lostraniero.net Il rapporto tra politica ed
economia si è ribaltato. Non abbiamo più il governo pubblico e politico
dell’economia, ma il governo privato ed economico della politica. Non
sono più gli Stati, con le loro politiche, che controllano i mercati e
il mondo degli affari, imponendo loro regole, limiti e vincoli, ma sono i
mercati, cioè poche decine di migliaia di speculatori finanziari e
qualche agenzia privata di rating, che controllano e governano gli
Stati. Non sono più i governi e i parlamenti democraticamente eletti che
regolano la vita economica e sociale in funzione degli interessi
pubblici generali, ma sono le potenze incontrollate e anonime del
capitale finanziario che impongono agli Stati politiche antidemocratiche
e antisociali, a vantaggio degli interessi privati e speculativi della
massimizzazione dei profitti. Le ragioni di questo ribaltamento sono
molte e complesse. Non parlerò dei conflitti di interesse e delle molte
forme di corruzione e condizionamento lobbistico attraverso cui
l’economia condiziona la politica. Questi condizionamenti ci sono come
mostrano le cronache di questi giorni. Ma il ribaltamento dipende da due
ragioni, una di ordine strutturale, l’altra di ordine culturale e
ideologico.
La prima ragione consiste in un’asimmetria intervenuta
nelle dimensioni della politica e in quelle dell’economia e della
finanza: l’asimmetria tra il carattere ancora sostanzialmente e
inevitabilmente locale dei poteri statali e il carattere globale dei
poteri economici e finanziari. La politica è tuttora ancorata ai confini
degli Stati nazionali, in un duplice senso: nel senso che i poteri
politici, soprattutto dei paesi più deboli, si esercitano soltanto
all’interno dei territori statali e nel senso che gli orizzonti della
politica sono a loro volta vincolati al consenso degli elettorati
nazionali. Al contrario, i poteri economici e finanziari sono ormai
poteri globali, che si esercitano al di fuori dei controlli politici, e
senza i limiti e i vincoli apprestati dal diritto – dalle legislazioni e
dalle costituzioni – che è tuttora un diritto prevalentemente statale. è
insomma saltato – o si è quanto meno indebolito, ed è destinato a
divenire sempre più debole – il nesso democrazia/popolo e poteri
decisionali/regolazione giuridica. In assenza di una sfera pubblica alla
loro altezza, i poteri economici e finanziari, da Marchionne alla
finanza speculativa, si sono sviluppati come poteri illimitati,
sregolati e selvaggi, in grado di imporre le loro regole e i loro
interessi alla politica.
Il secondo fattore del ribaltamento del
rapporto tra politica ed economia è di carattere ideologico. Esso
consiste nel sostegno prestato al primato dell’economia dall’ideologia
liberista, basata su due potenti postulati: la concezione dei poteri
economici come libertà fondamentali e delle leggi del mercato come leggi
naturali. Le due raffigurazioni ideologiche sono tra loro connesse: la
prima, ben più che rafforzata, è per così dire “verificata” dalla
seconda, cioè dalla concezione della lex mercatoria come legge
naturale, sopraordinata alla politica e al diritto come una sorta di
necessità naturale, e della scienza economica come scienza a sua volta
naturale, dotata della stessa oggettività empirica della fisica. Di qui
il rifiuto come illegittimo e insieme irrealistico di qualunque
intervento statale diretto a limitare l’autonomia degli operatori
economici e finanziari e l’assunzione come tesi scientifiche o
rilevazioni fattuali o proposte realistiche di una lunga serie di luoghi
comuni largamente ideologici. Di qui la trasformazione della politica
in tecnocrazia, cioè nella sapiente applicazione delle leggi
dell’economia da parte di governi “tecnici” – non dimentichiamo il
monito di Bobbio sull’antitesi e l’incompatibilità tra democrazia e
tecnocrazia – i quali traggono legittimazione dai mercati, e solo ai
mercati – e non già ai parlamenti, ai partiti, alle forze sociali, alla
società – devono rispondere.
