La biografia di Leone Ginzburg che Angelo d’Orsi ci consegna con
questo suo libro ha il pregio di restituirci per la prima volta in tutta
la sua ricchezza e complessità l’opera e la personalità di una luminosa
ma anche per molti versi eccezionale e straordinaria figura di
intellettuale antifascista.
micromega Salvatore Tinè
Ed è proprio su questa caratterizzazione
duplice della sua personalità, segnata da un rapporto strettissimo ma
anche complesso e financo contraddittorio tra la figura
dell’intellettuale e del “letterato” e quella del militante e del
combattente antifascista che il libro di D’Orsi scava in profondità,
facendo emergere non solo i tratti più marcati e peculiari della
personalità umana e morale di Leone Ginzburg, ma anche le motivazioni
etico-politiche più interne del suo intensissimo impegno per un
rinnovamento profondo della cultura italiana negli anni più duri del
fascismo e del suo regime.
Una ricerca che non solo per il suo taglio biografico non poteva
non muovere dalle origini di Ginzburg, esse stesse per così dire
“duplici”, di ebreo-russo, nativo di una città così importante e
decisiva nella storia culturale e politica non solo della Russia zarista
ma anche di quella rivoluzionaria come Odessa. D’Orsi ci mostra come lo
stesso rapporto con il suo senso dell’identità italiana, da Ginzburg
acquisita ma insieme anche consapevolmente scelta e profondamente voluta
si innesterà sulle sue “origini” cosmopolite di ebreo russo e come
queste ultime non mancheranno di segnarne e condizionarne in una misura
rilevantissima l’evoluzione non solo intellettuale ma anche politica.
È sul terreno di questo oggettivo cosmopolitismo che maturerà la
sua prima formazione giovanile nel clima intellettuale e politico, non
ancora del tutto soffocato dalla dittatura fascista, della Torino della
seconda metà degli anni ’20. Alla metà di quel decennio l’attività
culturale di Piero Gobetti segna ancora in modo particolarmente incisivo
il clima intellettuale della città anche fuori degli ambienti
accademici e perfino al di là delle divisioni politiche tra fascismo e
antifascismo, in un passaggio storico che pure sarà decisivo nel
processo di stabilizzazione del regime fascista e nella sconfitta
drammatica delle forze di opposizione alla dittatura mussoliniana.
È in questo vivace e insieme drammatico contesto storico che si
svolge il primo periodo della formazione di Leone Ginzburg. Un periodo
destinato a segnare fortemente l’evoluzione e la definizione stessa
della sua personalità non solo intellettuale ma anche politica grazie
all’incontro al liceo Massimo D’Azeglio di Torino cui viene ammesso alla
fine del 1924, con alcuni insegnanti di quella scuola che diventeranno
per lui dei veri e propri “maestri” come Augusto Monti, Umberto Cosmo,
Arturo Segre e Zino Zini. Ma è soprattutto il “letterato” Umberto Cosmo
ad influenzarlo. Vicino al socialismo riformista, impegnato anche in
un’attività giornalistica di inchiesta che gli costerà perfino una
sospensione dall’insegnamento con l’accusa di “disfattismo”, Cosmo
insegna anche all’Università di Torino, Letteratura italiana, dove ha
avuto tra i suoi allievi anche Antonio Gramsci ma al Liceo Gioberti egli
aveva avuto come allievi anche Umberto Terracini e Angelo Tasca, ovvero
altri due protagonisti dell’Ordine nuovo. Questa figura di
letterato e di studioso di lettere che sa farsi però anche intellettuale
politicamente impegnato influenzerà fortemente il giovanissimo Leone.
Ma anche il filosofo Zino Zini, una figura complessa, di formazione
neokantiana, diviso tra un idealismo volontarista e un forte ancoraggio
ai metodi oggettivistici e scientifici del positivismo non manca di
lasciare un segno sulla sua formazione. Sarà probabilmente lo stesso
Zini ad avviare Ginzburg all’attività di traduttore e di studi
slavistici.
