Una malattia che è ormai divenuta cronica, ma non per questo meno insidiosa. Oggi è la Giornata mondiale contro l’Aids. Sul vaccino pareri contrastanti. Il professor Fernando Aiuti: "Impossibile stabilire una data" ma Guido Silvestri, direttore della divisione di Microbiologia e immunologia ad Atlanta è più ottimista: "Credo che ci vorranno 15-20 anni"
ilfattoquotidiano.it di Davide Patitucci
Più di 34 milioni di contagiati nel mondo, di cui la metà donne e 3,3 milioni bambini di età inferiore ai 15 anni. Meno di un quarto, circa 8 milioni, ha accesso ai farmaci salvavita. Superiore a 2 milioni il numero di decessi nel 2010 e di poco inferiore ai 17 miliardi di dollari la cifra investita solo lo scorso anno nelle nazioni più povere, le più colpite. Sono alcuni numeri della guerra dei trent’anni contro l’Aids, messi nero su bianco dal Rapporto 2012 sull’epidemia pubblicato dall’Unaids, il Programma dell’Onu per coordinare l’azione globale contro l’Aids.
Una malattia che è ormai divenuta cronica, ma non per questo meno insidiosa. Secondo le stime della XIX Conferenza internazionale sulla lotta all’Aids, che si è svolta a Washington lo scorso luglio, ogni anno 2,5 milioni di nuovi contagiati, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, si aggiungono alla folla di malati che attende da tempo un vaccino. A lungo ricercato, tra periodici annunci – l’ultimo, di alcune settimane fa, sulle pagine di “Nature”, relativo a un preparato messo a punto dal Ministero della salute thailandese e dall’esercito Usa, che ha mostrato un’efficacia del 31 per cento in test su 16 mila individui – e successive smentite. In occasione della Giornata mondiale contro l’Aids che si celebra ogni anno l’1 dicembre, abbiamo chiesto di fare il punto sulla ricerca e le speranze di una cura a due esperti che studiano da anni l’infezione da Hiv: Fernando Aiuti, professore emerito di Allergologia e Immunologia clinica all’Università La Sapienza di Roma e Guido Silvestri, direttore della divisione di Microbiologia e immunologia allo Yerkes National Primate Research Center, della Emory University di Atlanta.
Qual è lo stato della ricerca sull’Aids? Come sono cambiate le strategie di contrasto in questi anni?
Aiuti – Negli ultimi 15 anni sono stati scoperti nuovi farmaci antivirali che hanno assicurato una qualità di vita migliore rispetto al passato e sono riusciti a garantire la remissione clinica della malattia per molti anni. Oggi la ricerca continua nello sviluppo di nuovi farmaci meno tossici e più efficaci nel contrastare il virus, bloccandone i complessi meccanismi di replicazione o intervenendo nel chiuderne le porte di entrata preferite nelle cellule del sistema immunitario. Un altro filone di ricerca è volto all’eradicazione dell’infezione in persone malate usando vari farmaci antivirali associati a sostanze immunostimolanti, inclusi alcuni prototipi di vaccini cosiddetti terapeutici. In passato le strategie, ad esempio nelle donne, erano dirette a evitare il concepimento o l’allattamento, oggi si è riusciti con i farmaci a ridurre quasi a zero la trasmissione materno-fetale e materno-neonatale dell’infezione. L’informazione, la prevenzione, l’incentivazione dell’uso del profilattico e il counselling con invito al test Hiv hanno contribuito, insieme ai farmaci, a ridurre l’incidenza delle nuove infezioni nel mondo.
Silvestri – È la storia del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Ma siccome io sono un ottimista nato, direi un po’ più pieno che vuoto. Sicuramente sono stati fatti grandi progressi nella terapia e nella comprensione dei meccanismi molecolari e cellulari con cui il virus causa la malattia. Purtroppo, però, non abbiamo ancora né un vaccino veramente efficace, né un metodo per guarire l’infezione.
A cosa è dovuta la riduzione della mortalità dell’epidemia?
Aiuti - Alla diagnosi precoce e ai nuovi farmaci antivirali che devono essere assunti in modo continuo. Le strategie della terapia intermittente sono fallite. Oggi il pericolo è rappresentato da alcune complicanze causate dall’uso continuo dei farmaci antivirali (infarti cardiaci, aterosclerosi, patologie ai reni e fegato, lipodistrofia) e dall’insorgenza di alcuni tumori a volte correlati con il grado di immunodeficienza.