Di qui, soprattutto, il nesso tra
l’impotenza della politica nei confronti dell’economia e la sua
rinnovata onnipotenza nei confronti delle persone e a danno dei loro
diritti costituzionalmente stabiliti. I due processi, il depotenziamento
della politica e la decostituzionalizzazione delle nostre democrazie,
sono tra loro connessi, l’uno come causa del secondo e il secondo come
condizione necessaria del primo. Il sopravvento dell’economia sulla
politica e l’abdicazione della seconda al ruolo di governo nei confronti
della prima non sarebbero infatti possibili senza un simultaneo
processo di liberazione della politica da limiti e da vincoli legali e
costituzionali. è in questo duplice processo che risiede la crisi
sistemica che sta investendo le democrazie occidentali: la sostituzione
al governo politico e democratico dell’economia del governo economico e
ovviamente non democratico della politica, che a sua volta richiede la
rimozione della costituzione dall’orizzonte dell’azione di governo onde
consentirle l’aggressione all’intero sistema dei diritti fondamentali e
delle loro garanzie: dai diritti sociali alla salute e all’istruzione ai
diritti dei lavoratori, dal pluralismo dell’informazione alle
molteplici separazioni e incompatibilità dirette a impedire
concentrazioni di potere e conflitti di interesse.
2. La crisi della democrazia, dello stato di diritto e dello Stato
Ne consegue, da questo ribaltamento del rapporto tra economia e politica una triplice crisi.
2.1.
In primo luogo la crisi della democrazia politica. La democrazia
politica è nata ed è tuttora vincolata alle forme rappresentative dei
parlamenti e dei governi nazionali. La subalternità delle politiche
nazionali ai cosiddetti mercati – il fatto che è ai mercati ben più che
ai loro elettorati che i governi nazionali devono rispondere – ha
svuotato, insieme al ruolo di governo della politica, il ruolo e la
stessa legittimità delle istituzioni rappresentative, alle quali i
mercati impongono interventi antisociali, in danno del lavoro e dei
diritti sociali e a vantaggio degli interessi privati della
massimizzazione dei profitti, delle speculazioni finanziarie e della
rapina dei beni comuni e vitali. Ne consegue un ruolo parassitario della
politica e delle istituzioni democratiche e un inevitabile e
generalizzato discredito del ceto politico, attestato dai tassi sempre
più bassi di popolarità dei partiti, dei loro leader e delle stesse
istituzioni rappresentative: che è un discredito e una crisi della
politica in quanto tale, sempre più subordinata all’economia, sempre più
in crisi di autorevolezza, sempre più lontana – per incapacità, o per
subalternità ideologica, o per connivenza con il mondo degli affari –
dai bisogni e dai problemi dei paesi che sarebbe chiamata a governare. E
ne consegue, altrettanto inevitabilmente, la rivolta di masse
crescenti, soprattutto giovanili – i movimenti degli indignati – contro
tutti i governi, dagli Stati Uniti alla Grecia e alla Spagna, dal Cile
alla Francia e all’Italia.
“Siamo il 99%”, è lo slogan del movimento
degli occupanti di Wall Street che esprime nella maniera più lapidaria
questa crisi della democrazia: un 99% governato dall’1% della
popolazione che, come ha scritto Joseph Stiglitz, “controlla più del 40%
della ricchezza”, grazie a “sistemi fiscali nei quali un miliardario
come Warren Buffett paga meno tasse della sua segretaria e gli
speculatori, che hanno contribuito a far collassare l’economia globale,
hanno imposizioni fiscali più basse di chi lavora per vivere”. E in
questo 1% vengono sempre più accomunati, dall’opinione pubblica, poteri
economici e poteri politici, ceti di governo e grandi concentrazioni
economiche e finanziarie, indistintamente percepiti come un unico blocco
di potere ostile alla società.
2.2. C’è poi una seconda crisi o
un secondo aspetto della crisi: la crisi del diritto e delle forme dello
stato di diritto consegnateci dalla tradizione liberale. Il paradigma
dello “stato di diritto”, come dice questa stessa espressione, si è
sviluppato nei confronti soltanto dello Stato, cioè dei poteri statali.
