lunedì 31 dicembre 2012

Mini-Job: welfare tedesco e disinformazione italiana

La “controinformazione” italiana vuole smentire che in Germania i salari siano più alti che in Italia, e porta il caso dei Mini-Job. Ma non spiega che i Mini-Job sono lavori part-time, che si possono sommare al reddito minimo garantito, con affitto per la casa, riscaldamento e cure mediche, riduzione per i trasporti. Un caso di autolesionismo, o il bisogno di far tornare per forza i conti di un’interpretazione del tutto sbagliata del “modello europeo”? 

di Giovanni Perazzoli 
Secondo Alberto Bagnai, economista all’Università di Chieti, quello degli alti salari tedeschi è un luogo comune da sfatare. In una recente intervista per Il Fatto Quotidianoci informa che “in Germania non ci sono solo gli operai strutturati e non c’è solo la Volkswagen: c’è anche sotto-occupazione, ci sono i mini-job”. Articoli analoghi si leggono su Keynesblog e in altri siti.

Mi chiedo perché non si aggiunge mai il resto. Ovvero, che i Mini-Job sono lavori part-time da 400 euro al mese netti rivolti per principio agli studenti, e che – attenzione – si possono sommare a Hartz IV, il reddito minimo garantito tedesco. Nella formula base del reddito minimo garantito questo significa aggiungere altri 360 euro al mese e in più c’è l’affitto pagato per l’alloggio (!), le cure mediche, i soldi per il riscaldamento (!) e una riduzione per i trasporti. Il netto percepito dalla somma arriva a 560 euro al mese. Ognuno comprende il significato del fatto che l’affitto dell’alloggio non pesi sul reddito. E parliamo comunque della base del sussidio: poi per ogni eventuale figlio debbono essere calcolati altri 250 euro circa. 


Dunque, non solo l’industria automobilistica tedesca va bene con salari doppi (se non tripli) rispetto all’Italia, ma esistono delle forme di contratti per lavoretti temporanei e a bassa qualificazione garantiti dal welfare. Allora, alla difficoltà di capire il senso di una battaglia per confutare il fatto (il dato di fatto) che possa anche esistere un’economia che funziona, come quella tedesca, con operai tutelati e ben paganti (a chi giova una tale battaglia?), si aggiunge la difficoltà di comprendere perché questa battaglia dimentichi sempre di prendere in considerazione l’importanza e il senso del welfare europeo. Difficile da capire, tanto più che in Italia di questi temi non si sa nulla, e viene anche il dubbio (leggendo i programmi di TUTTI i partiti in campo) che si finga di non saperne nulla. Sull’assenza di un reddito minimo garantito si fonda però il paternalismo e il clientelismo italiano. A quando, per altro, qualche statistica sul lavoro nero italiano in rapporto all’Europa? Dovrebbe far riflettere l’unanime e trasversale propaganda anti-europea, molto poco attendibile nei fatti, che copre l’intero arco partitico, a partire da Berlusconi. È la chiave del “vero volto” del Paese.

Le informazioni che arrivano in Italia sono sempre deformate, omissive. Potrebbe dare un’idea dell’abisso che ci separa dall’Europa sapere che il problema su cui si discute nei paesi nord-europei riguarda la possibile funzione di incentivo alla disoccupazione dei sussidi. Per loro la disoccupazione esiste perché ci sono i sussidi, per noi, al contrario, perché non c’è lavoro, o c’è il lavoro nero. Per loro la flessibilità è a condizioni di garanzia, per noi è a condizioni di sfruttamento (coadiuvato dalla disinformazione). Il caso tipico è quello della commessa tedesca con figli: se lavorasse, guadagnerebbe solo 100 euro in più rispetto a quanto avrebbe con il reddito minimo garantito (1800 euro circa, molto di più per altro di quanto guadagna un insegnante in Italia). Recentemente, in un dibattito su MicroMega, Pierre Rosanvallon e Alain Touraine hanno ricordato che la “terza via” si proponeva di aumentare la differenza tra il reddito dei sussidi e il reddito da lavoro, perché la disoccupazione finisce per essere, in Francia come nel Nord Europa, economicamente preferibile all’occupazione. Un questione che in Italia (grazie anche ai nostri studiosi) semplicemente non ha senso.