Soprattutto sulla base di alcune importanti testimonianze di
compagni del liceo destinati a diventare delle figure importanti negli
ambienti intellettuali torinesi e quindi nella cultura italiana come
Franco Antonicelli e Sion Segre, D’Orsi ci restituisce un ritratto del
giovanissimo Ginzburg che ne evidenzia in modo impressionante insieme
all’intelligenza e alla forte personalità una straordinaria cultura e
precocità. Ma è il tratto di serietà e di intransigenza morale del
giovane che evoca immediatamente l’esempio e la figura di Piero Gobetti a
contribuire maggiormente a fare della sua immagine una vera e propria
“icona”.
L’immagine di un ragazzo ancora poco più che adolescente che come
Gobetti, non è già più “come gli altri” sembra condensare in sé, nel
racconto così vivido e simpatetico di D’Orsi la vita di Leone Ginzburg,
quasi racchiuderne il destino. Non v’è dubbio che la sua diversità si
leghi anche alla sua origine “straniera”, al suo essere un “russo”. È
tuttavia la ricerca di un rapporto profondo con la storia italiana, con
le sue migliori tradizioni culturali e politiche ad orientare già i suoi
studi e le sue vastissime letture. Proprio in questi anni del liceo
matura un intenso rapporto con Croce, nel cui pensiero e nella cui
opera, D’Orsi ravvisa una delle scaturigini più profonde del suo
successivo approdo all’antifascismo.
È Augusto Monti, che non è un professore della sua sezione ma
dirige la Biblioteca del liceo, a spingerlo allo studio di Croce, che
prenderà le mosse dalla lettura de La poesia di Dante, di Poesia e non poesia, de La letteratura della nuova Italia.
Insomma, Croce e Gobetti sono già in questa prima fase della vita di
Ginzburg due riferimenti e due “modelli” per così dire, fondamentali. Ma
contrariamente a quanto scriverà lo stesso Monti, non si può dire che
in quegli anni, il liceo D’Azeglio fu una “scuola di antifascismo”. E
D’Orsi sottolinea come per lo stesso giovane Ginzburg non si possa
parlare in questa fase di una ben definita e chiara scelta antifascista,
anche in considerazione della sua delicata condizione di ebreo
straniero. E tuttavia ciò non toglie che l’insegnamento di Monti, di
Cosmo, di Zini, di Segre, informato ad un’idea di serietà degli studi e
di impegno morale nell’esercizio del proprio “mestiere” abbia influito
fortemente sulla formazione anche politica di Ginzburg come di quella di
tanti altri suoi compagni e amici del liceo D’Azeglio.
Mi pare in questo senso particolarmente significativa
l’osservazione di Massimo Mila riferita a Monti ma che può estendersi
anche ad altri professori secondo cui l’insegnamento di quei docenti era
“gramsciano” nella misura in cui insegnava a fare bene e con serietà il
proprio “mestiere”: usciti da quel Liceo, dice Mila, si sapeva
benissimo da che parte stare. Dunque, sembrerebbe esservi uno stretto,
per quanto non esplicito, rapporto tra il mestiere del letterato e dello
studioso e la passione politica. E non v’è dubbio che tale rapporto è
destinato a scandire la vita di Leone anche quando egli maturerà il suo
antifascismo e deciderà di gettarsi nella militanza e nel combattimento
politico.
Ma nei tre anni di liceo, Ginzburg è ancora piuttosto assorbito nel
tempo libero che gli concedono gli studi dalla passione per la
letteratura. Scrive racconti e perfino un romanzo, Vita eroica di Lucio Sabatini.
