«L'era della fiducia totale nel libero mercato senza correttivi è finita. Cambiare strada conviene a tutti, anche a quelli che hanno ricchezza e potere: hanno da perdere più di tutti se l'economia si ferma ed esplode la rabbia sociale». Parla l'economista Robert Reich.
di Massimo Gaggi, dal Corriere della Sera, 11 maggio 2012
«Uscire dalla situazione economica nella quale ci siamo cacciati non sarà facile, nè ci riusciremo in breve tempo. Per avere un miglioramento vero — ma non torneremo a quella che eravamo abituali a considerare la normalità — vanno sconfitte due pericolose mitologie.
L'idea che se riduci ancora di più le tasse dei ricchi, loro in qualche modo creeranno molti più posti di lavoro: il mito che infetta gli Stati Uniti. L'altro, diffuso soprattutto in Europa grazie all'ostinazione tedesca, è quello dell’ “austerity economics": la convinzione che massicci tagli della spesa pubblica produrranno lavoro e crescita anche se hai già un'alta disoccupazione e una bassa utilizzazione della capacità produttiva. Sbagliatissimo».
Per Robert Reich, il celebre economista di Berkeley che fu ministro del Lavoro nella Casa Bianca di Bill Clinton, la vittoria di Hollande in Francia e per certi versi anche il risultato elettorale geco contribuiscono a smontare questi miti: costringono i tedeschi a riflettere.
In un libro, «Aftershock», che esce ora anche in Italia (edito da Fazi), Reich racconta origini e conseguenze di una crisi che viene da lontano, ricostruisce gli squilibri che hanno cominciato a prodursi negli anni Settanta del Novecento. Non se ne esce, dice, coi tagli che non correggono quegli squilibri e, anzi, magari li accentuano.
L'Europa farà qualcosa di più per la crescita, ma difficilmente Angela Merkel cambierà radicalmente rotta; la Germania si è rilanciata anche tenendo i conti in ordine e rendendo più snello il mercato del lavoro. Riforme di un socialdemocratico, Schröder. Misure impopolari – Schröder perse elezioni e cancelleria – ma utili.
«Sicuramente le riforme del mercato del lavoro hanno aiutato la Germania che, però, è stata anche sostenuta da un euro sottovalutato rispetto alla competitività tedesca, mentre è sopravvalutato rispetto a quelli dell'Europa meridionale, Italia compresa. Dovete stare attenti a non diventare anche voi vittime della "trappola del debito": abbassarlo è importante, ma il problema non è il debito per sé, conta la sua incidenza sul reddito nazionale. Se sale perché le politiche di "austerity" vi spingono in recessione, sono guai. L'America è in ripresa anemica ma comunque in ripresa — proprio perché non ha imboccato la strada dell'austerità».
Non perché ha saputo ristrutturarsi, abbassare i costi, e ha ripreso a esportare, riportando negli Usa alcune produzioni che erano state trasferite in Asia o in America Latina?
«Il fenomeno del cosiddetto "insourcing" c'è, ma viene sopravvalutato dalla stampa. Riguarda soprattutto l'industria manifatturiera che, coi processi di automazione, ormai non dà più molti posti di lavoro. Per i servizi è più difficile. Guardi i dati: negli Usa le imprese si sono rimesse a posto, creano ricchezza, ma stanno sedute su mille miliardi di liquidità che non vengono investiti. E i posti di lavoro continuano a essere creati soprattutto all'estero. Ha visto i dati della disoccupazione, di nuovo deludenti, la scorsa settimana? Poi, certo, anche noi dobbiamo tagliare il debito. Ma solo quando la disoccupazione sarà scesa al 6%».
Per lei è insensato, oltre che ingiusto, non voler aumentare le tasse sui ricchi, come pretendono i repubblicani. Chi guadagna molto in questo Paese paga effettivamente troppo poco, ma non è pericoloso, soprattutto in tempi di stagnazione, parlare solo di redistribuzione del reddito esistente anziché ragionare su come lo si può sviluppare? Non si può fare qualcosa per spingere le aziende a investire quei mille miliardi?
«Le imprese creano lavoro all'estero non perché sono cattive ma perché lì c'è domanda. Da noi non investono perché negli Usa i consumatori non spendono: la crescita delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito che va avanti da decenni ha impoverito il ceto medio, lo sapete bene. Ridurre questa forbice non è socialismo, è l'unico modo per ricreare le condizioni della crescita.
E non è un problema solo americano. L'Italia, che pure ha una discreta rete di protezioni sociali, è arrivata a un livello di diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza che è di poco inferiore a quello del mondo anglosassone, Usa e Gran Bretagna. E le distanze crescono quasi dappertutto, nel mondo, dalla Cina al Cile».
Nel suo libro lei racconta come il vecchio sistema di diffusione del benessere sia saltato 35 anni fa e propone un nuovo patto sociale. Ma è difficile ridistribuire quando si sprofonda nel debito pubblico. E poi negli Usa c'è anche il muro contro muro repubblicani-democratici.
«L'America ha le sue difficoltà politiche, certo. Fin dall'era della rivoluzione, dal 1776, siamo abituati a non fidarci dei governi: abbiamo disegnato un sistema di pesi e contrappesi, di separazione dei poteri, proprio per sfiducia nei confronti di chi ci amministra. Ma gli americani sono anche pragmatici: quando c'è un problema trovano il modo di risolverlo. Ora siamo bloccati da una battaglia ideologica sulle tasse, non succederà nulla fino alle elezioni. Ma dopo le cose cambieranno, perché tutti sanno che, al di là delle scelte di destra o sinistra, a far saltare gli equilibri sono stati la globalizzazione, la rivoluzione tecnologica e il ruolo delle grandi compagnie multinazionali: tutti fenomeni che hanno schiacciato verso il basso le retribuzioni nei Paesi ricchi. Restituire potere d'acquisto a chi l'ha perso non é socialismo: serve ad affrontare il nostro problema principale, la carenza di domanda interna aggregata. Lo sanno anche i conservatori. Ricorda? Sotto un grande presidente repubblicano, Eisenhower, i ricchi pagavano addirittura un'aliquota fiscale del 91 per cento. Mentre un altro presidente conservatore, Nixon, si dichiarò keynesiano».
Lei pare fiducioso, ma a volte disegna un futuro sul quale incombe una travolgente onda demagogica. Pensa solo all'Europa?
«Soprattutto, ma rischiamo molto anche noi se non cambiamo rotta. Per questo dico che serve un nuovo patto per il ceto medio. L'era della fiducia totale nel libero mercato senza correttivi è finita. Cambiare strada conviene a tutti, anche a quelli che hanno ricchezza e potere: hanno da perdere più di tutti se l'economia si ferma ed esplode la rabbia sociale».
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venerdì 11 maggio 2012
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