In questo contesto, per dare un’altra idea della distanza siderale con l’Europa, nasce la proposta del Basic Income di Philippe van Parijs e del movimento internazionale BIEN, che quest’anno si è riunito a convegno a Monaco (due anni fa erano in Brasile): un reddito di cittadinanza incondizionato (ovvero non condizionato dalla ricerca del lavoro), che mantenga i benefici del welfare anche per chi torna al lavoro. Non a caso, in Italia si fa confusione tra questa proposta di reddito incondizionato (e universale) con il reddito minimo garantito condizionato (per i soli disoccupati che accettano di cercare un lavoro). Quest’ultimo in Europa non è l’obiettivo di una lotta perché esiste da decenni (la Francia, ultimo dei paesi ad introdurlo, lo ha introdotto venti anni fa). Altro tipico errore è credere che il reddito minimo sia limitato nel tempo, mentre è illimitato. L’Unione europea lo raccomanda ai paesi che ne sono privi (Italia, Grecia) dal 1992. Lo ricordo a proposito di “democrazia in vendita” e altre disinformazioni. In Francia, per dire, hanno il reddito minimo garantito, e le 35 ore.

Utile, per dare un’idea del baratro cognitivo che ci separa dall’Europa, sarebbe anche conoscere la storia dei mini-job tedeschi. 

Fino alla riforma dell’università, che ha introdotto per la prima volta le rette in Germania (dieci anni dopo, vorrei ricordare, rispetto all’Italia), agli studenti universitari tedeschi era fatto obbligo di non lavorare. Esisteva però un ufficio di collocamento per i soli studenti che consentiva di trovare dei piccoli lavori (Job) part-time. Un amico, ad esempio, mise insieme i soldi per un viaggio raccogliendo per due mesi gli scatoloni degli imballaggi di un’industria. Pensate un po’ a un ufficio che mette a disposizioni dei piccoli lavoretti senza la mediazione di terzi, partiti, sindacati, preti e altro. Una cosa rivoluzionaria, uno scandalo che l’Italia non può permettersi, altrimenti viene giù tutto. Mai l’Italia feudale di destra e di sinistra potrebbe permettersi tanto individualismo poco comunitario. Troppo “liberista”.

I mini-job sono un’estensione di questo tipo di lavori. Del resto il termine “Job” indica in tedesco (non è inglese) il “lavoretto”, il lavoro occasionale (jobben); altro significato di lavoro hanno “Arbeit” o “Beruf” (ricordando, almeno, Max Weber). Il “Mini-Job” è dunque due volte un “lavoretto”, perché è un “Job” e perché è “mini”. 

I Mini-Job sono stati voluti dal Cancelliere socialdemocratico Schroeder. E, nonostante siano, rispetto alla condizione italiana, così straordinari da sfuggire anche all’immaginazione, sono criticati dalle organizzazioni sindacali tedesche. Il loro utilizzo è andato infatti ben oltre quello che si proponeva la riforma. Di fatto tendono a destrutturare il lavoro in quei contesti dove il lavoro è scarsamente qualificato e temporaneo. Per fare un esempio: i giovani che lavorano come camerieri (prima di iscriversi all’università o di fare altro) sostituiscono i camerieri sessantenni (che si vedono tristemente in Italia). Ma è sempre un male? Bisognerebbe aprire un discorso (serio) sul lavoro che cambia, e sul ruolo che deve avere il welfare in questo contesto. È facile immaginare però che in Italia la storia dei Mini-Job arrivi attraverso la polemica dei sindacati tedeschi, ma senza il contesto relativo. Purtroppo anni di disinformazione e di una certa arretratezza ideologica (che oggi si attacca al liberale Keynes non riconoscendo che l’Europa del Nord è keynesiana, non certo l’Italia, che invece cerca di preservare lo status quo del berlusconismo diffuso) ci impediscono non solo di conoscere, ma perfino di immaginare che possa esistere qualcosa di diverso rispetto al nostro ristretto orizzonte.

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