Nella scrittura creativa di Ginzburg si esprime la sua onnivora
curiosità, un atteggiamento di partecipe osservazione della realtà della
vita sociale che in questi anni di formazione fanno già di Ginzburg,
come dice D’Orsi, un “piccolo Proust”. Nel romanzo si riflette così il
suo interesse per la vita mondana che si svolge a Viareggio, il suo
luogo di villeggiatura, ma anche il suo rigore e la sua intransigenza
nel giudizio sul mondo e sulle persone che osserva e che sia pure
indirettamente attraverso il filtro della letteratura racconta. La sua
nozione di “vita eroica” si riconnette all’”eroicismo” di Gobetti ma
riflette nello stesso tempo il senso della sua diversità di
intellettuale, di ebreo straniero ma anche di giovane così precocemente
maturo.
Questi tratti della sua personalità emergono in modo
particolarmente evidente nel lunghissimo e bellissimo racconto che
D’Orsi ci restituisce dell’amicizia che proprio negli anni del liceo si
consolida tra Ginzburg e Norberto Bobbio. Pure, è proprio nel racconto
di questa amicizia che è insieme uno straordinario sodalizio
intellettuale che il temperamento in apparenza aspro, altezzoso,
fastidiosamente pedagogico del giovanissimo Ginzburg rivela un tratto di
straordinaria apertura al rapporto e all’ascolto degli altri. La
ricerca di una verità in primo luogo morale che muove simultaneamente i
due amici e compagni di liceo scandisce l’evoluzione di un rapporto di
amicizia che trova nella “sincerità” del dialogo, di là da ogni sterile
solipsismo intellettuale il suo nucleo più profondo. Dalle lettere che i
due giovani adolescenti si scambiano nei periodi di festa o durante la
stagione estiva emerge un rapporto intellettuale di straordinaria
intensità ma anche la radicale diversità tra i due amici. Alla tendenza a
chiudersi in sé, nell’intimità dei propri studi di Bobbio viene così
contrapponendosi l’ansia di apertura anche fisica al mondo e agli altri
di Ginzburg. La divorante passione per i libri che il giovane Ginzburg
rivela, è in fondo un momento, un aspetto, per quanto essenziale, di
questa apertura.
Ginzburg legge di tutto, spaziando dalla letteratura russa a
quella francese. Dopo l’incontro con l’editore Alfredo Polledro, un
personaggio, come dice D’Orsi, “intriso di gobettismo culturale” egli
inizia un’attività di traduttore di autori fondamentali della
letteratura russa, da Tolstoj a Gogol: si pensi alla sua traduzione di Anna Karenina
che completerà durante il primo periodo universitario. Al piacere della
lettura si accompagna già quello di recensire, consigliare, comprare
libri. Una passione bibliomane che sembra prefigurare la successiva
attività editoriale. In questo rapporto tanto intenso e spasmodico
quanto fisico con i libri, vita e letteratura si stringono in un nesso
indissolubile. Le lettere a Bobbio sono in fondo un momento della sua
attività letteraria: le lettere sono “buone azioni” scrive in
un’epistola all’amico carissimo. Non a caso alla bibliomania si aggiunge
una passione altrettanto intensa per l’informazione giornalistica, per
le notizie siano esse di cronaca perfino spicciola oppure di politica,
interna o internazionale. Anche nella sua curiosità, nel suo apparente
“saper tutto” si manifesta la sua precocità, la sua superiorità talvolta
perfino fastidiosa o ostica ai suoi amici e compagni. Una diversità che
certo si lega anche alla sua condizione di “apolide”, avvertita
tuttavia perfino con angoscia.
Nella sua sua curiosità intellettuale e apertura al mondo si
esprime anche un insopprimibile bisogno di radici, la ricerca di una
“patria”. Il suo cosmopolitismo non è astratto e generico ma animato
dalla ricerca di una concreta dimensione sociale e collettiva, anche se
non ancora propriamente politica, dell’attività di studio e letteraria
in cui continua ad essere immersa la sua vita. Nelle lettere a Bobbio,
Ginzburg incita l’amico ad un atteggiamento più aperto al rischio e al
giudizio degli altri, di là da ogni chiuso riserbo o eccesso di pudore.
