruch, che qui a
Roma appena tre giorni fa, nella sede di SEL di via Passino, ha
pubblicamente dichiarato di essersi dimesso dalla sua carica di
ambasciatore dello Stato di Israele nel 2009 essendosi reso conto che il
Governo Netanyahu aveva abbandonato la politica di due popoli e due
stati, che avrebbe comportato la rimozione delle colonie e per la quale
egli si era sino ad allora convintamente speso.
Allo
stato dei fatti il Popolo Palestinese vive sotto un ferreo assedio a
Gaza e sotto una dura occupazione in Cisgiordania, mentre è soggetto a
continui espropri in Gerusalemme; nel contempo la “sicurezza” di Israele
è affidata a misure straordinarie quanto precarie (il muro, la cui
illegalità è stata dichiarata da più autorevoli fonti, i check point,
i droni,i periodici sanguinosi attacchi a Gaza), la cui efficacia
difficilmente potrà durare per moltissimo tempo.
Non
si può ignorare per altro che mai come in questo caso le vicende del
conflitto non riguardano solo i due contendenti. Infatti, se i
governanti arabi, nel timore che l’esempio di un popolo che non si
arrende e che si batte per la propria libertà possa contagiare anche i
loro popoli, mantengono nei confronti del Popolo Palestinese e della sua
causa posizioni equivoche, per le popolazioni arabe – lo ha notato di
recente in un suo articolo Roberto Savio – la dominazione di Israele
sui i Palestinesi è “una chiara prova dell’intenzione (dell’Occidente)
di tenere gli Arabi sottomessi e cercare solo alleanze con governanti
corrotti e delegittimati che dovrebbero esser cacciati via”. Il che,
ovviamente, è fonte di frustrazioni, rancori, ire, volontà di riscatto
che costituiscono il contesto da cui germinano il fondamentalismo
religioso, l’estremismo politico e il terrorismo: i soggetti, cioè, che
alimentano i venti di guerra sorti in Medio Oriente, che si sono
espansi nel Nord Africa e minacciano ora di raggiungerci.
Che fare, dunque?
Da
alcuni si invoca il ricorso alle armi, per opporre violenza a violenza,
morte a morte. Ma sarebbe una scelta sciagurata non solo perché
moltiplicherebbe distruzioni lutti e dolori – conseguenze già
sufficienti per escludere una soluzione del genere – ma perché
costituirebbero un enorme incentivo al proliferare dei fondamentalismi e
degli estremismi. La diplomazia allora deve intervenire. Un
soprassalto delle pubbliche opinioni, a cominciare da quella italiana,
una loro forte mobilitazione può indurre la diplomazia internazionale
ad un’azione efficace che riesca a sostituire la forza del diritto e
della ragione alla forza delle armi. Perché il punto sta qui: per
evitare il ricorso alle armi non c’è altra possibilità che imporre
l’osservanza del Diritto: a tutti, ai Palestinesi ed anche ad Israele.
Anzi, in primo luogo ad Israele.
La
diplomazia da sola può non bastare: al mondo arabo bisogna dare dei
segnali rassicuranti, bisogna mostrare che nei suoi confronti qualcosa
in Occidente sta cambiando, che il Diritto, di cui l’Occidente mena
vanto come di una propria conquista valida per il mondo intero, non
ha una doppia valenza ma una sola, universale, e non è applicato a
seconda delle convenienze. Bisogna dare il segnale che anche Israele
deve sottostare al Diritto e che per il Popolo Palestinese può esserci
Giustizia. Bisogna far capire che la pavidità di cui gli Stati
occidentali hanno dato prova nei confronti di Israele, e che solo in
parte è spiegabile in rapporto al senso di colpa per l’ antisemitismo
che per secoli ha imperversato ed ancora non è scomparso, sta per finire
per cui anche l’impunità di cui Israele ha goduto sinora per
complicità e connivenze internazionali cesserà
Un
segno del genere potrebbe darlo la Corte Penale Internazionale che
a seguito dell’adesione allo Statuto di Roma da parte dell’Autorità
Nazionale Palestinese ha intrapreso una verifica per accertare se
sussistano gli estremi per indagare Israele sui crimini di guerra
commessi durante l’attacco portato dalle sue forze armate a Gaza, la
scorsa estate.
Naturalmente
sia gli USA sia Israele stanno facendo quanto di peggio è possibile
per bloccare l’incipiente azione della CPI. Al riguardo l’Agenzia
Adista informa che nello scorso mese di dicembre il Congresso
statunitense ha approvato una legge per la quale gli Stati Uniti
possono bloccare i fondi destinati all’Anp (svariati milioni di dollari
l’anno) qualora questa dia in qualche modo il via o sostenga
un’inchiesta della Corte Penale Internazionale sui crimini
commessi da israeliani contro palestinesi» e se ottenga lo status di
membro a pieno titolo delle Nazioni Unite al di fuori di un accordo con
Israele; la portavoce del Dipartimento di Stato, Jen Psaki, non solo ha
dichiarato «controproducente» l’adesione dell’Anp alla Corte penale ma
ha ventilato possibili conseguenze sul piano dell’assistenza
economica. Dal canto suo Israele, sin dall’annuncio della richiesta
di adesione dell’ANP allo Statuto di Roma, ha congelato il trasferimento
di 127 milioni di dollari, provenienti da tasse e dazi doganali
raccolti secondo quanto previsto dal Protocollo di Parigi, conseguente
agli Accordi di Oslo, dallo stesso Israele per girarli all’Anp.
Se
Usa ed Israele riuscissero nel loro intento o se Stati europei non
dessero all’occorrenza una valida collaborazione alle indagini della CPI
si fornirebbe al mondo arabo l’ennesima dimostrazione che Diritto e
Giustizia non hanno valenza universale, che l’ Occidente li applica a
proprio piacimento ed intende continuare ad imporre la propria
supremazia agli altri popoli. Ciò rinfocolerebbe i venti di guerra che
minacciano anche noi.
Per
dare un contributo al tentativo di evitarlo, la Rete Romana di
Solidarietà con il Popolo Palestinese, insieme all’associazione Ebrei
Contro l’Occupazione, ha in questi giorni diffuso a livello
internazionale un appello in quattro lingue rivolto all’Alto
Rappresentante della Politica Estera Europea Federica Mogherini, al
Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker, all’Alto
Rappresentante per i Diritti Umani dell’UE Stavros Lambridinis e ai
Ministri degli Esteri degli Stati dell’UE, con il quale si chiede che
sostengano l’azione della Corte Penale Internazionale.
Nella prima settimana dal lancio l’appello ha raccolto più di 1000 firme.
L’obiettivo
non è semplicemente di ottenere una condanna giudiziaria di Israele,
dopo quelle numerose ed autorevoli che si sono susseguite a livello
politico la scorsa estate, e di dare al mondo arabo il segnale di cui si
diceva, ma di mobilitare le opinioni pubbliche per sollecitare
un’azione efficace della diplomazia internazionale che riesca ad
inaugurare un nuovo e questa volta serio percorso di pace.
L’auspicio
è che tutto ciò avvenga. Per questo si chiede una firma in calce
all’appello che si raggiunge cliccando su questo indirizzo http://chn.ge/1J5ufi5 ed il cui testo si può leggere qui a fianco.
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