domenica 28 giugno 2020

La “libertà-fobia” ovvero: il rogo del libero pensiero

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La “civiltà” prossima ventura – se continuiamo così, se non ci fermeremo in tempo – avrà molte delle caratteristiche profetizzate da Aldous Huxley: “stabilità”, destrutturazione familiare, controllo sociale e, soprattutto, irreggimentazione del pensiero. Il che significa pensare poco e pensare solo nei modi, con i contenuti, secondo i ritmi preventivamente stabiliti dal Grande Fratello. Gli episodi sintomatici di tale deriva sono innumerevoli.

Molti sono rimessi all’iniziativa dei colossi privati dell’universo digitale. Da Facebook a Youtube, da Amazon a Google, non si contano le zelanti misure di “contenimento” delle opinioni divergenti. Tu chiamala, se vuoi, censura. Intanto, ti oscurano il sito o il video o il profilo per qualche giorno. Domani si vedrà. Ma anche a livello pubblico, la tendenza verso la limitazione del “poter dire” è ormai senza freni. Basti pensare ai diversi disegni di legge contro la cosiddetta “omotrans-fobia”.
Se tali “riforme” dovessero passare, vi sarebbe il rischio di incorrere in pene molto pesanti per aver palesato concetti molto leggeri. Dove, per “leggeri”, deve intendersi normalissime, diciamo pure tradizionali, espressioni del proprio convincimento in materia di orientamento o educazione sessuale. Insomma, affermare cose fino a ieri “naturalmente” scontate e costituzionalmente garantite (per esempio, che la famiglia naturale di un bambino è quella composta da una mamma e da un papà) potrebbe costare davvero caro.

Ma ciò che più impressiona non è tanto l’oggetto dei disegni di legge in questione, quanto piuttosto il loro obbiettivo e la loro forma. L’obbiettivo, paradossale, è quello di incutere –  con la scusa della “fobia” verso l’omosessualità –  la “fobia” per la parola. La forma è quella, indefinita, tipica delle norme penali nei regimi totalitari: punire i sentimenti e farlo, soprattutto, con il ricorso a concetti straordinariamente generici, elastici, indefinibili, come appunto “omotrans-fobia”.

Di talchè, il cittadino non saprà mai, con certezza, quale sia il contegno criminale sanzionato dalla legge, come dovrebbe essere per ogni decente precetto di natura penale. Lo saprà solo “dopo”, a cose fatto, quando – davanti a un’occhiuta e truce giuria – dovrà giustificarsi per aver pensato, parlato, dibattuto.  E in ciò è insito il rischio di consimili progetti. Sono concepiti per incutere un “horror verbi” in chi non si adegua ai binari (sempre più angusti) del politicamente corretto.
E mirano, altresì, a mantenere i sudditi “chiacchieroni” perennemente sulla graticola di una gogna possibile, anzi probabile, se non certa. Fino al punto in cui, fattisi due conti in tasca, molti concluderanno, in cuor loro, che davvero non conviene rischiare sei anni di galera per manifestare un’idea, benchè naturale, scontata, o addirittura sacrosanta.
In tutto ciò, registriamo una voce, stranamente, fuori dal coro: quella della CEI. La Conferenza episcopale italiana ha messo in guardia contro i rischi liberticidi di certe norme. Ne prendiamo atto. Per una volta, la Chiesa “moderna” non segue, con ebete inerzia, il trend. Forse si è accorta che – quando, tutto attorno, si propaga il rogo delle nuove inquisizioni  – anche la tua casa (e la tua chiesa) finiranno bruciate, prima o poi.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com

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