Fonte:
il manifesto
| Autore:
Joseph Halevi
Una seconda ondata depressiva è ormai in vista ad occhio nudo. I prezzi delle materie prime, greggio compreso, hanno smesso di oscillare e stanno subendo un drastico calo trascinandosi dietro sia i valori azionari delle società minerarie che le monete dei paesi produttori in fase di svalutazione rispetto al dollaro. Le commodities sono un’ottima spia della situazione economica. Nell’autunno del 2008 furono i loro prezzi e i tassi di cambio delle relative monete, a segnalare il passaggio della crisi da finanziaria a «reale» quando molti esperti ancora ne negavano l’esistenza. In questo contesto la crisi europea ed il rallentamento cinese si sommano. La dinamica di Pechino, anche per effetto della situazione europea, sta scendendo sotto la soglia dell’8% di crescita annua che, dati i ritmi di produttività, è considerata come il livello minimo per impedire un’impennata della disoccupazione e l’aggravarsi delle già alte tensioni sociali rendendo così più problematica la traiettoria della già complessa transizione politica in atto.
Ma il fulcro principale della nuova ondata depressiva è pur sempre l’Europa dell’euro. Dalla firma del patto fiscale agli inizi dell’anno siamo stati testimoni dell’aggravamento della posizione debitoria della Grecia malgrado i drastici tagli alla spesa pubblica ed il miglioramento del deficit di bilancio. Il Fondo monetario internazionale stima che per il 2013 il rapporto debito pil raggiungerà il 160%. Anche in Spagna la percentuale del debito pubblico sul pil, tuttora inferiore a quello della Germania, è aumentato dopo le drastiche decurtazioni alla spesa pubblica. È proprio la Spagna ad evidenziare la dimensione usuraia dell’attuale modello europeo. L’insolvenza delle banche spagnole è stata alleggerita dai prestiti concessi dalla Bce ad un saggio dell’1%.
Parte di questi soldi vene poi prestata allo Stato, ad un tasso molto superiore. E malgrado l’usura le banche continuano a fallire per via delle cartacce tossiche in loro possesso e della crisi reale che attanaglia il paese. Infine abbiamo visto la Francia aggiungersi ai paesi meridionali. Ancora recentemente i banchieri centrali più intelligenti, come Ignazio Visco, riconoscevano che l’austerità avrebbe portato alla recessione. Veniva però mantenuta la fiducia che i sacrifici fossero necessari per sanare i conti pubblici.
Ora, grazie al Financial Times , emerge la validità di ciò che ho scritto sin dal 2010. L’austerità non solo produce recessione ma aggrava l’indebitamento ed aumenta la probabilità di un default selvaggio con effetti a catena. Nessuno dei paesi summenzionati può mantenere il regime di austerità. Dovranno, come ha appena fatto Madrid con Bankia, effettuare gigantesche operazioni di salvataggio per tamponare le crisi aggravate dalle politiche in atto. A rendere la situazione completamente ingovernabile è il patto fiscale europeo la cui insostenibilità non viene resa pubblica. Il patto obbliga i paesi contraenti all’equilibrio di bilancio.
Ma ciò è possibile solo se la differenza tra risparmi ed investimenti è uguale alla differenza tra esportazioni ed importazioni. È formalmente impossibile che tutti i paesi europei possano realizzare quest’obiettivo. Imporne l’impossibile raggiungimento significa condannare la Francia ed il resto dell’Europa meridionale all’implosione economica che si trasformerà in depressione europea e in un’ulteriore crisi mondiale.
Una seconda ondata depressiva è ormai in vista ad occhio nudo. I prezzi delle materie prime, greggio compreso, hanno smesso di oscillare e stanno subendo un drastico calo trascinandosi dietro sia i valori azionari delle società minerarie che le monete dei paesi produttori in fase di svalutazione rispetto al dollaro. Le commodities sono un’ottima spia della situazione economica. Nell’autunno del 2008 furono i loro prezzi e i tassi di cambio delle relative monete, a segnalare il passaggio della crisi da finanziaria a «reale» quando molti esperti ancora ne negavano l’esistenza. In questo contesto la crisi europea ed il rallentamento cinese si sommano. La dinamica di Pechino, anche per effetto della situazione europea, sta scendendo sotto la soglia dell’8% di crescita annua che, dati i ritmi di produttività, è considerata come il livello minimo per impedire un’impennata della disoccupazione e l’aggravarsi delle già alte tensioni sociali rendendo così più problematica la traiettoria della già complessa transizione politica in atto.
Ma il fulcro principale della nuova ondata depressiva è pur sempre l’Europa dell’euro. Dalla firma del patto fiscale agli inizi dell’anno siamo stati testimoni dell’aggravamento della posizione debitoria della Grecia malgrado i drastici tagli alla spesa pubblica ed il miglioramento del deficit di bilancio. Il Fondo monetario internazionale stima che per il 2013 il rapporto debito pil raggiungerà il 160%. Anche in Spagna la percentuale del debito pubblico sul pil, tuttora inferiore a quello della Germania, è aumentato dopo le drastiche decurtazioni alla spesa pubblica. È proprio la Spagna ad evidenziare la dimensione usuraia dell’attuale modello europeo. L’insolvenza delle banche spagnole è stata alleggerita dai prestiti concessi dalla Bce ad un saggio dell’1%.
Parte di questi soldi vene poi prestata allo Stato, ad un tasso molto superiore. E malgrado l’usura le banche continuano a fallire per via delle cartacce tossiche in loro possesso e della crisi reale che attanaglia il paese. Infine abbiamo visto la Francia aggiungersi ai paesi meridionali. Ancora recentemente i banchieri centrali più intelligenti, come Ignazio Visco, riconoscevano che l’austerità avrebbe portato alla recessione. Veniva però mantenuta la fiducia che i sacrifici fossero necessari per sanare i conti pubblici.
Ora, grazie al Financial Times , emerge la validità di ciò che ho scritto sin dal 2010. L’austerità non solo produce recessione ma aggrava l’indebitamento ed aumenta la probabilità di un default selvaggio con effetti a catena. Nessuno dei paesi summenzionati può mantenere il regime di austerità. Dovranno, come ha appena fatto Madrid con Bankia, effettuare gigantesche operazioni di salvataggio per tamponare le crisi aggravate dalle politiche in atto. A rendere la situazione completamente ingovernabile è il patto fiscale europeo la cui insostenibilità non viene resa pubblica. Il patto obbliga i paesi contraenti all’equilibrio di bilancio.
Ma ciò è possibile solo se la differenza tra risparmi ed investimenti è uguale alla differenza tra esportazioni ed importazioni. È formalmente impossibile che tutti i paesi europei possano realizzare quest’obiettivo. Imporne l’impossibile raggiungimento significa condannare la Francia ed il resto dell’Europa meridionale all’implosione economica che si trasformerà in depressione europea e in un’ulteriore crisi mondiale.
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