“L’artista vero – scrive - non recita per gli spettatori né
esclusivamente né principalmente: estrinseca il suo sogno d’arte: ma
capisce bene che gli spettatori gli ci vogliono: non foss’altro che per
stabilire quella corrente fra lui e gli altri, che lo prendono e lo
sollevano improvvisamente anche al disopra di se stesso facendone
l’interprete riconosciuto della collettività.” Infatti “il peggio al
mondo” è per lui – vivere nella menzogna: menzogna verso di sé e verso
gli altri: tu vivi sottraendoti, sottraendo il tuo vero essere, alla
vista altrui e anche a quella tua.”
È già in questa rivendicazione dell’importanza dell’impegno e della
sincerità nel rapporto con gli altri un atteggiamento morale destinato a
informare la sua, pure ancora di là da venire, scelta di militanza
politica nell’antifascismo organizzato. Proprio in una lettera alla
madre di Bobbio, in modo ironico, Ginzburg definisce “ingenuità” la
“malattia” di cui sarebbero affetti lui e lo stesso Bobbio,
sottolineando il loro “spirito di contraddizione” di giovani che vivono
di contro al mondo, condizionati dalle loro “ideuzze e passioncelle”,
esprimendo così, sia pure ancora con l’ingenua sensibilità di un
giovane, qualcosa di quella appassionata fedeltà alle proprie idee di
libertà e giustizia p attitudine al giudizio di quella severa fedeltà
alle proprie di libertà e di giustizia che lo avrebbe più tardi condotto
al sacrificio e alla morte.
Gli anni universitari, particolarmente dopo il trasbordo da
Giurisprudenza a Lettere, saranno segnati dalla scelta di abbandonare la
carriera di scrittore per intraprendere quella di letterato. Una scelta
che è forse una rinuncia. Ginzburg si sente “un vinto” ma rivela già
una percezione critica del suo essere un “letterato”. Una percezione che
certo si lega al suo interesse già rivelatosi molto forte per la
politica. Il corpo docente della facoltà di filosofia e lettere in cui
studia Ginzburg conta personalità di grande valore. Ginzburg ha così
modo di completare la sua formazione confrontandosi ancora una volta con
grandi maestri, da Neri a Farinelli a Rostagni a Debenedetti a Cian.
Anche attraverso il loro magistero informato ad un senso robusto del
nesso tra filologia e metodo storico, viene meglio precisandosi il suo
“storicismo”, forse anche al di là del suo rapporto che pure resta
profondo e proprio in questi anni sembra consolidarsi, con
l’insegnamento e la lezione etico-politica di Benedetto Croce. Il 21
dicembre del 1931 con una tesi su Maupassant il cui relatore sarà il
grande francesista Neri. Si consolida con quest’ultimo un rapporto molto
importante, che spinge Ginzburg ad allargare l’orizzonte dei suoi studi
oltre la letteratura russa fino a comprendere anche la letteratura
italiana. Si pensi alla sua edizione dei Canti di Leopardi che testimonia già della ricerca profonda di un rapporto con le tradizioni della cultura italiana.
L’anno successivo a quello della laurea sarà la svolta nella vita
di Leone. Meno di due mesi dopo avere ottenuto il titolo di libero
docente diventa professore, titolare di un corso libero di Letteratura
russa. La sua prolusione dedicata a Puskin e la letteratura russa
è un vero trionfo scientifico. In una lettera dichiara di avere
approfittato della “folla” che era venuta ad ascoltarlo “per proclamare
subito, e prima di ogni altra cosa, la volontà di noi slavisti, che i
nostri studi non siano secondo a nessuno, come serierà filologica e
serietà di metodo”. Ma già qualche mese dopo a Croce annuncia che
l’argomento del secondo anno di insegnamento all’università sarà il
rapporto tra Herzen e i democratici italiani. È evidente come dietro la
letteratura e la lingua affiorino sempre più prepotentemente la storia e
la politica. Non a caso è questo passaggio della sua vita a segnare la
nascita del Ginzburg militante e combattente antifascista.