Silvestri – Principalmente alla disponibilità di molti farmaci antivirali che bloccano la replicazione dell’Hiv in modo pressoché completo. Di conseguenza l’infezione, che fino al 1995-1996 era quasi sempre mortale, è diventata una malattia cronica con cui si può convivere per molti anni.
Quando potrà essere disponibile un vaccino contro l’Hiv?
Aiuti – Non è possibile al momento stabilire una data. Potrei rispondere che un vaccino contro l’Hiv esiste già, è l’unico che ha superato la fase III ed ha mostrato una protezione in volontari sani del 31 per cento. Si tratta del vaccino testato in circa 16000 persone in Thailandia, RV144 – ALVAC (associa il vettore ALVAC alla proteina del virus Hiv-l gp120). La maggior parte dei ricercatori ritiene, tuttavia, che questo livello di protezione sia insufficiente per utilizzare questo prodotto su larga scala. Anzi, secondo me, potrebbe essere persino dannoso perché le persone vaccinate potrebbero sentirsi falsamente rassicurate dall’immunizzazione. Un vaccino deve fornire una protezione superiore all’80 per cento per poter essere utilizzato su larga scala. La ricerca va avanti e i vaccini più interessanti ora pervenuti alle fasi II e III (finalizzate a valutarne l’efficacia terapeutica nell’uomo) sembrano quelli a base di plasmidi (piccole molecole di dna circolare) contenenti Dna virale o la combinazione di almeno tre subunità del virus Hiv (Gag, Env, Nef). Il problema è che in questa infezione non si conoscono i correlati della protezione, cioè quali siano i fattori immunologici in grado d’impedire l’infezione.
Silvestri – Io non sono particolarmente fiducioso, credo che ci vorranno almeno altri 15-20 anni. Ma certamente spero di sbagliarmi.
Cosa pensa dei periodici annunci di una cura? Crede possano far abbassare la guardia in termini di prevenzione?
Aiuti – Negli ultimi anni non mi sembra che ci siano stati annunci di possibilità di guarigione dalla malattia, ma solo di sua cronicizzazione. Credo che i giovani a causa della mancanza di campagne d’informazione non sappiano più nulla di questa patologia e non si proteggano a sufficienza. L’epidemia è stabile ma ogni anno in Italia ci sono 4000 nuove infezioni e solo a Roma circa 700. Una delle poche campagne nelle scuole è quella in corso proprio a Roma, ad opera del Comune e di 12 associazioni. Dai questionari proposti risulta una notevole disinformazione, addirittura solo il 20 per cento dei giovani usa il preservativo regolarmente nei rapporti sessuali, mentre, secondo un sondaggio dell’Anlaids il 22 per cento ritiene addirittura che sia già stato scoperto il vaccino contro l’Aids.
Silvestri – In generale non è mai una buona idea fare annunci “clamorosi” di cure o vaccini per l’Aids, perché questi provocano entusiasmi ingiustificati, seguiti inevitabilmente da grosse delusioni. Purtroppo a volte anche noi scienziati cadiamo nella tentazione dei “15 minuti di celebrità” ed è veramente un peccato che sia così.
Quali sono le aspettative del “vaccino Tat” dell’Istituto superiore di sanità (Iss)?
Aiuti – Il vaccino Tat ha avuto una storia travagliata e lunga, la prima sperimentazione nelle scimmie risale al 1999, la fase I nell’uomo (per testare la tolleranza dell’organismo) è terminata tra molte polemiche nel 2005 a causa di una prematura interruzione della sperimentazione e di variazioni al protocollo criticate dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa). Se facciamo riferimento al vaccino preventivo Tat, cioè quello da utilizzare in persone sane, non mi risulta che abbia mai superato la fase I. Per quanto riguarda, invece, il vaccino Tat a uso terapeutico, in persone cioè già infette, la fase II in Italia è iniziata in circa 130 persone nell’agosto del 2008 e dopo quattro anni è stata pubblicata solo un’analisi ad interim a metà dello studio con dati per me incerti e non dimostrativi dell’efficacia terapeutica. In questa sperimentazione, eseguita in malati in terapia antivirale, risulta difficile separare gli effetti positivi del vaccino Tat da quelli indotti dai farmaci, anche perché i controlli non erano in contemporanea e in cieco (quando medico e paziente – doppio cieco – o solo quest’ultimo non conoscono la natura del farmaco testato), ma selezionati dai centri su base storica.
