L’ultima
occupazione a Roma è scattata lunedì nell’ospedale San Filippo Neri.
Sarà presto la penultima; è prevedibile che altre ne verranno. E sono
ormai centinaia, piccole e grandi, sparse in ogni angolo di città: si
accumulano, si stratificano, si consolidano.
Riguardano immobili d’ogni tipo. Edifici d’abitazione desolati, teatri e
antichi cinema malinconicamente chiusi, officine e stabilimenti in
disuso da decenni, studentati, scuole abbandonate, spazi pubblici
inutilizzati, perfino aree e casali rurali.
Se i medici e gli infermieri occupano un ospedale che il governo ha deciso di chiudere, se ragazzi e ragazze s’impossessano di un cinema abbandonato per evitare che diventi un centro commerciale o una sala giochi, se gli studenti fuorisede si riprendono quelle stanze a cui hanno diritto ma che le Università non sono più in condizioni di garantire, se insomma tutto questo succede con una ritmica incalzante, l’impressione è che in città si sia raggiunto il limite di sostenibilità sociale di queste scellerate politiche economiche.
L’impoverimento delle famiglie che non riescono più a pagare mutui o canoni d’affitto s’incrocia con la difesa di quei servizi sociali e sanitari che i bilanci pubblici stanno depennando. E si connette anche con quell’impulso giovanile frustrato e deprivato d’ogni possibilità espressiva, che invece di disperarsi o sterilizzarsi in un’incupita emarginazione, prova a ribellarsi e a riprendersi quel che considera suo: la cultura, l’arte, il piacere d’incontrarsi, di condividere, di fare progetti. Ed è forse per questa ragione che le occupazioni romane non si limitano a difendersi e resistere, ma concretamente trasformano quegli spazi in ciò che dovrebbero essere: case dove alloggiare, centri culturali dove studiare e creare, servizi sociali rivolti ai bisogni della cittadinanza. Una riappropriazione che si autogoverna per restituire quanto sottratto dalla crisi economica e dall’insipienza politica.
C’è in queste pratiche anche qualcosa d’altro. E’ come se si prefigurasse il futuro della città: dove non è più possibile continuare con scelte espansive, ma al contrario intervenire nell’esistente. Roma è finita così com’è, l’agro circostante non può ridursi nemmeno di un centimetro quadrato: altrimenti la città collassa e s’avvelena definitivamente.
Bisogna agire su quella gran matassa dei tessuti urbani già depositati, riconvertendo e rigenerando un’edilizia incrostata e deperita, riattivando volumi abbandonati e creando spazi pubblici, riconsegnando alle persone funzioni e servizi mancanti o manchevoli. E non è esattamente ciò che queste occupazioni stanno nel concreto realizzando?
Sandro Medici
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