Se
è vero, come sosteneva Thomas Eliot, che aprile è il mese più crudele,
potremmo avere il sospetto, aprendo La Repubblica di qualche giorno fa,
che giugno non sia da meno. Ci imbatteremmo infatti in un articolo
dell’ex presidente INPS, Tito Boeri, dal titolo piuttosto eloquente: “Per frenare la perdita di posti di lavoro servono più contratti a tempo determinato”.
Il dubbio verrebbe ulteriormente accresciuto se a fare da eco alle
parole di Boeri si unissero il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Roberto Gualtieri, il PD e Italia Viva,
oltre che il giornalismo filo-padronale accompagnato dalla
Confindustria e dal centrodestra. A quel punto, i sospetti si
tramuterebbero in certezza e la triste verità verrebbe inesorabilmente a
galla: Thomas Eliot si sbagliava. Ma andiamo con ordine.
Passata la sfuriata della prima lettura,
l’articolo di Boeri ci offre alcuni spunti di riflessione su due
questioni che lo stesso autore ritiene strettamente legate tra loro in
termini di causa-effetto. Da un lato, la perdita dei posti di lavoro a
seguito delle misure di contrasto all’epidemia da Covid-19: dato il
blocco dei licenziamenti per motivi economici, tale perdita sarebbe
imputabile ai mancati rinnovi dei contratti a termine, e potrà essere
ancora più marcata una volta che il blocco scadrà. Dall’altro, quelli
che per Boeri si configureranno nella fase post lockdown come degli ostacoli alle assunzioni e ai mancati rinnovi dei contratti di lavoro a tempo determinato.
Senza troppi giri di parole, Boeri
sostiene che per contenere le ulteriori perdite occupazionali che
inevitabilmente si verificheranno una volta rimosso il blocco dei
licenziamenti è necessario stimolare i rinnovi dei contratti a tempo
determinato. In che modo? Abbattendo la presunta “burocrazia” del Decreto Dignità, la causa principale dello stop alle assunzioni e dei rinnovi in questa ‘fase 2’. Cosa intende, però, Boeri per “burocrazia”?
La risposta ce la fornisce il Ministro
dell’Economia e delle Finanze, Roberto Gualtieri, che, da perfetto
portavoce degli interessi del mondo imprenditoriale ha affermato come
sia evidente che se in questa fase non si eliminano temporaneamente
le causali per il rinnovo e la proroga dei contratti a tempo determinato
reintrodotte a suo tempo dal Decreto Dignità, si rischia di avere un
impatto negativo sull’occupazione. Evidentissimo. E questo perché, ha ribadito Gualtieri, “È evidente che non possiamo semplicemente limitarci a prorogare la cassa integrazione e il
blocco dei licenziamenti per tutti, all’infinito, senza un punto di
arrivo. Utilizzare questi strumenti è stato giusto”, ma secondo
Gualtieri occorre “cominciare ad affrontare le problematiche che [questi
strumenti] non sono in grado risolvere”.
L’idea di Gualtieri, che ha ovviamente trovato il placet
di tutta l’area PD da sempre avversa al Decreto Dignità, prevede di
prolungare la sospensione delle causali per i rinnovi dei contratti a
termine contenuta nel Decreto Rilancio dal 30 agosto 2020 a fine
dicembre 2020. Ad oggi, infatti, sulla base delle misure contenute nel Decreto Rilancio,
fino al 30 agosto 2020 le imprese potranno rinnovare i contratti a
tempo determinato in essere alla data del 23 febbraio 2020 anche in
assenza delle causali previste dal Decreto Dignità.
Ricapitolando: Gualtieri e Boeri ci
raccontano che per combattere la disoccupazione servono più contratti a
tempo determinato, ma se non si eliminano quei brutti e sporchi orpelli
burocratici (altrimenti denominati causali), le imprese non sono
incentivate ad assumere a tempo determinato. Ma cosa saranno mai queste
tanto vituperate causali? Si tratta di alcuni pallidi argini introdotti
dal Decreto Dignità per contrastare il ricorso ai contratti a tempo
determinato: il decreto ha infatti previsto che in assenza di causale la
durata dei contratti a tempo determinato non può essere superiore a 12
mesi, e che se il rapporto di lavoro a termine dovesse proseguire per un
periodo più lungo (comunque non oltre il limite massimo di 24 mesi),
l’impresa è chiamata a motivare, tramite le causali, le ragioni per cui
quel contratto di lavoro dovrebbe continuare a prevedere un termine di
durata piuttosto che trasformarsi in un contratto a tempo indeterminato.
