sabato 19 maggio 2012

Occupy Wall Street alla conquista di Chicago: "Non si torna più indietro"

Sul pullman con gli indignati: sfonderemo
la porta per la rivoluzione

Fonte www3.lastampa.it PAOLO MASTROLILLI
inviato a chicago
«Andiamo a Chicago per non tornare più indietro». Magari esagera Louis a parlare così, ma l’enorme tatuaggio che gli copre tutto il braccio destro è chiaro: «Faith is Pain», per credere bisogna soffrire.
Il fatto che siamo dentro una chiesa, la West Park Presbyterian Church di Amsterdam Avenue, non c’entra molto col tono evangelico del tatuaggio.

Questa è una delle parrocchie più liberal di Manhattan, la prima ad aver integrato i fedeli gay, e si è offerta come punto di raccolta per i manifestanti di Occupy Wall Street che vanno a rovinare la festa della Nato nella città di Obama.
Louis, 22 anni, tecnico dell’aria condizionata al Bronx, è uno dei ragazzi che si sono dati appuntamento qui per la marcia su Chicago. Bus gratuiti, organizzati dal gruppo «99% Solidarity» e finanziati dal sindacato National Nurse United.
Partono da otto città, New York, Washington, Philadelphia, Boston, Providence, Atlanta, Los Angeles e Portland, per convergere tutti insieme in Illinois e unirsi alle proteste pianificate da Occupy Chicago.
Sono le due del mattino e gli attivisti arrivano come congiurati. Diane, uno dei leader che fa l’avvocato civilista in New Jersey, è vestita con pantaloni e camicetta, come se stesse per discutere una causa; Barbie e Toxic, studenti di Brooklyn, sfoggiano capelli fuxia, anfibi, borchie, giacca di pelle, e piercing dove neppure un torturatore della Santa Inquisizione si sarebbe azzardato a infilare metalli appuntiti.

L’atmosfera però ricorda una gita scolastica, o al massimo una missione di hooligans per una partita di calcio inglese. Qualcuno suona il piano della chiesa. Una signora dai guanti neri con le dita mozzate distribuisce panini al tacchino: ha fatto dumpster diving nello Starbucks all’angolo della strada, recuperando confezioni intatte dai rifiuti.

Diane passa i manuali per il comportamento in caso di arresto, e il numero di emergenza della National Lawyers Guild che offre assistenza gratuita ai detenuti: «Quando vi fermano dite che non acconsentite ad essere perquisiti, e poi tacete». È preoccupata: «Non vado a Chicago per farmi prendere, ma prevediamo centinaia di arresti. La polizia si è addestrata a lungo: cannoni assordanti, barricate. Dopo tanta fatica, vorranno usare l’apparato che hanno costruito».

Yoni Miller, 18 anni, mostra ai colleghi come usare il sistema di messaggi Vibe mettendo un doppio hashtag prima di ogni testo, per nascondere le parole e comunicare in maniera segreta. A Zuccotti Park lo chiamavano il «Presidente di Occupy Wall Street»: «Non ci sono presidenti qui, solo gente che protesta per avere una vita decente». Lui passa per genio della matematica, ma ha lasciato l’high school e creato un sito per le ripetizioni online agli studenti superdotati delle scuole pubbliche.

Arriva Stephen Webber, capo spedizione, cinquant’anni e i capelli bianchi. Aveva un’azienda digitale per la comunicazione medica, ma a ottobre l’ha venduta e ora fa il manifestante a tempo pieno. Lui, insieme a un «captain» che c’è su ogni bus, appartiene alla categoria degli «inarrestabili»: se la polizia lo ferma gli altri devono farlo scappare, perché ha il compito di riportare la carovana a casa dopo le proteste.

Sul suo iPad controlla i nomi degli iscritti e li indirizza ai pullman. Sono le quattro del mattino, quando finalmente si parte. Ci aspettano 1.200 chilometri di autostrada, ma i ragazzi cantano: «Burn Chicago, burn!». La prima sosta è a Kylertown, Pennsylvania, per il caffè.