Decisivo è l’incontro con Carlo Rosselli a Parigi dove Ginzburg si
era recato per continuare a lavorare su Maupassant grazie ad una borsa
di studio che gli aveva fatto avere Farinelli. E invece proprio in
quella città matura la sua scelta di anteporre agli studi l’impegno
politico rinunciando di fatto alla prospettiva di una sicura e
brillantissima carriera universitaria per più alti doveri. È su questo
passaggio che è anche un nodo di contraddizioni che si soffermano in
modo particolare il racconto e la riflessione di D’Orsi tesi a
evidenziare il nucleo etico più intimo e profondo di una concezione
della politica e del suo stesso primato nella “vita morale”, che sia
pure in modo graduale e non senza arresti e contraddizioni si era via
via venuta definendo proprio negli anni del D’Azeglio e poi nel periodo
universitario. E tuttavia, nelle pagine di D’Orsi, tale passaggio appare
molto più un coerente e maturo sviluppo del suo rapporto con la
dimensione intrinsecamente politica del suo lavoro culturale, perfino
serenamente maturato nel più profondo della coscienza di Ginzburg, che
una vera e propria svolta drammatica. Una coscienza morale salda e
perfino imperturbabilmente tranquilla emerge con straordinaria nettezza
nel “ritratto” di Ginzburg che vien fuori soprattutto da queste pagine
del libro.
La scelta di aderire a “Giustizia e libertà” e di entrare nelle
file della cospirazione è certamente mossa da un’insopprimibile spinta
etica ma esprime anche nello stesso tempo come un’ansia di azione,
un’esigenza altrettanto forte di fissare idee e programmi di
rigenerazione morale e politica dando loro anche una concretezza e una
immediatezza sul terreno dell’impegno militante e dell’organizzazione.
Anche la politica come l’attività culturale comporta disciplina e
organizzazione, secondo una concezione dell’impegno politico e culturale
di cui opportunamente D’Orsi sottolinea la matrice gramsciana e
ordinovista. Come il “mestiere” di studioso o di “letterato” anche la
politica insomma è un “lavoro” per gli altri. Una concezione del “lavoro
intellettuale” come “professione” certo tutt’altro che estranea
all’insegnamento neo-kantiano e weberiano che Ginzburg aveva filtrato
attraverso la scuola e la scienza “torinesi” in cui s’era formato ma che
tuttavia di quell’insegnamento non riproduceva ma bensì superava il
rigido dualismo tra cultura e politica, tra scienza e azione, tra il
rigore del metodo formale nella ricerca e negli studi e la passione
etico-politica senza la quale anche quel metodo rischia di degenerare in
sterile accademismo quando non in un vuoto formalismo.
Tuttavia, il senso del lavoro e della disciplina non sembrano
offuscare neanche nel momento in cui matura la scelta estrema della
lotta illegale quell’apertura esistenziale e culturale insieme verso lo
stato al mondo che aveva fin lì sostanziato la vita del Ginzburg
letterato, editore e organizzatore culturale. Significativamente D’Orsi
non manca di evidenziare un tratto di flânerie nel rapporto che
nel pur breve soggiorno parigino Ginzburg viene stabilendo con la città
che è ancora negli anni ’30 la benjaminiana “capitale della cultura
europea”. A Parigi egli ha modo di incontrare grandi figure di
intellettuali e studiosi impegnati come Paul Hazard, Paul Valery, l’Abbé
de Brémond e altri ancora.
Il suo è ancora una volta un atteggiamento di straordinaria
apertura culturale che in modo solo apparentemente paradossale si
dispiega a Parigi proprio quando ad esso si accompagna una “chiusura
politica”. A quell’apertura continua infatti pur sempre a seguire il
momento del distacco e del giudizio critico come evidenzia in
particolare un passo, su cui D’Orsi richiama opportunamente
l’attenzione, di una lettera da Parigi alla pittrice torinese Giorgina
Lattes, in cui alludendo al passaggio critico che sta attraversando nota
come “anche non aver voglia di far nulla può essere l’estrinsecazione
di una crisi feconda.” L’ipotesi di D’Orsi secondo cui il fare cui qui
allude Ginzburg sia in realtà quello “intellettuale” ci pare
convincente.
