sabato 26 maggio 2012

Quando tutti i medici sono obiettori di coscienza

I medici obiettori in Italia vedono favoriti carriera e guadagni. E infatti la loro percentuale dilaga: sono obiettori il 71 per cento dei ginecologi italiani. In Basilicata 9 su 10, l'84 per cento in Campania, più dell'80 in Lazio e nell'Alto Adige-Sud Tirolo. Il racconto di uno degli ultimi "panda".

di Adriano Sofri, da Repubblica, 24 maggio 2012

«È successo a Napoli, a marzo: un ginecologo del Policlinico Federico II è morto, investito sulle strisce, e per due settimane non si sono fatte interruzioni di gravidanza», racconta Giovanna Scassellati. A stare ai numeri dell'obiezione di coscienza, l'Italia è più rigorosa della Ginevra di Calvino. Purché si tratti dell'obiezione all'interruzione di gravidanza regolata da una legge dello Stato.

Lungi dall'affrontare la persecuzione, i medici obiettori vedono favoriti carriera e guadagni. Sono obiettori il 71 per cento dei ginecologi italiani. In Basilicata 9 su 10, l'84 per cento in Campania, più dell'80 in Lazio e nell'Alto Adige-Sud Tirolo. All'ospedale di Fano tutti i medici sono obiettori. A Treviglio, Bergamo, sono obiettori 24 anestesisti su 25. Una dose modica di ipocrisia è essenziale alla convivenza civile. L'eccesso di ipocrisia la degrada. Giovanna Scassellati dirige dal 2000 il Day Hospital-Day Surgery della legge 194 al San Camillo di Roma, che dal 2010 fa da centro regionale per chi non trovi accoglienza in altri ospedali, dove i reparti sono stati chiusi. Su 316 ginecologi nel Lazio 46 non sono obiettori, e in 9 ospedali pubblici non si fanno interruzioni di gravidanza, come imporrebbe la legge a tutti gli ospedali non religiosi.
«Siamo come panda, al San Camillo su 21 i non obiettori sono 3, io, che vinsi il concorso, e 2 a contratto biennale. E gli aborti coprono il 40 per cento delle operazioni di ostetricia».


«Io sono specializzata in ginecologia, ostetricia e oncologia medica e faccio quello che pressoché nessuno vuole fare: manovalanza. Nelle coscienze non si entra, ma nelle predilezioni per le ecografie, per gli ambulatori privati, per l'intramoenia, quello sì. E le cose peggiorano. Avevamo un progetto che, da Veltroni sindaco in qua, diede risultati importanti: finanziava l'opera di mediatrici culturali, rumena, marocchina, albanese, che incontravano le donne, ne conoscevano istruzione, condizioni di famiglia, se avessero o no un medico cui rivolgersi, la prevenzione delle interruzioni di gravidanza. C'era una cinese bravissima, agopuntrice, pubblicavamo articoli sui loro giornaletti. Una cooperativa, scelta con un bando, dava la copertura assicurativa. I fondi dei progetti sociali sono stati tagliati dalla giunta Alemanno. Abbiamo raccolto 120mila firme contro la proposta di legge di una consigliera regionale che di fatto abolisce i consultori. I movimenti contro la 194 ricevono sovvenzioni ingenti, mentre il nostro lavoro, pubblico e, per quanto mi riguarda, attento a non derogare mai alla legge, viene così ostacolato. Di serie politiche sulla famiglia, come quelle francesi o anche inglesi, non si vede l'ombra. La 194 è una legge giusta, passò per la caduta di tre governi, la firmò Andreotti, certo che fu un compromesso, il vero compromesso storico. Al San Camillo mi raccontarono che nel 1977 (la legge è del 22 maggio 1978) morirono di setticemia tre donne, senza dire chi aveva procurato l'aborto».

