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Anna Lombroso per il Simplicissimus
La dura realtà della stentata “ripresa” ha fatto irruzione
nell’immaginario di chi si era illuso che l’incidente straordinario
rappresentato dall’epidemia offrisse una scelta tra tornare alla
“normalità” preesistente o cambiare modello di sviluppo e stile di vita
alternativi a quelli che hanno determinato il “contagio” globale.
E come al solito ci viene proposto di affidare la riparazione dei
danni del sistema finanziario e di mercato al sistema finanziario e di
mercato, con l’ostensione perfino dei simulacri che proprio il Covid19
aveva scaraventato giù dai piedistalli.
Infatti, come certe statue di influenti volute e tollerate,
tardivamente contestate e che continuano a testimoniare di errori,
colpe, delitti, certi miti resistono malgrado abbiano mostrato la loro
natura ingannevole: si professa l’atto di fede e il credo nell’Europa
generosa e solidale, si affida il governo dell’economia alle banche
canaglie per la cui salvezza sono state consumate dissipatamente le
risorse tolte alla sanità e all’istruzione, si confida nelle sorti
progressive della digitalizzazione, fino a convincerci che possa
rappresentare il motore della ripresa, della ricostruzione,
dell’occupazione a dispetto del prevedibile fallimento di quello che si
chiama il capitalismo delle piattaforme.
Eppure abbiamo visto siti che hanno rivelato la loro inadeguatezza
strutturale non sopportando il numero degli accessi, o le grandi catene
dello shopping online impotenti a soddisfare il surplus di ordinazioni.
Eppure abbiamo visto il flop dell’utopia tecnocratica in un click
svelato dalla inidoneità fisica e culturale dell’apparato “produttivo” e
didattico a convertirsi allo smart working e alla didattica a
distanza, confermando la discrasia tra la potenza virtuale della cyber
innovazione e la sua concreta efficacia.
Che è poi la verifica sempre tardiva che gli strumenti dl progresso
sono appunto mezzi, armi, ed è il loro impego a essere decisivo e
suscettibile di produrre cambiamento o effetti collaterali, alleviare la
fatica o incrementare la servitù.
In un mio post di due giorni fa (qui: https://ilsimplicissimus2.com/2020/06/16/tutto-il-male-vien-per-nuocere/)
ho accennato a Airbnb è diventata l’incarnazione dell’invito globale
rivolto a nuovi straccioni a diventare imprenditori di se stessi grazie
alla potenza salvifica delle piattaforme nell’era del capitalismo
digitale, la success history della retorica delle start up.
La sua storia e quella dei suoi creatori è diventata leggenda come
altre materializzatesi in garage, scantinati da dove si ergono le
figurine pionieristiche dell’inventiva autarchica e le icone
dell’ottimismo combinato con l’arrivismo, dell’entusiasmo mescolato con
la spregiudicatezza.
E costituisce anche l’adeguamento del sogno americano alle miserie
morali delle bolle finanziarie quando le risorse della Silicon Valley
individuano i nuovi territori da occupare, grazie all’innovazione
tecnologica, in questo caso nelle città, dove la app dei tre ragazzi di
San Francisco, il posto dove gli affitti sono i più alti degli Stati
Uniti, contribuisce allo svuotamento dei centri storici, alla loro
museificazione, alla sottrazione di alloggi per potenziali residenti
stabili e all’aumento dei canoni.
Come al solito al danno si accompagna la beffa: in questo caso
rappresentata dalla rivendicazione firmata dai tre inventori – Chesky,
Gebbia e Blecharczyk – di aver creato più che un prodotto un’utopia
realizzata all’insegna di quella economia collaborativa che si fonda
sulla fiducia reciproca e sulla potenza egualitaria e redistributiva
della rete, concretizzando l’ideale che “ogni comunità possa essere un
luogo dove sentirsi a casa propria”. Mentre si tratta semplicemente
dell’uso speculativo di una idea di condivisione che fa incontrare un
profitto facile con la retrocessione del “cosmopolitismo” nuovo
caposaldo della globalizzazione, a consumo delle città, del patrimonio
artistico e paesaggistico, grazie a un turismo invasivo e dissipatore.
Un libriccino che procura un amaro godimento, a firma di Sarah Gainsforth, racconta proprio il miracolo Airbnb, città merce,
prendendo a esempio Lisbona, circa 500 mila abitanti, che viene invasa
dall’arrivo di 14 milioni di turisti ogni anno, la cui economia locale è
stata stravolta dalla bolla dei subprime del 2008 e dove quartieri un
tempo popolari come Alfama e Mouraria sono “in vendita”, dove le
riqualificazioni (che contemplano il distacco delle azulejos, le
preziose mattonelle azzurre destinate alle piscine dei resort della
California e degli sceiccati) consistono nello svuotamento di stabili
per convertirli in residenze turistiche e dove i proprietari investono
in ristrutturazioni per poi locare con affitti brevi così in pochi mesi
nel corso del 2018 ben 22 mila alloggi del centro della città sono
finiti sul Airbnb.
E se il successo dell’app era nato per appagare i ragionevoli
appetiti di chi sperava di mettere insieme il pranzo con la cena
mettendo un materasso in più in casa, affittando la stanza di nonna
messa in casa di riposo, aprendo ai viaggiatore la casetta al paesello
semiabbandonato, a Roma sono quelli che possiedono più di un alloggio in
affitto a costituire il 56 per cento delle offerte sul sito, a
dimostrazione che l’affiliazione al sistema ha perso il carattere di
espediente salva-sopravvivenza e è diventato un business profittevole
per rendite, possidenti e imprese proprietarie e immobiliari.