Insomma, anche dentro la flânerie del soggiorno parigino,
sotterraneamente si nasconde la politica, il suo richiamo irresistibile.
D’Orsi si spinge fino ad ipotizzare una sorta di sdoppiamento. La sigla
con cui firma i suoi primi articoli sui “Quaderni di Giustizia e
libertà”, M.S. allusivi alle iniziali di Maria Segrè, una donna che
aveva avuto un’importanza fondamentale nella sua formazione e cui
resterà sempre legatissimo, sembrava configurare in effetti una sorta di
“doppio” di Ginzburg. Per quanto intimamente connessi, l’intellettuale e
il combattente coabitano nella medesima personalità in una tensione che
adesso, nell’impulso all’azione, sembra a tratti farsi contraddizione.
Ma si tratta pur sempre di una contraddizione dialetticamente viva,
feconda di nuovi sviluppi e acquisizioni, premesse di nuove e più
impegnative scelte. L’azione politica, nella visione di Ginzburg, è tesa
infatti non soltanto a cambiare il governo ma più radicalmente e più
profondamente è tesa a cambiare il “costume” come dice lui stesso.
La politica è in questo senso anche preparazione e lotta per
l’affermazione di una nuova cultura e ideologia. Giustamente, D’Orsi
vede in questo senso qualche vicinanza con quel disegno di una “riforma
intellettuale e morale” della società italiana che avrebbe ispirato la
battaglia politica e la ricerca intellettuale di un altro combattente e
martire antifascista, Antonio Gramsci. Non a caso nei primi anni ’30
accanto all’azione politica nelle file di GL, l’impegno di Ginzburg si
intensifica anche sul terreno della battaglia per il rinnovamento
culturale attraverso l’intensa collaborazione alla terza serie della
rivista “La Cultura” diretta per un periodo dal suo vecchio maestro Neri
ma animata in realtà da un altro liberale di formazione gobettiana,
Arrigo Cajumi, una vera fucina della cultura più avanzata ma anche di
quella antifascista e la partecipazione significativa insieme con
l’amico Cesare Pavese alla casa editrice Frassinelli, nata nel 1931.
Particolarmente la collana più innovativa della casa editrice, la
“Biblioteca europea” diretta da Franco Antonicelli è l’espressione di
una esigenza di sprovincializzazione, di una apertura all’Europa e
all’europeismo di chiara marca gobettiana.
Questo programma di sprovincializzazione e di apertura europea
della cultura italiana avrebbe caratterizzato anche la successiva
esperienza di direzione della casa editrice Einaudi che vedrà il duo
Ginzburg e Pavese a fianco di Giulio Einaudi. Ginzburg riesce a trovare
spazi anche perfino negli ambiti della cultura ufficiale: si pensi alla
sua collaborazione giornalistica a una testata come “Pegaso” il cui
direttore, Ugo Ojetti è un uomo legato all’establishment fascista. Dove
la cultura riesce a conquistare un relativo spazio di autonomia dalla
politica sia pure con tutti i condizionamenti dell’ufficialità
nell’ambito di un regime totalitario, Ginzburg riesce a trovare spazi,
suscitando idee e stimoli nuovi. La direzione editoriale nell’Einaudi si
svolgerà, nel periodo successivo all’uscita dal carcere, nel 1936,
tutta nel segno di questa ricerca di spazi di autonomia della cultura,
proprio sul terreno di un impegno spasmodico teso ad affermare nei fatti
un un ruolo politico della cultura. L’immagine dello Struzzo che ingoia
lunghi chiodi con il motto Spiritus durissima coquit, ovvero
“lo spirito digerisce le cose più dure”, apparsa per la prima volta
nella rivista “La cultura” e destinata a diventare il logo dell’Einaudi,
allude in fondo a questa irriducibile potenza della cultura che si
manifesta anche soltanto come capacità di resistenza alla pressioni e ai
condizionamenti del potere, sebbene possa anche alludere al permanente
rischio di una chiusura della cultura in se stessa, di estraniarsi dalla
realtà sociale e politica più immediata.