Le avranno chiesto quanti aborti ha assistito. Ha un gesto di impazienza. «Non lo so, e non so nemmeno quanti bambini ho aiutato a far venire al mondo. Mia madre era di Savigliano, nel cuneese, è stata una delle prime ginecologhe. Seguì i corsi di preparazione al parto a Parigi, a Roma fu assistente ospedaliera al Sant'Anna. Le mie scelte sono state legate a lei, e al primo figlio che ebbi quando ero ancora al terzo anno di università. Mi trasferii a Chieti, ci restai 4 anni. C'erano bravi professori, dal Gemelli o da Bologna, ero interna all'ospedale, avrei potuto fare lì la mia carriera. Ero femminista, partecipavo degli impegni di allora, i viaggi a Londra, i radicali. Mia madre ha sempre fatto le interruzioni di gravidanza. Mio padre era molto cattolico e contrario, ma sapeva che l'aborto è un enorme problema personale e sociale e culturale, che non basta esorcizzarlo. Ho lavorato tanto con mia madre. Non c'era solo un rapporto madre-figlia fra noi, né una competizione: volevamo far andare le cose nel modo migliore. Lei è morta nel 1996, di uno dei più aggressivi tumori all'utero. A San Camillo c'era la vasca, l'avevano sovvenzionata le elette del Comune di Roma, vi sono avvenuti 300 parti, ora è in soffitta. C'è la parte sporca dell'ostetricia, il lavoro sociale, quello che coinvolge le emozioni. La maternità ti fa diventare amica della donna che assisti, per sempre. Con l'aborto non ti fai clienti: succede che non abbiano più voglia di vederti, dopo. E la gente per lo più sceglie questo mestiere per fare i soldi. Prova a dare un incentivo materiale a chi non obietta, e vedrai».

Lei non è diventata primario. «Non ci sono primari non obiettori. Poi sono donna. Poi forse non ci tenevo. Io faccio le guardie, regolarmente, cinque o sei notti al mese, e vado ancora a fare i parti a casa. Ho ereditato la direzione del reparto da uno che aveva avuto guai con la giustizia. Accettava pochissime donne e faceva gli aborti privatamente, a Villa Gina, nel 2000 scoppiò lo scandalo. Ero l'unica non obiettrice, fui nominata con un'ordinanza. Fino ad allora, per dieci anni, avevo lavorato anche volontariamente in un ambulatorio nella ex centrale del latte, con le donne straniere, venivano a decine, specialmente il giovedì, che è il giorno libero delle badanti. Il reparto al San Camillo è squallido, nel sotterraneo, ma è bello che abbia accessi indipendenti, l'ambulatorio di contraccezione ecc. I pavimenti sono rattoppati, ci ho messo tre anni a ridipingere le pareti».

«Una questione cruciale è l'aborto farmacologico, la Ru 486. Siamo l'unico ospedale nel Lazio che lo fa. L'Agenzia del farmaco suggeriva che andasse fatto col ricovero. Dunque si fa in regime di ricovero – i tre giorni prescritti – dopo di che le donne firmano e vanno a casa, dopo 48 ore tornano per il secondo farmaco e restano fino all'espulsione, poi a casa. Le donne sono responsabili, tornano tutte. Si è fatta una campagna sui rischi micidiali di questo metodo. Si è poi accertato che le morti (7 certificate in tutto il mondo) derivavano dalla somministrazione per via vaginale nelle prime settimane, invece che per via orale. Così le donne devono subire questi ricoveri impropri. La firma è un escamotage ultra-ipocrita, e significa apertura e chiusura di cartelle, per noi che abbiamo due letti e facciamo ruotare le donne, 30-35 al mese, e le richieste sono più numerose, perché nessun altro lo fa, né l'università né gli ospedali. In tutta l'Umbria non una sola struttura. Le straniere la chiedono meno, perché bisogna che conoscano bene la lingua e capiscano a fondo le istruzioni, e poi preferiscono l'aborto chirurgico per non perdere 3 o 4 giorni di lavoro. Le donne ricche vanno a Marsiglia, e amen. Come per la legge sull'eterologa, tornata d'attualità oggi. E pensare che uno dei fondatori era italiano, il prof. Lauricella, primario di mia madre. Ogni tanto penso che vorrei andare via. Ho diretto per tre mesi, da volontaria, un ospedale dei comboniani a Moroto, Uganda, 60 posti letto di ostetricia e ginecologia, e ho lavorato in Etiopia e in Eritrea per la prevenzione dei tumori del collo dell'utero. Le donne povere del mondo povero muoiono di aborto proibito».

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