di Luciano Gallino, da Repubblica, 15 maggio 2012
Le preoccupazioni espresse dal ministro Passera circa le conseguenze nefaste della disoccupazione di massa dovrebbero far riflettere molti nel governo, in Parlamento e nei partiti. Di là dai numeri, la disoccupazione comporta povertà, perdita della casa, criminalità, denutrizione, abbandoni scolastici, antagonismo etnico, famiglie spezzate e altri problemi sociali. Ne parlava in questi termini già vent'anni fa un economista che si è battuto a lungo per dimostrare che la disoccupazione è un male assai peggiore del deficit (era William Vickrey, premio Nobel 1996). Sentirle riecheggiare ora nelle dichiarazioni di un ministro di primo piano fa pensare se non sia giunto il momento di attribuire alla creazione diretta di occupazione un peso, nella politica economica e sociale, non minore di quello attribuito finora al deficit e al debito pubblico.
Ho richiamato mesi fa su queste stesse colonne quali caratteristiche dovrebbe avere la creazione diretta di occupazione. Lo Stato assume direttamente, tramite un'apposita agenzia, il maggior numero di disoccupati e di precari, che però vengono gestiti dal punto di vista operativo da enti locali. Gli assunti dovrebbero venire occupati in programmi di pubblica utilità diffusi sul territorio e ad alta intensità di lavoro. C'è solo da scegliere, dagli acquedotti che perdono il 40 per cento dell'acqua che distribuiscono alle scuole per metà fuori norme di sicurezza, dal riassetto idrogeologico del territorio alla tutela dei beni culturali. Il salario offerto dovrebbe aggirarsi sul salario medio o poco al disotto, cui andrebbe aggiunto il costo dei contributi sociali per sanità e previdenza. In totale, circa 25.000 euro l'anno a testa. Volendo cominciare con un numero capace di incidere positivamente sulla situazione, bisognerebbe ipotizzare l'assunzione di almeno un milione di persone, per un costo totale di 25 miliardi l'anno. Non molto, a fronte dei 7 milioni di persone disoccupate o maloccupate indicate dal ministro Passera, ma comunque un miglioramento.
Dinanzi a una proposta del genere si affollano le obiezioni. Mi soffermerò su alcune delle più ovvie: nessun Paese ha mai attuato interventi statali di simile scala; il loro costo sarebbe insostenibile; ce lo vieta l'Europa.
Interventi del genere, su scala assai maggiore, sono stati effettuati negli Usa durante il New Deal. Con una disoccupazione che sfiorava il 25 per cento, tra il 1933 e il 1943 tre agenzie statali – la Civil Works Administration, la Federal Emergency Relief Administration e la Works Progress Administration – diedero lavoro a parecchi milioni di persone al mese. E non per scavare buche che altri poi riempivano. Quegli occupati costruirono o ristrutturarono 400.000 chilometri di strade, 4.000 chilometri di fognature, 40.000 scuole, 1000 aeroporti, e piantato un miliardo di alberi. Centinaia di migliaia di disoccupati furono avviati al lavoro nel volgere di tre mesi dalla creazione di dette agenzie. Da notare che gli Stati Uniti contavano allora 125 milioni di abitanti, poco più del doppio dell'Italia di oggi. C'è qualche lezione da imparare guardando a quel periodo.
Affermare che il costo della creazione diretta di un milione di posti di lavoro sarebbe insostenibile è privo di senso ove non si proceda a stendere un piano economico che tenga conto di almeno tre elementi. I primi due si contrastano a vicenda. Infatti, da un lato occorre considerare che vi sarebbero spese aggiuntive: i servizi per l'impiego, ad esempio, andrebbero potenziati per metterli in grado di gestire i progetti locali. D'altro lato, si potrebbe scoprire che molti neo-occupati costano meno di 25.000 euro l'anno, perché vi sarebbero aziende disposte volentieri a pagarne la metà o un terzo, così come recuperi di fondi potrebbero venire dalla cessazione del sussidio di disoccupazione per i neo-assunti, o dai cassintegrati che a fronte della conservazione del posto nell'azienda d'origine scelgono liberamente di lavorare a 1.200 euro al mese invece che stare a casa con 750. Ma l'elemento da considerare è che l'occupazione non è un costo: è un fattore che crea ricchezza. Come scriveva un altro economista, J. M. Keynes, che vedeva nella disoccupazione il peggiore dei mali: “L'insieme della forza lavoro dei disoccupati è disponibile per accrescere la ricchezza nazionale”.
Quanto all'obiezione che sarebbe l'Europa, cioè la Ue, a vietarci di creare occupazione in modo diretto, essa è mezza vera, ma un rimedio ci sarebbe, e mezza falsa. Il divieto di creare occupazione appare insito non tanto nella lettera, quanto nel dispositivo di rientro dal debito pubblico previsto dal Trattato di stabilità firmato dal governo italiano e da 24 altri governi Ue a Bruxelles nel marzo scorso (anche noto come “Patto fiscale”). Il Trattato dovrebbe entrare in vigore, previa approvazione dei rispettivi parlamenti, il 1° gennaio 2013. L'articolo 4 prevede che un Paese avente disavanzi eccessivi – ossia con un debito che supera il 60 per cento del Pil – operi “una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo all'anno”. Poiché il debito dell'Italia supera il 120 per cento del Pil, pari a oltre 1.900 miliardi, essa dovrebbe ridurre il suo debito giusto della metà, cioè 950 miliardi. Si tratta quindi di ridurre il debito di 1/20° di tale somma, vale a dire 45 miliardi l'anno. Quanto basta per assicurare al nostro Paese non solo un ventennio di recessione, bensì di miseria nera, impedendo di destinare alla creazione di occupazione un solo euro. Resta soltanto da sperare che qualcuno in Parlamento si renda conto di quale trattato capestro il governo italiano ha firmato, e si adoperi per impedirne l'approvazione. Come forse faranno i francesi dopo la vittoria di Hollande.
D'altra parte, chi volesse insistere sulla necessità di creare occupazione per evitare guai nel prossimo futuro, potrebbe trovare appoggio proprio nel Trattato istitutivo della Ue (che il citato Patto fiscale, secondo alcuni giuristi, calpesta in diversi modi). La versione consolidata di esso, del 2008, contiene infatti una “Dichiarazione concernente l'Italia”, la n. 4 9, che recita testualmente: “Le parti contraenti… ritengono che le istituzioni della Comunità debbano considerare, ai fini dell'applicazione del trattato, lo sforzo che l'economia italiana dovrà sostenere nei prossimi anni, e l'opportunità di evitare che insorgano pericolose tensioni, in particolare per quanto riguarda la bilancia dei pagamenti o il livello dell'occupazione, tensioni che potrebbero compromettere l'applicazione del trattato in Italia”. Se il ministro Passera crede davvero che sia a rischio la tenuta economica e sociale del Paese, ci sono due o tre cose di cui dovrebbe discutere con i suoi colleghi e il presidente del Consiglio.
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