martedì 15 maggio 2012

E’ la domanda, bellezza!

di Paul Krugman, da Repubblica, 13 maggio 2012
Su The American Economic Review ho letto un saggio autorevole in cui si spiegava esaurientemente come l'elevato tasso di disoccupazione del Paese avesse profonde radici strutturali e non fosse suscettibile di essere risolto in tempi brevi. La diagnosi dell'autore era che l'economia americana, semplicemente, non sarebbe abbastanza flessibile per affrontare il rapido cambiamento tecnologico. Il saggio era particolarmente critico nei confronti di programmi come il sussidio di disoccupazione che, si sosteneva, in realtà danneggia il lavoratore perché riduce l'incentivo a trovare una soluzione.

C'è una cosa che non vi ho detto: il saggio è del giugno 1939. Soltanto qualche mese dopo sarebbe scoppiata la Seconda Guerra Mondiale e gli Usa - sebbene non ancora entrati in guerra - avrebbero iniziato a organizzare un vasto programma di riarmo, accompagnato da forti incentivi fiscali su una scala commisurata alla gravità della recessione. E, nei due anni successivi alla pubblicazione di quell'articolo sull'impossibilità di creare rapidamente posti di lavoro, il tasso di occupazione del settore non agricolo americano sarebbe cresciuto del 20%: l'equivalente di 26 milioni di posti di lavoro di oggi.


Adesso ci troviamo a dover affrontare un'altra crisi, non così grave come l'ultima ma abbastanza grave. E, ancora una volta, personaggi dal tono autorevole sostengono che i nostri problemi sono "strutturali" e che non possono essere risolti rapidamente. Dobbiamo concentrarci sul lungo termine, ci dicono. Che cosa significa sostenere che il nostro è un problema di disoccupazione strutturale? La risposta che si è soliti dare è che i lavoratori americani sono bloccati nei settori di attività sbagliati o che richiedono competenze diverse. Raghuram Rajan, dell'Università di Chicago, sostiene che il problema consisterebbe nella necessità di spostare i lavoratori dai settori "gonfiati" dell'edilizia, della finanza e del governo.

In realtà, l'occupazione pro capite nel settore governativo è rimasta più o meno stabile per decenni, ma non importa: il punto essenziale è che la perdita di posti di lavoro, dall'inizio della crisi, non è rimasta perlopiù circoscritta a quei settori che, probabilmente, si sono ampliati troppo durante gli anni della bolla. L'economia ha perduto posti di lavoro su tutta la linea, in ogni ambito e in professione, come era accaduto negli anni Trenta. Inoltre, se il problema consistesse nel fatto che molti lavoratori hanno le competenze sbagliate o non sono impiegati nel posto giusto, ci si dovrebbe aspettare che la manodopera che ha le competenze adatte e che si trova al posto giusto riceva consistenti aumenti salariali; in realtà all'interno della forza lavoro i vincenti sono pochi.

Tutto questo suggerisce che non stiamo patendo le difficoltà di una qualsivoglia transizione strutturale la quale, gradualmente, è destinata a fare il suo corso, ma stiamo invece soffrendo di una generale insufficienza di domanda: il genere di insufficienza che potrebbe e dovrebbe essere curata rapidamente con programmi governativi mirati ad incoraggiare la spesa.
Cos'è dunque questa tendenza ossessiva a definire "strutturali" i nostri problemi? Sì, ho detto ossessiva. Gli economisti hanno discusso questo argomento per anni e gli strutturalisti non accetteranno un no come risposta, non importa quante siano le prove che dimostrano il contrario.

La risposta, direi, sta nel fatto che sostenere che i nostri problemi sono gravi e strutturali offre una buona scusa per non agire, per non fare nulla che possa alleviare la piaga della disoccupazione. Ovviamente, gli strutturalisti affermano di non cercare scuse. Dicono che dovremmo concentrarci non sulle soluzioni rapide ma su quelle di lungo termine - sebbene non sia chiaro in cosa dovrebbe consistere una politica di lungo termine, al di là del fatto che essa comporta l'imposizione di sacrifici a carico dei lavoratori e dei meno abbienti.

Più di ottanta anni fa, John Maynard Keynes conosceva già questo tipo di persone. "Ma questo lungo termine", scriveva, "è una guida fuorviante per i problemi che abbiamo davanti. Sul lungo termine saremo tutti morti. Gli economisti si danno un compito troppo facile e troppo inutile se nei tempi di bufera ci sanno solo dire che quando la tempesta sarà passata il mare tornerà ad essere calmo".

Vorrei aggiungere che inventare ragioni per non fare nulla circa l'attuale disoccupazione non è solamente crudele e dispendioso, è anche una cattiva politica di lungo termine. Ci sono infatti prove sempre maggiori che gli effetti corrosivi di una disoccupazione elevata getteranno un'ombra sull'economia per molti anni a venire. Ogni volta che qualche politico o qualche esperto presuntuoso comincia a spiegare quanto il deficit sia un peso per le prossime generazioni, bisogna ricordare che il problema più grande che i giovani americani devono oggi affrontare non è il fardello di un debito futuro, ma la mancanza di posti di lavoro che impedisce a tanti laureati di iniziare la propria vita lavorativa.

Perciò tutto questo parlare di disoccupazione strutturale non va nella direzione di affrontare i nostri reali problemi, ma in quella di evitarli, di trovare una via di fuga facile e inutile. Ed è arrivato il momento di smetterla.

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