Nella Capitale l’intero mercato degli affitti viene stimato da Istat
in 210.000 alloggi. Il primo gestore di alloggi è l’Ater Roma, con
48.000 appartamenti, il secondo è il Comune, che detiene 28.000 alloggi
pubblici. Ma il terzo è Airbnb, con quasi 19.000 appartamenti,
sottratti al mercato ordinario, ma contando anche le singole stanze si
arriva a 30.000. E se a Venezia il 12% delle case nella città storica,
è affittato a turisti tutto l’anno, le offerte sulla piattaforma hanno
saturato il centro e così il mercato si è spostato su Mestre e Marghera
dove il numero degli alloggi “brevi” è decuplicato, è Firenze invece la
città con la più alta concentrazione di stanze e appartamenti privati
su Airbnb nel centro storico, il 18%.
Ormai è una banalità dire che l’Italia, che prima del Covid era la
quinta destinazione turistica mondiale, con un volume d’affari di circa
172,8 miliardi di euro l’anno, il 10,3 del Pil, è destinata a diventare
un grande parco tematico, proprio come immaginava il Terzo Reich che
voleva farne il resort dei tedeschi ricchi. Per questo sarebbe opportuno
ricordare che si dovrebbero frenale le pulsioni autonomistiche dei
sindaci, quelli che brigano per allungare la lista di immobili pubblici
messi in vendita per essere trasformati in strutture ricettive: a
Venezia isole, palazzi, monumenti storici come il Teatro di Anatomia, a
Firenze dove la Cassa Depositi e Prestiti si impegna in qualità di vero
e proprio istituto finanziario a vocazione immobiliare per sottrarre
patrimonio pubblico agli abitanti come nel caso della vendita della
Villa Medicea di Cafaggiolo.
Deve essere proprio un’ossessione toscana voler persuadere che ogni
nefandezza, ogni oltraggio, ogni cedimento a interessi e lobby sia
prodromo di un nuovo rinascimento. E infatti tra le molte utopie del
ministro Franceschini c’è anche la promozione in grande stile un
progetto a forma congiunta sua e di Airbnb: Italian Villages per
espandere a rete anche nei piccoli borghi e di valorizzare l’iniziativa
The Italian Sabbatical, che propone a quattro persone estratte da una
selezione mondiale, di godere di un buen retiro, un soggiorno di tre
mesi in provincia di Matera a Grottole, dove, l’hanno denunciato Sunia e
Cgil, non esistono più case in affitto per i residenti
E figuriamoci cosa succederà adesso che bisogna promuovere
l’attrattività turistica italiana dopo la pandemia. Già si può
immaginare che i pesci piccoli che erano caduti nella rete,
soffocheranno, mentre si salveranno gli squali, quelli più strutturati,
comprese le agenzie che ormai usano Airbnb per offrire oltre al loro
pacchetto di alloggi, anche iniziative ed eventi speciali come la Notte
con Monna Lisa con visita esclusiva al Louvre, le serate con star della
canzone, la promessa die Gladiatori al Colosseo.
A dare una bella mano alla definitiva conversione del turismo in
industria pesante alla stregua della metallurgia e parimenti inquinante,
non c’è solo il mito secondo il quale ci si può improvvisare
imprenditori di se stessi e guadagnare una certa libertà scegliendosi
modi e orari della servitù, ma anche il rigetto dell’interpretazione
aristocratica del “viaggio” e della scoperta, in regime di monopolio per
élite acculturate e privilegiate.
Come se fosse una conquista stare pigiati in alloggi di fortuna,
accatastati in stanzette cui mancalo gli elementari requisiti di pulizia
e igiene, stiparsi davanti a un quadro, essere trascinati come mandrie
instupidite per calli e ramblas. Come se fosse una giusta emancipazione
usare le merci città a discapito di chi le abita, condannate a un
destino di parchi di divertimento, in cui i cittadini interpetrano se
stessi come figuranti che recitano tradizione, usi, servendo a tavola,
trasportando valige, facendo i locandieri, che vanno a dormire altrove
per tirar su la giornata.
Adesso potrebbe essere il momento buono per resistere a certe lobby,
adesso che tre mesi di stanze vuote e prenotazioni cancellate almeno per
un anno potrebbe aver mostrato che l’illusione di guadagni facili è
fallace.
Basterebbe rimettere sul mercato i vani in più a disposizione dei
residenti, basterebbe esigere che venissero adottate facilitazioni per
chi contribuisce a tutelare l’identità e la civiltà di una città grazie
alla tutela dell’abitare per chi ci è nato o ci vuol vivere per sempre
collaborando alla conservazione e manutenzione dei beni comuni.
Basterebbe esigere che gli istituti bancari, le casse di risparmio che
abbiamo dovuto salvare dopo che hanno generosamente erogato a malfattori
affini, concedessero finanziamenti agevolati a chi vuole restare a casa
sua, a chi vuole mantenerla in buono stato, a chi vuole un tetto sulla
testa dove risiedono i ricordi delle strade, delle voci, della gente,
delle storie della sua città.
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