https://ilsimplicissimus2.com
Uno
degli obiettivi nel mirino della cosiddetta pandemia, ormai assunta a
condizione umana cronica è lo sfascio di ciò che resta della
legislazione del lavoro, introducendo all’improvviso forme nuove di
sfruttamento che nell’immediato appaiono come più comode e più
rispettose delle persone e dunque vengono accettate senza pensare alle
conseguenze. Una di queste forme, anzi la principale è il cosiddetto
“lavoro agile” che nella traduzione dal banale anglofono smart working
acquista la sua reale intenzionalità. Cominciamo subito col dire che non
si tratta di telelavoro, già esistente, che prevede un orario
prefissato, una postazione fissa e un diritto alla disconnessione. No,
il lavoro agile in realtà non prevede tutto questo, non ha orari, ma
solo mansioni da svolgere che possono anche richiedere un tempo di gran
lunga superiore a quello stabilito nei normali contratti oppure essere
così marginale da indurre un salario al di sotto del livello di
sopravvivenza o comunque molto inferiore a quello precedente.
Entrambe queste due situazioni sono nella logica di un cambiamento
che si prepara a rendere normale dopo essere state introdotte in tutta
fretta con l’emergenza pandemica: esse possono essere presentate come
favorevoli al lavoratore evitandogli di dover raggiungere il luogo di
lavoro e tornare a casa, ma consentendogli di rimanere tra le mura
domestiche o magari di svolgere la propria attività in altri luoghi di
suo gradimento qualora ne abbia la possibilità.
In realtà esse
presentano grandi vantaggi per i datori di lavoro che tanto per
cominciare risparmiano parecchio non dovendo più mettere a disposizione i
mezzi informatici necessari – la cui manutenzione e sostituzione
avviene a carico del dipendente – non dovendo spendere per l’energia
consumata o per rendere il posto di lavoro a noma, non dovendo dotarsi eventualmente
di mensa, di buoni pasto o di strutture per l’accudimento di bambini.
Ma questo è il meno: il grosso arriva dal fatto che non essendoci più un
orario di lavoro il dipendente può essere caricato di incombenze che
gli tolgono tutto il tempo, oppure di compiti così leggeri da
prefigurare salari da fame e contratti capestro di collaborazione. O
ancora poter conciliare le due situazioni a seconda delle necessità,
arrivando di fatto a situazioni di cottimo. Del resto l’impresa è tanto
più forte del singolo lavoratore da poter imporre comunque le sue
condizioni.
Pochi pensano che lo smart working di fatto elimina le vacanze ( se
puoi lavorare da qualunque posto che senso avrebbero?) o le sostituisce
con obblighi di partecipazione a corsi di formazione, sempre telematici,
ma che in sostanza – come viene evidenziato dalle esperienze fatte in
vari Paesi – aumentano e di molto le richieste di prestazioni partendo
dal presupposto che lavorando a casa si è più rilassati e più
disponibili a sottoporsi alla volontà aziendale. E ciò vale prima di
tutto per le donne. Per non parlare della vasta prateria di lavoro nero o
semi nero, di casse integrazioni fasulle, di ricatti che si aprono o
della separazione fisica dei lavoratori che li lascia praticamente soli
di fronte al padrone. Ora tutto ciò potrebbe essere regolato in maniera
da attutire l’impatto del “lavoro agile” sulle persone e stabilire i
giusti carichi di attività e una retribuzione adeguata e anche se le
rappresentanze del lavoro sono state ampiamente addomesticate dal
padronato, si potrebbe arrivare a compromessi in cui la parte datoriale
non faccia proprio la parte del leone. Tuttavia questo potrebbe accadere
se questo tipo lavoro entrasse gradualmente in uso, mentre la sua
improvvisa adozione in stato di emergenza e di eccezione rischia di
travolgere qualunque regola come si è visto benissimo con la scuola. E
chi pensa che possa essere conveniente non sa a cosa va incontro. Io
stesso posso portare la mia esperienza essendomi trovato a vivere il
cambiamento tecnologico nelle redazioni dei giornali, avvenuto negli
anni ’80: al momento pareva che tutto sarebbe stato più facile, ma nel
corso di qualche anno ci si accorse che in realtà si trattava di
surrogare il lavoro prima svolto in tipografia con la trasformazione dei
giornalisti in specie di ibridi che svolgevano sommariamente entrambi i
lavori. Il lavoro di ricerca della notizia, di ideazione e di scrittura
man mano è stato ridotto, spesso affidato a collaboratori o a service
esterni che non vanno oltre i comunicati ufficiali, ma semmai affidato
ai più fedeli esecutori degli editori che naturalmente sgomitano per
professare fedeltà, mentre il resto veniva rinchiuso non tanto nella
fortezza Bastiani, come immaginava Buzzati, ma nelle sue segrete. il
declino dell’informazione, la sua trasformazione in megafono del potere è
cominciato allora.
Eppure si trattava di cambiamenti assai meno radicali del lavoro a
distanza e della sua improvvisazione causa pandemia inventata. Ma questo
è uno degli obiettivi che si vuole raggiungere e il Covid non finirà
prima che tutto sia compiuto, a meno che qualcuno non cominci a
protestare contro questo esperimento sociale travestito da emergenza
sanitaria.
Nessun commento:
Posta un commento