Silvestri – I dati iniziali sulle scimmie che sembravano promettenti non sono stati confermati e quelli sull’uomo mi sembrano finora poco convincenti. Concettualmente mi preoccupa il fatto che Tat sia una proteina in grado di assorbire mutazioni genetiche senza perdere funzioni, una qualità che la rende poco praticabile come target per un vaccino.
A quanto ammontano i costi di questa sperimentazione e quali sono i risultati già raggiunti?
Aiuti – Non conosco esattamente i finanziamenti impiegati per il vaccino Tat, ma in genere per una fase I sono necessari dai 3 ai 5 milioni di euro, per una fase II ne occorrono almeno 30 – 50, e ciò varia in base al numero delle persone arruolate, mentre per una eventuale fase III in volontari sani si stima almeno che ci vorrebbero dai 300 ai 500 milioni di euro, una cifra che solo le industrie farmaceutiche sono in grado d’investire. Quindi, dopo 13 anni dall’inizio della sperimentazione nelle scimmie del vaccino Tat dell’Iss non abbiamo ancora un vaccino preventivo, né un vaccino terapeutico e non mi risulta che le industrie farmaceutiche finora siano interessate alla sua eventuale produzione.
Silvestri – Sui costi non posso pronunciarmi perché non conosco i numeri esatti. Sui risultati ho alcuni dubbi.
È possibile sconfiggere l’Aids con un unico vaccino come per il vaiolo o la polio, oppure occorre un approccio diversificato come per l’influenza?
Aiuti – Purtroppo il modello di queste malattie sopra citate, come quello di morbillo, varicella, tetano o dell’influenza, non è efficace. Infatti, nell’infezione naturale da Hiv, pur formandosi anticorpi, questi non sono in grado di neutralizzare il virus e di eliminarlo dall’organismo, cioè non esiste un’immunità adottiva efficace. Ci sono alcune persone che non s’infettano nonostante l’esposizione, ma questo dipende da una caratteristica di ereditarietà genetica e non ambientale e ci sono altre persone, poche, che se s’infettano sopravvivono al virus, hanno una buona immunità e non si ammalano di Aids. Si stanno studiando queste persone per capire i meccanismi di difesa immune anti-Hiv e per cercare di sfruttarli ai fini di un vaccino. Tra questi sembrano avere importanza gli anticorpi diretti verso le regioni interne più conservate del virus, sulle quali si sta puntando per trovare un vaccino efficace.
Silvestri - Credo che la strada più promettente per generare un vaccino contro l’Aids sia quella percorsa da vari gruppi negli Usa, basata sullo sviluppo di prodotti (immunogeni) che stimolano la produzione di anticorpi capaci di neutralizzare il virus. Questi anticorpi esistono in natura (anche se vengono prodotti solo da una minoranza di pazienti) e, se presenti prima dell’infezione, proteggono in maniera molto efficace nel modello delle scimmie. La difficoltà sta nell’educare il sistema immunitario a produrre anticorpi con un vaccino. Questo è un problema biologico molto complesso. Però i recenti progressi nella conoscenza della struttura e funzione di questi anticorpi mi rendono cautamente ottimista.
La via del vaccino è risolutiva o esistono altre strade potenzialmente più efficaci?
Aiuti - Come per tutte le malattie infettive controllate o sconfitte, la strada del vaccino sarebbe quella vincente. Ma, fino a quando non ci sarà un vaccino efficace, è meglio puntare sulla terapia delle persone con infezione (chi prende i farmaci infetta poco le persone dopo i rapporti sessuali) e sulla informazione e prevenzione, cercando di cambiare i comportamenti a rischio e la sudditanza delle donne nei confronti dell’uomo nei rapporti sessuali.
Silvestri – Credo che la prevenzione dell’Hiv debba esplorare non solo il vaccino, ma anche interventi di tipo “microbicida”, e naturalmente continuare a fare prevenzione di tipo comportamentale (educazione, uso del preservativo, siringhe monouso, ecc).
