L’esercito può circoscrivere una zona rossa, non può riconvertire un sistema economico né integrare una nuova etnia.
Per mesi abbiamo sentito ripetere lo slogan “prima la vita”, a Mondragone la regola è “prima il lavoro“. I bulgari positivi al Covid sono scappati dalla quarantena coatta perché per loro il rischio di perdere il lavoro sopravanza quello di ammalarsi e di morire. È la prima prospettiva spiazzante di cui prendere atto, se si vuole andare oltre i luoghi comuni.I fuggiaschi dalla zona rossa sono di etnia rom.
Vivono in alveari indecenti, tra materassi giustapposti sul
pavimento, finestre divelte e fili elettrici scoperti, e pagano ai
proprietari italiani affitti che nessun italiano pagherebbe.
Fatte le
debite eccezioni, non rubano, non trafficano rame strappato dai cavi
dell’alta tensione, non sono grossi spacciatori.
Lavorano per una paga
di 3-4 euro all’ora, che nessun italiano accetterebbe, nei campi di
albicocche, pesche e pomodori, per conto di caporali italiani. L
e donne
prendono ancora di meno.
I figli non vanno a scuola in una percentuale
alta, alcuni di loro l’anno scorso sono stati scoperti a prostituirsi
per conto di utilizzatori finali italiani.
Che vuol dire questo? Che rappresentano un’infrastruttura paraschiavistica, coincidente con l’occupazione di posizioni sociali infime e servili, su cui poggia quella che Luca Ricolfi chiama in un libro la “società signorile di massa”. Una società che lavora poco e consuma ciò che non ha prodotto. Vuol dire che i ghetti, che in Italia non sono solo a Mondragone, resistono anzitutto perché, in qualche modo, servono a qualcuno. Sono l’agenzia di servizi di un’inaudita eppure concreta giungla sociale.
Peccando forse di sociologismo, potremmo aggiungere che servono anche perché definiscono, per opposizione e per conflitto, un’identità che si proclama autoctona. E nutrono una propaganda che surroga la povertà del dibattito politico. In Campania tra meno di tre mesi si vota per la Regione, De Luca ha sulla Domiziana una delle sue roccheforti elettorali, e tra i manifestanti che hanno assediato il palazzone dei bulgari sventolavano bandiere della destra sovranista.
Né i lanciafiamme evocati dal governatore durante il lockdown, né la demagogia muscolare di Salvini possono varcare le mura di un ghetto come quello del complesso ex Cirio, un agglomerato di otto enormi edifici, abitati anche da rumeni e da ex terremotati, portati lì quarant’anni fa. Per capire quanto quelle mura siano alte basta ascoltare le ragioni degli immigrati che, violando la zona rossa, hanno innescato la reazione degli indigeni. Protestavano contro il prelievo di sangue operato ai loro familiari nell’ospedale di Sessa Aurunca, perché erano convinti che i medici volessero vendere il plasma per specularci privatamente.
I ghetti sono buchi neri della modernità, dove non arriva un welfare
da cento miliardi di euro. Misurano il rapporto tra condizioni sociali
degradanti e l’astrattezza di certe misure politiche pensate per farvi
fronte. Resistono perché i rimedi per bonificarli non funzionano. O
addirittura sortiscono l’effetto opposto a quello voluto. Come il
reddito minimo di 9 euro netti all’ora, proposto dai 5 stelle e
sostenuto da una parte della maggioranza giallorossa: una simile soglia
di garanzia salariale è irraggiungibile dalla realtà del mercato del
lavoro. L’effetto sarebbe solo quello di incentivare il sommerso.Che vuol dire questo? Che rappresentano un’infrastruttura paraschiavistica, coincidente con l’occupazione di posizioni sociali infime e servili, su cui poggia quella che Luca Ricolfi chiama in un libro la “società signorile di massa”. Una società che lavora poco e consuma ciò che non ha prodotto. Vuol dire che i ghetti, che in Italia non sono solo a Mondragone, resistono anzitutto perché, in qualche modo, servono a qualcuno. Sono l’agenzia di servizi di un’inaudita eppure concreta giungla sociale.
Peccando forse di sociologismo, potremmo aggiungere che servono anche perché definiscono, per opposizione e per conflitto, un’identità che si proclama autoctona. E nutrono una propaganda che surroga la povertà del dibattito politico. In Campania tra meno di tre mesi si vota per la Regione, De Luca ha sulla Domiziana una delle sue roccheforti elettorali, e tra i manifestanti che hanno assediato il palazzone dei bulgari sventolavano bandiere della destra sovranista.
Né i lanciafiamme evocati dal governatore durante il lockdown, né la demagogia muscolare di Salvini possono varcare le mura di un ghetto come quello del complesso ex Cirio, un agglomerato di otto enormi edifici, abitati anche da rumeni e da ex terremotati, portati lì quarant’anni fa. Per capire quanto quelle mura siano alte basta ascoltare le ragioni degli immigrati che, violando la zona rossa, hanno innescato la reazione degli indigeni. Protestavano contro il prelievo di sangue operato ai loro familiari nell’ospedale di Sessa Aurunca, perché erano convinti che i medici volessero vendere il plasma per specularci privatamente.
Ma pensate anche alla sanatoria dei braccianti stranieri, varata con orgoglio dal Governo giallorosso: ancorché giusta, nessuno può credere che da sola basterà a incentivare l’emersione dei contratti in nero. In Campania un’intera economia, posta sotto la soglia della legalità anche se non palesemente illegale, vivacchia grazie a questa forma di schiavismo. A pochi chilometri da Mondragone, nella cosiddetta Terra dei fuochi, i rom bruciano i pellami, i copertoni e gli altri rifiuti di un’impresa artigiana diffusa. Nessuno ha mai spento quelle fiamme, perché ogni volta che si alzavano annerendo il cielo sopra interi agglomerati urbani, da Roma hanno risposto inviando l’esercito. L’esercito può circoscrivere una zona rossa, non può riconvertire un sistema economico né integrare una nuova etnia.
C’è un’immagine che racconta più di altre l’impenetrabilità dei ghetti: è quella degli scuolabus, messi a disposizione dai Comuni, che viaggiano vuoti tra i campi rom e le scuole. Un fiume di soldi, stanziati in due decenni dai programmi contro la dispersione, è finito in sussidi alle comunità immigrate o in improbabili progetti di integrazione. Con l’effetto che in alcune province del Sud i ragazzi che evadono l’obbligo superano il 20%. Questo fallimento prova anche quanto sia difficile trattare con certe enclavi le condizioni di un disarmo. Sono comunità sradicate e riassemblate. La loro coesione è fragile, quanto la verticalità che in apparenza li regola.
Abolire i ghetti vuol dire disinnescare la loro patologica e subalterna utilità e sostituirla con una nuova funzione. Facile a dirsi. Impossibile a farsi, senza una strategia complessa, oltre il tempo dell’urgenza, lontana anni luce dalla propaganda corrente, capace anzitutto di modificare il sistema che li assoggetta e li giustifica, e di ripristinare le condizioni minime di una fiducia sociale. Con regole del lavoro più flessibili, con un presidio costante dell’autorità pubblica, con una gestione dei progetti di integrazione ancorata a continue verifiche di risultato e, soprattutto, con tanta tanta scuola. La stessa che la pandemia ha chiuso da mesi e che non sappiamo neanche più come riaprire.
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