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«Spiace dirlo, ma oggi l’App Immuni non serve a niente: intanto
arriva tardi, quando ormai la pademia sta finendo. E per mappare in
tempo reale la nostra salute ha bisogno di un sistema
sanitario che verifichi i dati in tempo reale. Improbabile, in un paese
che non è stato capace nemmeno di garantire a tutti le mascherine,
quando c’era l’emergenza Covid». Una bocciatura senza mezzi termini,
quella dell’avvocato Andrea Lisi, specialista in materia di privacy e
presidente di Anorc Professioni, l’Associazione Nazionale Operatori e
Responsabili della Custodia di contenuti digitali. Dal 2007, l’Anorc è
un punto di riferimento nazionale per le aziende e i professionisti
impegnati nel campo della digitalizzazione e protezione del patrimonio
informativo e documentale in ambito pubblico e privato. In web-streaming
su YouTube con Marco Moiso, vicepresidente del Movimento Roosevelt,
l’avvocato Lisi stronca il dispositivo messo a punto da Bending Spoons,
la cui sperimentazione è ora al via in alcune Regioni. «Secondo vari
studi, tra cui quelli dell’università di Oxford – premette Lisi – per
essere efficace, Immuni dovrebbe essere usata almeno dal 60% degli
italiani, e quindi dovrebbe superare la diffusione di WhatsApp, che è
l’applicazione più utilizzata nel nostro paese».
Non solo: «Non basta scaricare Immuni, bisogna anche usarla attivando
il Bluetooth. E lo stesso ministero della Difesa ci mette in guardia
dal farlo, visto che il Bluetooth è facilmente hackerabile. La nostra
Difesa consiglia di attivare il Bluetoothsolo
quando lo si usa: peccato che, per far funzionare Immuni, il Bluetooth
dovrebbe essere costantemente acceso». E non è tutto: «Se anche
moltissimi italiani usassero Immuni, l’operazione avrebbe senso solo a
patto che i dati forniti sul proprio stato di salute venissero
immediatamente verificati dal sistema
sanitario, che oggi non pare in grado di assolvere a questo compito».
Altro tasto dolente, per l’avvocato Lisi, l’incapacità dello Stato di
dotarsi di un sistema autonomo per la diffusione dell’App: «Francia e Gran Bretagna
si sono attrezzate creando dispositivi pubblici. Noi invece siamo
costretti ad affidarci agli “store” di Apple e Google, di cui lo Stato
non ha il controllo,
e che già ospitano App ancora più invasive, nel tracciamento dei nostri
dati: una prospettiva decisamente inquietante, per chi come me si
occupa di trasparenza e tutela dei diritti in ambito digitale».
Al netto delle buone intenzioni, aggiunge Lisi, «lo Stato finisce per
diventare complice e addirittura schiavo dei grandi player privati»,
piegandosi alla loro logica commerciale. «Comincio a spaventarmi:
significa che stiamo proprio cedendo tutto, ai grossi player, che di per
sé abusano già della loro posizione di potere: Stati democratici come l’Italia
dovrebbero riflettere, prima di piegarsi a questa sorta di resa, di
fronte alla cessione di intere parti della nostra esistenza». Lisi
critica anche la procedura «farlocca» per l’assegnazione della commessa:
«Lo Stato non aveva le idee chiare sul prodotto che gli serviva. E
ancora oggi siamo di fronte a una fase sperimentale, in cui i cittadini
saranno cavie». Secondo il legale, «la nostra rassegnazione di fronte al
digitale è dettata dall’ignoranza: nemmeno ci proviamo, a governare il sistema
con normative serie: ed è sconcertante che lo Stato accetti di far
gestire la sua applicazione per il coronavirus da multinazionali che già
tracciano i cittadini,
a loro insaputa, per scopi commerciali. O addirittura – come si è visto
in questi giorni negli Usa – possono rivelare l’identità di chi
partecipa a manifestazioni di protesta».
Per definire meglio il dispositivo e il suo assetto giuridico, Andrea
Lisi chiede al governo di avere un po’ di pazienza: «Ne abbiamo avuta
tanta noi, durante il lockdown, e quindi la possono avere anche coloro
che stanno sviluppando l’applicativo. Tra qualche mese, chiarito il
ruolo di ciascun player, potremo verificare se quest’App è
effettivamente utile per noi italiani. Speriamo che il governo riesca ad
acquisire la piena titolarità almeno dell’App – conclude Lisi – perché
quella degli “store” di Apple e Google non ce l’avrà mai. Quanto ai
contratti con Apple e Google non li vedremo mai, perché non ci saranno:
anzi, sarà il governo a bussare alla loro porta, timidamente, per
chiedere a Apple e Google il permesso di posizionare la sua App nei loro
“store”».
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