Non ha investito né i poteri sovrastatali, essendo stato il diritto
positivo identificato per lungo tempo con il solo diritto statale, né i
poteri economici privati, a loro volta ideologicamente concepiti, dalla
tradizione liberale – da Locke a Marshall – anziché come poteri, come
diritti di libertà. Di qui, da questa limitazione del ruolo del diritto,
l’impotenza degli Stati, in grado solo di dare risposte locali a
problemi globali e, soprattutto, non all’altezza di quei poteri insieme
privati e globali che sono i poteri della finanza.
Non solo. Lo stato
di diritto, nelle forme odierne dello Stato costituzionale di diritto,
si è venuto svuotando anche nei confronti dei poteri pubblici statali, a
causa di un vero processo decostituente, manifestatosi, in Italia, non
solo nelle violazioni e nei tentativi di riforma della carta del 1948,
ma in un attacco al costituzionalismo in quanto tale, cioè quale sistema
di limiti e vincoli ai poteri politici di maggioranza, e nella
rivendicazione populista dell’onnipotenza delle maggioranze.
All’impotenza della politica rispetto ai poteri selvaggi dei mercati ha
così corrisposto, ripeto, la rivendicazione dell’onnipotenza della
politica a danno dei diritti dei cittadini, che si è manifestata
nell’aperta aggressione, per far fronte alla crisi, da un lato allo
stato sociale, dall’altro al lavoro: da un lato ai diritti sociali,
dall’altro ai diritti dei lavoratori, gli uni e gli altri
costituzionalmente garantiti. Impotenza rispetto ai mercati e
onnipotenza della politica rispetto alla società e ai diritti delle
persone sono tra loro connesse, l’una come causa della seconda e la
seconda come condizione necessaria della prima.
2.3. Infine
questa dipendenza della politica dall’economia segnala un terzo aspetto,
il più profondo e vistoso, della crisi che stiamo vivendo: la crisi,
ancor prima che della democrazia e dello stato di diritto, dello stesso
Stato moderno, inteso lo Stato quale sfera pubblica deputata alla difesa
degli interessi pubblici, separata dall’economia e rispetto a essa
eteronoma e sopraordinata. è una crisi epocale: la crisi dello Stato
quale istituzione politica separata e sopraordinata all’economia. La
separazione tra società civile e stato, tra economia e politica, è
infatti un tratto caratteristico della modernità giuridica e politica
che fa parte del costituzionalismo profondo dello Stato moderno, in
opposizione allo stato patrimoniale dell’ancien regime. Non
dimentichiamo che lo Stato moderno nasce insieme al capitalismo, come
istituzione politica separata dalla società e come sfera pubblica
eteronoma rispetto ai poteri economici, per loro natura incapaci di
regolarsi autonomamente. Per questo possiamo parlare di una regressione
premoderna allo stato patrimoniale, determinata dal ribaltamento del
rapporto tra poteri economici e poteri politici di governo, non più i
primi subordinati e regolati dai secondi, ma i secondi subordinati ai
primi, ai cosiddetti “mercati”, cioè ai poteri sregolati della finanzia
speculativa; i quali, dopo aver provocato la crisi economica ed essere
stati salvati dagli Stati, minacciano il fallimento degli Stati stessi
che li avevano salvati e impongono a essi la distruzione del Welfare, la
riduzione della sfera pubblica, lo smantellamento del diritto del
lavoro, la crescita delle disuguaglianze e della povertà e la
devastazione dei beni comuni.
E' questa la triplice crisi sistemica
che sta investendo le democrazie occidentali: la sostituzione al governo
politico e democratico dell’economia del governo economico e ovviamente
non democratico della politica. Il suo aspetto paradossale è il
carattere fallimentare, sotto gli occhi di tutti, delle politiche
imposte dai mercati alle tecnocrazie deputate alla loro attuazione. Il
mercato senza regole, dopo essere stato la causa della crisi – in
assenza di politiche capaci di governarlo – continua a riproporsi come
la terapia: tagli alla spesa pubblica nella sanità e nell’istruzione,
privatizzazioni, liberalizzazioni, imposte su pensioni e salari e,
insieme, riduzione degli investimenti e delle entrate fiscali, crescita
delle disuguaglianze e rottura della coesione sociale. Una terapia
distruttiva, anche sul piano economico, dato che aggrava le cause stesse
della crisi, a cominciare dalla maggiore povertà e dalle restrizioni
del potere d’acquisto e dei diritti sociali, dando vita a una spirale
recessiva incontrollata.