Il Decreto Dignità indica due categorie
di motivazioni che l’impresa può addurre per giustificare una durata di
un contratto a termine superiore a 12 mesi:
a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.
Entrambe le casistiche non sembrano
rappresentare, specialmente in questa fase post-emergenza caratterizzata
da dilagante incertezza e nessun particolare incremento di produzione,
un insormontabile ostacolo alle scelte delle imprese. Piuttosto,
l’accanimento contro queste causali sembra essere motivato da una
sostanziale presa di posizione del mondo padronale sulle regole del
gioco. Se, da un lato, le imprese non perdono l’occasione di
approfittare di questa crisi per radere al suolo quel poco che resta
delle tutele ai contratti a tempo indeterminato, dall’altro Boeri,
Gualtieri e il centrosinistra all’unisono da ormai trent’anni hanno
sposato l’idea per cui la disoccupazione si combatte flessibilizzando il
mercato del lavoro, ossia incentivando i contratti a termine. Oltre a
non essere supportati da alcuna evidenza empirica, tali orientamenti si
scontrano con il fatto che la disoccupazione e la perdita dei posti di
lavoro, così come, all’opposto, la quantità di lavoratori impiegati,
sono determinati dalla domanda aggregata, ossia da quanto le famiglie,
le imprese e lo Stato spendono per acquistare beni e servizi. Ciò sta a
significare che se il settore privato e/o la pubblica amministrazione
non spendono a sufficienza, una porzione della popolazione rimarrà senza
lavoro. Oppure, se per qualche ragione (come ad esempio un’epidemia),
le famiglie e le imprese decidono di spendere meno di prima, una parte
dei lavoratori perderà il posto di lavoro.
Eliminare le causali o faciliare le
condizioni per l’assunzione a termine non ha alcun effetto diretto,
specialmente in questa fase, sui livelli di occupazione: in altre
parole, agire sul mercato del lavoro non consente a chi è disoccupato di
trovare un lavoro. La questione della tipologia dei contratti di lavoro
è rilevante perché può influenzare la composizione dell’occupazione,
ossia la fetta di impiegati con un contratto a termine. Questa
composizione, insieme ai livelli di occupazione e disoccupazione, può
altresì modificare il potere contrattuale dei lavoratori e, per questa
via, i livelli salariali. In sostanza, più lavoratori precari ci sono,
meno potere contrattuale questi avranno nei confronti dei datori di
lavoro sulla contrattazione dei salari e sulle condizioni di lavoro.
Ecco allora che proposte come quella di
Boeri e Gualtieri si configurano come l’ennesimo tentativo di spostare
ulteriormente i rapporti di forza tra le classi in una direzione che
avvantaggia esclusivamente il padrone. La strategia di qualificare un
blando strumento di tutela del lavoro quale il Decreto Dignità come un
problema ci dimostra plasticamente come in questa lotta di classe Boeri
& C. abbiano deciso di non fare prigionieri: approfittare della
crisi per spostare l’asticella ancora più in alto e per cercare di
normalizzare l’assenza di causali per contratti a termine ci fa vedere
come anche un’emergenza del genere possa rappresentare un’occasione per
fare un ulteriore passo verso la precarietà, verso condizioni
peggiorative per i lavoratori e più favorevoli per le imprese. Il
contratto a tempo determinato è un contratto di lavoro che in quanto
tale implica il licenziamento ad una certa data, e la causale è un
timido tentativo di far moderare ai padroni l’uso e l’abuso di questi
contratti con licenziamento, costringendoli ad esplicitare il motivo del
licenziamento previsto alla data di scadenza. Le uscite degli alfieri
delle classi dominanti ci dimostrano, qualora ce ne fosse ancora
bisogno, come i padroni vogliono sfruttare il pretesto di questa crisi
per abbattere qualsiasi timido palliativo a sostegno del lavoro e della
buona occupazione.
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