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La “civiltà” prossima ventura – se continuiamo così, se non ci fermeremo
in tempo – avrà molte delle caratteristiche profetizzate da Aldous
Huxley: “stabilità”, destrutturazione familiare, controllo sociale e,
soprattutto, irreggimentazione del pensiero. Il che significa pensare
poco e pensare solo nei modi, con i contenuti, secondo i ritmi
preventivamente stabiliti dal Grande Fratello. Gli episodi sintomatici
di tale deriva sono innumerevoli.
Molti sono rimessi all’iniziativa dei colossi privati dell’universo
digitale. Da Facebook a Youtube, da Amazon a Google, non si contano le
zelanti misure di “contenimento” delle opinioni divergenti. Tu chiamala,
se vuoi, censura. Intanto, ti oscurano il sito o il video o il profilo
per qualche giorno. Domani si vedrà. Ma anche a livello pubblico, la
tendenza verso la limitazione del “poter dire” è ormai senza freni.
Basti pensare ai diversi disegni di legge contro la cosiddetta
“omotrans-fobia”.
Se tali “riforme” dovessero passare, vi sarebbe il rischio di
incorrere in pene molto pesanti per aver palesato concetti molto
leggeri. Dove, per “leggeri”, deve intendersi normalissime, diciamo pure
tradizionali, espressioni del proprio convincimento in materia di
orientamento o educazione sessuale. Insomma, affermare cose fino a ieri
“naturalmente” scontate e costituzionalmente garantite (per esempio, che
la famiglia naturale di un bambino è quella composta da una mamma e da
un papà) potrebbe costare davvero caro.
Ma ciò che più impressiona non è tanto l’oggetto dei disegni di legge
in questione, quanto piuttosto il loro obbiettivo e la loro forma.
L’obbiettivo, paradossale, è quello di incutere – con la scusa della
“fobia” verso l’omosessualità – la “fobia” per la parola. La forma è
quella, indefinita, tipica delle norme penali nei regimi totalitari:
punire i sentimenti e farlo, soprattutto, con il ricorso a concetti
straordinariamente generici, elastici, indefinibili, come appunto
“omotrans-fobia”.
Di talchè, il cittadino non saprà mai, con certezza, quale sia il
contegno criminale sanzionato dalla legge, come dovrebbe essere per ogni
decente precetto di natura penale. Lo saprà solo “dopo”, a cose fatto,
quando – davanti a un’occhiuta e truce giuria – dovrà giustificarsi per
aver pensato, parlato, dibattuto. E in ciò è insito il rischio di
consimili progetti. Sono concepiti per incutere un “horror verbi” in chi
non si adegua ai binari (sempre più angusti) del politicamente
corretto.
E mirano, altresì, a mantenere i sudditi “chiacchieroni” perennemente
sulla graticola di una gogna possibile, anzi probabile, se non certa.
Fino al punto in cui, fattisi due conti in tasca, molti concluderanno,
in cuor loro, che davvero non conviene rischiare sei anni di galera per
manifestare un’idea, benchè naturale, scontata, o addirittura
sacrosanta.
In tutto ciò, registriamo una voce, stranamente, fuori dal coro:
quella della CEI. La Conferenza episcopale italiana ha messo in guardia
contro i rischi liberticidi di certe norme. Ne prendiamo atto. Per una
volta, la Chiesa “moderna” non segue, con ebete inerzia, il trend. Forse
si è accorta che – quando, tutto attorno, si propaga il rogo delle
nuove inquisizioni – anche la tua casa (e la tua chiesa) finiranno
bruciate, prima o poi.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com
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