3. Come si esce dalla crisi?
A
me pare che l’uscita dalla crisi debba far fronte alle cause
strutturali di tutti e tre i suoi aspetti; e richieda perciò tre ordini
di mutamenti alla loro altezza.
3.1. In primo luogo la
costruzione di una sfera pubblica europea e in prospettiva globale
all’altezza dei poteri globali dell’economia e della finanza
speculativa. Proprio il riconoscimento del fallimento e
dell’irrazionalità delle “politiche liberiste” – una contraddizione in
termini, dato che il liberismo equivale a un’abdicazione della politica e
all’abbandono del mercato a una sorta di stato di natura – suggerisce
la sola possibile via d’uscita dalla crisi: l’inversione della rotta
fallimentare fin qui seguita. E invertire la rotta è possibile, come
mostrano le tante proposte alternative formulate nel dibattito odierno
da innumerevoli economisti democratici: l’istituzione e perfino il
semplice annuncio di una garanzia europea comune per i titoli pubblici
dei paesi dell’euro; un’adeguata tassazione delle transazioni
finanziarie con la Tobin Tax; il divieto di acquisti e vendite di titoli
allo scoperto; l’istituzione di agenzie di rating pubbliche in luogo di
quelle private, che sono di fatto condizionate dai poteri finanziari;
l’eliminazione dei paradisi fiscali; una fiscalità europea realmente
progressiva.
In tutti i casi – e sembra che su questo siano tutti
d’accordo – la sola alternativa al crollo dell’euro e al fallimento
dell’Unione è una maggiore integrazione politica ed economica. Il
processo di costruzione dell’Europa, in breve, o va avanti, sul piano
politico e istituzionale, oppure va indietro, verso la disgregazione,
come in parte sta avvenendo e come è segnalato dal crescente venir meno,
nelle politiche e nell’opinione pubblica, del senso di solidarietà e di
comune appartenenza. Se non si vuole che salti l’euro e che la stessa
Unione europea vada in pezzi, deve insomma crescere un’altra Europa
rispetto a quella disegnata dalle politiche liberiste. E a tal fine non
bastano le politiche, anche progressive, dei governi. Occorre una
rifondazione costituzionale della sfera pubblica europea in grado di
assoggettare i mercati, ponendosi all’altezza dei nuovi poteri economici
globali attualmente sregolati e selvaggi e perciò trasformando le
politiche indicate dal pensiero economico progressista in nuove regole e
istituzioni.
Ciò che si richiede è insomma una rifondazione
costituzionale delle forme della democrazia e dello stato di diritto,
attraverso il loro allargamento a livello sovranazionale e, insieme, nei
confronti dei poteri economici privati. Proprio perché sia la
democrazia rappresentativa che lo stato di diritto sono tuttora ancorati
ai territori degli Stati, la sola alternativa al tramonto dell’una e
dell’altro è la promozione di un costituzionalismo sovranazionale e di
diritto privato, cioè di uno stato di diritto al di là dello Stato e
all’altezza dei nuovi luoghi, non più statali ma extra- o sovra-statali,
nei quali si sono spostati il potere e le decisioni.