Perché le scimmie infettate da un parente stretto dell’Hiv non si ammalano? È possibile replicare il fenomeno nell’uomo e sfruttarlo a scopo terapeutico?
Aiuti – Questo avviene solo per alcune specie di scimmie, mentre altre si ammalano e la differenza è rappresentata sia dal sistema immunitario più resistente che dalla minore virulenza del virus. Questo è vero anche per l’uomo. Infatti, il ceppo virale Hiv-2, diffuso solo in alcune regioni dell’Africa equatoriale occidentale è molto meno patogeno del virus Hiv-1.
Silvestri – Le scimmie africane infettate con Siv, una famiglia di virus molto simili all’Hiv, non si ammalano per due motivi collegati tra loro. Il primo è che il virus infetta prevalentemente dei sottogruppi delle cellule CD4 (il bersaglio dell’Hiv) che possono essere più facilmente rimpiazzati dal sistema immunitario, per cui l’organismo non ha necessità di aggredire il virus. Il secondo è che le scimmie africane hanno sviluppato dei meccanismi per evitare la cronica attivazione del sistema immunitario, che segue alla infezione da Hiv negli uomini e contribuisce alla progressione verso l’Aids. In pratica, è come se avessero trovato il modo di deviare il virus verso cellule poco importanti del sistema immunitario.
Qual è il segreto della strategia terapeutica adottata su Timothy Brown, considerato unico malato guarito dall’Aids? È riproducibile su altri pazienti ?
Aiuti – In realtà, non è proprio così. La guarigione clinica e l’assenza del virus nel sangue periferico o nel midollo non sono sufficienti a sostenere che la persona sia guarita, perché il virus potrebbe trovarsi in altri tessuti. Nel caso di questo paziente alcuni medici statunitensi hanno rilevato tracce di virus nell’intestino. Timothy Brown è stato trapiantato a Berlino con cellule di donatore con un sistema immunitario particolare, che rende queste cellule scarsamente infettabili dal virus Hiv per una mutazione al recettore del CCR5, una delle porte d’ingresso del virus. Ci sono, inoltre, altri due importanti fattori che rendono eccezionale l’evento e difficile la sua riproposizione: i donatori con queste caratteristiche immunologiche nella popolazione sono meno dell’1 per cento e in più c’è il grave rischio di usare il trapianto di midollo osseo tra persone non consanguinee e non compatibili, con il pericolo di rigetto o morte in oltre 2/3 dei casi.
Silvestri – Ci sono almeno due segreti. Avere fatto una terapia cosiddetta mielo-ablativa, che ha distrutto tutte o quasi le cellule latentemente infettate da Hiv, ed aver ricostruito il midollo con cellule provenienti da un donatore che aveva una rara variante genetica del recettore per Hiv (una molecola chiamata CCR5), che causa resistenza alla infezione. La riproducibilità di questo approccio è purtroppo molto limitata, visti i rischi connessi alla mieloablazione (che nel caso di Timothy Brown è stata fatta per trattare una leucemia) e la scarsità di donatori con questa variante speciale del gene CCR5.
Qual è lo stato della ricerca e della prevenzione in Italia?
Aiuti – Dopo un grande successo iniziale tra gli anni 90 e fino al 2005, quando l’Italia era tra le prime sei nazioni al mondo per pubblicazioni internazionali e per varie attività scientifiche, ora il nostro contributo è molto diminuito. Sia per lo sviluppo della ricerca scientifica in altri paesi come quelli appartenenti ai BRICS o del Sud est asiatico, sia per la diminuzione degli investimenti pubblici su questo settore negli ultimi anni, a causa della crisi.
Silvestri – Direi molto buono per la ricerca clinica, con area di eccellenza nel settore dello studio delle resistenze ai farmaci antivirali e dei meccanismi per cui certi pazienti rispondono meglio (o peggio) di altri alla terapia antiretrovirale. Mi sembra, invece, che la ricerca di base soffra, sia per la cronica mancanza di fondi, che per una serie di difficoltà “logistiche” nel far crescere una nuova generazione di ricercatori italiani che siano competitivi a livello internazionale.
UNAIDS GLOBAL REPORT 2012
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