domenica 4 novembre 2012

Tredicesime? C'è poco da ridere


Quest’anno Babbo Natale tirerà un brutto scherzetto ai lavoratori italiani. Secondo l’ufficio studi della Cgia di Mestre, un operaio con base imponibile di 20.600 euro si troverà la tredicesima decurtata di 21 euro. Un impiegato con reddito lordo annuo di 25.100 euro perderà 24 euro, e un capoufficio, con reddito di 49.500 euro, 46 euro. Per questa ragione la Cgia propone un taglio del 30% alla tassazione delle tredicesime, che lascerebbe 115 euro in più all’operaio, 130 all’impiegato e 315 al capoufficio.
Secondo Bortolussi, segretario della Cgia, il provvedimento aiuterebbe le famiglie che proprio a dicembre dovranno vedersela con il pagamento di molte e più salate bollette. La ragione della decurtazione della tredicesima è da rintracciarsi nel divario tra l’aumento delle retribuzioni contrattuali e l’inflazione.
Essendo le prime aumentate molto meno della seconda, si realizza una perdita di potere d’acquisto, che, in effetti, non interessa solo la tredicesima, ma la retribuzione in generale dei lavoratori italiani. 


Secondo l’Istat l’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di impiegati ed operai (Foi) è aumentato, tra settembre 2012 e settembre 2011, del 3,1%. Per la verità l’inflazione misurata con l’Ipca, che è basato su un paniere comune europeo, è addirittura al 3,4%. Il picco è raggiunto dalle spese, poco comprimibili, per abitazione, acqua, elettricità e combustibili, aumentate del 7,4%. A fronte di questi incrementi, le retribuzioni sono aumentate mediamente del solo 1,4%. Ciò significa, rispetto al Foi, una perdita dell’1,7% della retribuzione reale. In effetti, se andiamo a vedere nel dettaglio dei dati Istat, ci accorgiamo che per alcune categorie la situazione è molto peggiore della media.

Infatti, mentre le retribuzioni dei lavoratori dipendenti privati registrano un aumento dell’1,9%, quelle dei lavoratori pubblici sono ferme. Ma anche nel settore privato ci sono settori che registrano incrementi nulli, come le telecomunicazioni, o molto bassi, come il commercio (1%), e i trasporti e i servizi postali (1,1%). Tale divario rappresenta un gigantesco trasferimento di reddito dai lavoratori alle grandi imprese in generale, e, in particolare, a quelle che possono permettersi di mantenere prezzi di oligopolio o addirittura di monopolio, come appunto le aziende attive nelle utility (acqua, luce, gas), e nei trasporti. Per quanto riguarda i carburanti, l’alta inflazione deriva anche dall’aumento dell'Iva e dalle nuove accise, che, rese permanenti dalla Legge di stabilità, permetteranno al governo Monti di dividersi i superprofitti con le compagnie del settore. La ragione del divario tra inflazione e retribuzioni è dovuta, in parte, alla mancanza di un meccanismo efficace di adeguamento salariale all’inflazione, come poteva essere la vecchia scala mobile.
Ma soprattutto è causata dai mancati rinnovi contrattuali, soprattutto della Pa, i cui contratti sono scaduti tutti a gennaio 2010. In tutto sono in attesa di rinnovo 34 contratti che interessano ben 3,8 milioni di dipendenti. La Legge di stabilità ha prorogato il blocco dei contratti pubblici. Una misura che non ha sollevato rimostranze tra la maggioranza parlamentare, evidentemente troppo occupata con la riduzione dell’Irap per le imprese. Una soluzione immediata sarebbe un taglio dell’Irpef ai redditi più bassi. Questo, però, non sarebbe da compensare con tagli alla spesa sociale, ma con il ristabilimento della progressività Irpef, che fino al 1997 prevedeva sette scaglioni con una aliquota massima del 51% per i ricchissimi, mentre oggi contempla quattro scaglioni con aliquota massima di appena il 43%.

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