Proprio la
crisi economica in atto potrebbe perciò rappresentare un’occasione per
una rifondazione costituzionale di un’Europa federale e sociale, già del
resto prefigurata dai principi del Trattato dell’Unione e dai compiti
da esso assegnati alla Comunità: “promuovere”, come dice l’art. 2, “uno
sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche,
(…) un elevato livello di protezione dell’ambiente e il miglioramento
di quest’ultimo, un elevato livello di occupazione e di protezione
sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la
coesione economica e sociale e la solidarietà tra Stati membri”; e
ancora, come aggiunge l’art. 3, contribuire al “conseguimento di un
elevato livello di protezione della salute” e di “un’istruzione e una
formazione di qualità”, nonché all’eliminazione delle “ineguaglianze” e
delle disparità “tra uomini e donne”. Prendere sul serio questi
“compiti” costituzionali vuol dire adottare misure esattamente opposte
alle attuali politiche europee: dotare l’Unione di un bilancio comune,
di una fisco comune e di un governo comune dell’economia in grado di
realizzare quello che una volta veniva chiamato “il modello sociale
europeo”; promuovere interventi comunitari di spesa informati, come dice
l’art. 5 del Trattato, al “principio di sussidiarietà”, ove “gli
obiettivi dell’azione prevista non possano essere sufficientemente
realizzati dagli Stati membri”; procedere all’unificazione europea del
diritto del lavoro, a cominciare dalla “tutela contro ogni licenziamento
ingiustificato” prevista dall’art. 30 della Carta dei diritti
dell’Unione, onde impedire le dislocazioni delle attività produttive nei
paesi sforniti di garanzie dei diritti dei lavoratori. Un’alternativa
radicale alle attuali politiche fallimentari è insomma non solo
possibile, ma normativamente imposta dallo stesso trattato europeo.
3.2.
La seconda via d’uscita dalla crisi è lo sviluppo di uno stato di
diritto in grado di limitare e disciplinare i poteri privati: di un
costituzionalismo di diritto privato che imponga limiti e vincoli non
soltanto ai poteri pubblici ma anche ai poteri economici e finanziari, e
perciò la riaffermazione del primato della Costituzione in luogo di
quella nuova grundnorm che è la lex mercatoria: in
materia di lavoro, di ambiente, di diritti sociali. Lo strumento
consegnatoci dalla nostra tradizione è di nuovo la
costituzionalizzazione di limiti e vincoli, correlativi ai diritti e ai
beni fondamentali, sia allo stato che al mercato.
Ciò vale anzitutto
per i beni comuni. La nostra tradizione conosce da sempre, quale tecnica
di sottrazione al mercato di tali beni, la figura dei beni demaniali.
Ma tali beni sono di solito previsti come demaniali dalla legge
ordinaria, in Italia dal codice civile, e possono perciò, come in Italia
è avvenuto con le privatizzazioni, essere sdemanializzati per legge.
Solo la stipulazione in costituzioni rigide e in trattati internazionali
di quei beni che riteniamo vitali – l’aria, l’acqua, i farmaci
salva-vita, il cibo per l’alimentazione di base – come beni fondamentali
può garantirne l’inalienabilità e l’accessibilità a tutti. Solo
l’istituzione di demani costituzionali – di livello europeo e, in
prospettiva, internazionale – può garantire i beni vitali, sottraendoli
alla devastazione e all’appropriazione privata.
Ma lo strumento della
costituzionalizzazione vale anche per la garanzia, a livello europeo
oltre che statale, dei diritti sociali. Voglio qui ricordare, tra le
esperienze costituzionali più avanzate e recenti, quella brasiliana:
l’introduzione nella Costituzione brasiliana, agli articoli 198 e 212,
di vincoli di bilancio, cioè la previsione di quote del bilancio
dell’Unione, dei singoli Stati e dei municipi destinate
obbligatoriamente alla soddisfazione dei diritti sociali: 18 e 25% a
sostegno del diritto all’istruzione, quote da stabilirsi annualmente a
sostegno del diritto alla salute e simili. In materia di bilancio, del
resto, sarebbe opportuno la costituzionalizzazione di un’autentica
progressività fiscale, diretta ad assicurare tetti massimi a qualunque
reddito. Sono infatti incompatibili con la democrazia redditi e
ricchezze sterminate in capo a singole persone: non solo per
l’insostenibilità di eccessive disuguaglianze sociali, ma anche per i
poteri politici impropri, di condizionamento o peggio di corruzione
della sfera pubblica, di fatto inevitabilmente associati alle eccessive
ricchezze private.