Louis arrotola una cartina, con dentro una roba da finire in galera: «È la mia colazione». Lo guarda perplesso Yuri, che sul braccio porta una crocerossa: «Sono uno degli infermieri. Vengo da Irkutsk, in Siberia. Ho fatto il corso per l’assistenza in combattimento con l’Armata Rossa. A settembre sono venuto in vacanza, ho visto la protesta di Zuccotti Park, e non sono più ripartito».

Risaliti sul bus, Stephen spiega il progetto: «Per me è un fatto personale. Sono nato a Guantanamo da un pilota di caccia, che poi è stato abbattuto in Vietnam e ha fatto due anni di prigionia. Mia madre protestava contro il nucleare, e la prima volta venni arrestato con lei nel 1982. Vedere stravolta la missione per cui è stata fondata l’America è insopportabile. Io ero favorevole alla guerra in Afghanistan, ma ora è troppo. Obama è meglio di Bush, ma di poco: anche lui è nella tasca delle lobby. Andiamo a protestare contro la Nato perché è il braccio armato del complesso militare industriale, che indirizza le risorse del paese dove vuole l’1% dei più ricchi, e affama il 99%».

Fuori dal finestrino scorrono le colline della Pennsylvania rurale: «Qui si lamenta Yoni - è tutto fracking, quella tecnica tossica per l’estrazione del gas».

Webber riprende il discorso: «Durante l’inverno Occupy Wall Street è stata calma, perché dovevamo ridefinire il messaggio, che era troppo confuso. Abbiamo fatto riunioni ogni settimana, con amici tipo l’ex leader di Tiananmen Shen Tong, professori della Columbia University come Todd Gitlin, che nel Sessantotto guidava la Sds, ribelli internazionali tipo il serbo Ivan Markovic. Pensavamo di puntare sull’ineguaglianza, ma è un’idea negativa. Abbiamo scelto il concetto di fairness, giustizia per tutti. Sotto questo ombrello puoi infilarci ogni cosa: dalla riforma fiscale ai costi dell’università. L’obiettivo è trasformarci in un movimento politico, fare raccolta fondi con il crowd sourcing, e in prospettiva favorire l’elezione in Congresso di parlamentari vicini alle nostre posizioni.

Il modello è un po’ il Tea Party, che non è diventato partito, ma ha aperto la strada alla protesta contro il sistema e condiziona gli uomini e le scelte dei repubblicani. Qui a Chicago la manifestazione più dura sarà domani. I prossimi obiettivi poi sono una grande evento a Filadelfia il 4 luglio, il 17 settembre l’anniversario di Occupy Wall Street, e l’inauguration del presidente a gennaio, dove contiamo di portare un milione di persone a Washington. Serve per costruire la visibilità, altrimenti tutte le energie della protesta vanno perdute».

La sosta pranzo è a Youngstwon, Ohio: pizza per tutti, offerta dai sindacati. Poi altre otto ore di bus, tra i silos nella campagna dell’Indiana, ascoltando Paul Simon e guardando il film «Breakfast Club» su una banda di studenti ribelli. Con i cartoni della pizza i ragazzi hanno disegnato cartelli appesi ai finestrini: «Healthcare not Warfare». E anche messaggi per il G8: «Support the Robinhood Tax», la tassa sulle transazioni finanziarie.

Alle porte di Chicago Diane spiega le possibili sistemazioni per la notte: «A, ospitalità da amici. B, campeggio in aree autorizzate. C, occupare un manicomio di South Side appena chiuso». Dal fondo del bus si alza una voce rumorosa e compatta: «Manicomio, manicomio!». Stephen sorride con sguardo paterno, compiaciuto e preoccupato: «È così in tutte le rivoluzioni: ci vuole qualcuno che sfondi la porta, affinché gli altri possano passare».

Nessun commento:

Posta un commento