L’ultima
occupazione a Roma è scattata lunedì nell’ospedale San Filippo Neri.
Sarà presto la penultima; è prevedibile che altre ne verranno. E sono
ormai centinaia, piccole e grandi, sparse in ogni angolo di città: si
accumulano, si stratificano, si consolidano.
Riguardano immobili d’ogni tipo. Edifici d’abitazione desolati, teatri e
antichi cinema malinconicamente chiusi, officine e stabilimenti in
disuso da decenni, studentati, scuole abbandonate, spazi pubblici
inutilizzati, perfino aree e casali rurali.
Non è certo la prima volta che a Roma si organizzano occupazioni, anche estese, ma è inedito il panorama immobiliare di queste azioni: non più solo alloggi abitativi, anche volumetrie direzionali e di servizio da recuperare alla loro originaria funzione, sociale o culturale che sia. Occupy Roma, verrebbe da dire. Una Roma capitale della speculazione edilizia finalmente contrastata da una movimentazione sociale, spesso spontanea, che si riappropria di quanto il mercato (e la politica) le sottrae, le nega. E’ insomma una rivolta contro quella crescente privatizzazione immobiliare, che ingoia e aggredisce l’intero patrimonio edilizio, per svenderlo a qualche famelico parassita o per sfruttarne al massimo coefficiente la rendita. E tutto ciò nonostante le rilevazioni dell’Istat segnalino l’esistenza di 140.000 appartamenti vuoti e inutilizzati, nonostante i dati dell’Associazione costruttori lamentino 51.000 nuovi alloggi invenduti, nonostante le centinaia di concessioni edilizie giacenti negli uffici comunali che nessuno più ritira.
Se i medici e gli infermieri occupano un ospedale che il governo ha deciso di chiudere, se ragazzi e ragazze s’impossessano di un cinema abbandonato per evitare che diventi un centro commerciale o una sala giochi, se gli studenti fuorisede si riprendono quelle stanze a cui hanno diritto ma che le Università non sono più in condizioni di garantire, se insomma tutto questo succede con una ritmica incalzante, l’impressione è che in città si sia raggiunto il limite di sostenibilità sociale di queste scellerate politiche economiche.
L’impoverimento delle famiglie che non riescono più a pagare mutui o canoni d’affitto s’incrocia con la difesa di quei servizi sociali e sanitari che i bilanci pubblici stanno depennando. E si connette anche con quell’impulso giovanile frustrato e deprivato d’ogni possibilità espressiva, che invece di disperarsi o sterilizzarsi in un’incupita emarginazione, prova a ribellarsi e a riprendersi quel che considera suo: la cultura, l’arte, il piacere d’incontrarsi, di condividere, di fare progetti. Ed è forse per questa ragione che le occupazioni romane non si limitano a difendersi e resistere, ma concretamente trasformano quegli spazi in ciò che dovrebbero essere: case dove alloggiare, centri culturali dove studiare e creare, servizi sociali rivolti ai bisogni della cittadinanza. Una riappropriazione che si autogoverna per restituire quanto sottratto dalla crisi economica e dall’insipienza politica.
C’è in queste pratiche anche qualcosa d’altro. E’ come se si prefigurasse il futuro della città: dove non è più possibile continuare con scelte espansive, ma al contrario intervenire nell’esistente. Roma è finita così com’è, l’agro circostante non può ridursi nemmeno di un centimetro quadrato: altrimenti la città collassa e s’avvelena definitivamente.
Bisogna agire su quella gran matassa dei tessuti urbani già depositati, riconvertendo e rigenerando un’edilizia incrostata e deperita, riattivando volumi abbandonati e creando spazi pubblici, riconsegnando alle persone funzioni e servizi mancanti o manchevoli. E non è esattamente ciò che queste occupazioni stanno nel concreto realizzando?
Sandro Medici
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