Infine la costituzionalizzazione, dopo lo
smantellamento per via legislativa operato sistematicamente in questi
anni del diritto del lavoro, si richiede altresì, contro l’arbitrio
delle contingenti maggioranze, per le concrete garanzie dei diritti dei
lavoratori, prima tra tutti “il diritto alla tutela contro ogni
licenziamento ingiustificato”, già previsto dall’art. 30 della Carta dei
diritti dell’Unione Europea. D’altro canto, nell’impossibilità di
garantire, in una società capitalistica, la piena occupazione,
un’effettiva garanzia della sopravvivenza che parimenti dovrebbe essere
stipulata nelle costituzioni è il diritto a un reddito minimo di
cittadinanza. La sopravvivenza infatti non è più, come riteneva Locke,
un fatto naturale, affidato alla libera iniziativa e alla volontà di
lavorare delle persone, ma è sempre più un fatto legato
all’interdipendenza e all’integrazione sociale, e non può perciò non far
parte, come il diritto alla vita, delle clausole elementari del patto
costituzionale.
3.3. Da ultimo la rifondazione della
rappresentanza. In questi ultimi vent’anni di berlusconismo si è
prodotta in Italia una deformazione delle istituzioni rappresentative
generata da molteplici fattori: la sostituzione del sistema elettorale
proporzionale con sistemi di tipo maggioritario che hanno verticalizzato
la rappresentanza e trasformato le forze politiche in partiti personali
e talora padronali con vocazioni populiste; la deformazione nel
dibattito pubblico e nel senso comune dell’immagine stessa della
democrazia politica, identificata, ben più che nella rappresentanza
della pluralità degli interessi sociali e nella loro mediazione
parlamentare, nella scelta elettorale di una maggioranza e soprattutto
del suo capo; l’idea di una legittimazione assoluta proveniente dal voto
popolare e la conseguente insofferenza per i limiti costituzionali e
per la separazione dei poteri; lo svuotamento infine del ruolo del
parlamento, attraverso una legge elettorale che ha trasformato le
elezioni dei parlamentari nella loro nomina da parte dei vertici dei
partiti – ai quali, ben più che agli elettori, essi rispondono e dai
quali dipendono – e la rottura e il sostanziale capovolgimento del
rapporto di fiducia tra parlamento e governo.
Contro una simile
crisi, ovviamente, non bastano rimedi giuridici. E tuttavia alcuni
rimedi, pur se insufficienti sono necessari: l’esclusione di conflitti
di interesse attraverso norme rigorose sulla non eleggibilità di quanti
hanno corposi interessi privati; l’imposizione ai partiti, quanto meno
come condizione del loro finanziamento pubblico, di statuti democratici;
l’introduzione di istituzioni indipendenti di garanzia secondaria,
competenti su tutte le questioni e i contenziosi elettorali, dal
controllo sui finanziamenti ai partiti a quello sulla regolarità delle
elezioni e sulle cause di ineleggibilità; la stipulazione infine della
separazione tra cariche di partito e cariche istituzionali, in grado di
ristabilirne il ruolo di mediazione rappresentativa, di favorirne il
radicamento sociale e di promuovere il ricambio dei gruppi dirigenti.
E'
difficile di fronte a questa triplice crisi essere ottimisti. Sarebbe
tuttavia necessaria, nel momento in cui si prospetta una vittoria
elettorale del centrosinistra, una consapevolezza delle dimensioni e
della gravità e profondità della crisi. Accompagnata da un’altra
consapevolezza: che in quel che è accade e è accaduto non c’è nulla di
naturale né di irreversibile; che una, anzi una molteplice quantità di
vie d’uscita dalla crisi è possibile; che questa uscita dipende da un
rinnovato rapporto dei partiti della sinistra con la società: non solo
con i suoi bisogni ma anche con il mondo della cultura giuridica ed
economica progressista. Dipende in breve da una rifondazione e da
un’autoriforma della politica.
Luigi Ferrajoli
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