Il tentativo di legarsi ad una tradizione torinese, gramsciana e
gobettiana e alla sua idea di una cultura non ristretta ai chiusi
ambienti dei letterati delle università, ma mescolata con la vita reale
deve fare i conti con l’invasività del fascismo e i limiti della sua
politica culturale. Ma ciò non toglie che l’arresto e la condanna da
parte del Tribunale speciale fascista di Ginzburg, nonostante gli sforzi
di Giulio Einaudi e di Luigi Einaudi di mantenere un carattere di
italianità e quindi di assoluta compatibilità con il fascismo, della
casa editrice, conferisce all’impresa editoriale un segno antifascista.
Una tensione tra le aperture culturali che avevano contrassegnato “La
Cultura” per iniziativa di Giulio Einaudi, Pavese e Ginzburg e le
posizioni politiche liberiste e conservatrici del senatore Luigi Einaudi
che certo per tutta una fase ha un effettivo ruolo egemonico nella casa
editrice, scandisce la vicenda dell’impresa einaudiana in questi anni. E
lo stesso arresto di Giulio Einaudi nel maggio del ’35 ci dice quanto
difficile sia il mantenere uno spazio di autonomia alla casa editrice
senza metterne a rischio la stessa esistenza.
Dopo il rientro di Ginzburg da Civitavecchia a Torino, muteranno
gli indirizzi editoriali, nel segno di una maggiore influenza del
crocianesimo di Leone e quindi di una maggiore influenza della cultura
storica rispetto agli studi economici. L’influenza del crocianesimo
rafforza l’ispirazione antifascista della casa editrice, accentuandone
così l’esposizione politica. D’Orsi evidenzia a questo proposito come
mentre Croce è sempre stato in fondo una spina nel fianco per il regime,
quest’ultimo non abbia mai considerato un oppositore Luigi Einaudi. La
casa editrice tuttavia sarà una “nuova Einaudi”. D’Orsi richiama
particolarmente l’attenzione sulla nuova collana “Biblioteca di cultura
storica” e la pubblicazione in essa di un capolavoro come Pensiero politico italiano dal 1700 al 1870
di Luigi Salvatorelli, un intellettuale e uno studioso protagonista
della cospirazione “giellista”. Ma non meno significativa del nuovo
indirizzo impresso all’Einaudi nella seconda metà degli anni ’30 da
Ginzburg è la pubblicazione in un’altra importante collana “I saggi” de La crisi della civiltà dell’olandese
Huizinga, un’opera certo del tutto distante dalla ideologia dominante
nell’Italia fascista di quegli anni e certo tra le maggiori espressioni
della crisi della “coscienza europea” degli anni ’30.
È a partire da una acuta percezione di questa crisi che Ginzburg
continua la sua opera di rinnovamento culturale che si esprime sempre in
un rapporto incessante con le tradizioni culturali e politiche della
storia italiana, da Dante a Machiavelli a Mazzini. Un rapporto che segna
profondamente anche il suo rapporto con la militanza antifascista. La
piena acquisizione di una identità italiana viene vissuta da Ginzburg
come una premessa indispensabile per la sua stessa scelta di aderire
alla cospirazione giellista. Il suo antifascismo si radica nella
conquista di una identità nazionale. Si tratta di una identità insieme
giuridica e culturale. Se quella giuridica sarà ottenuta nel 1931,
quella culturale si manifesterà clamorosamente nello stesso già
accennato argomento del corso che avrebbe tenuto all’Università se la
scelta nel gennaio ’34 di non firmare il giuramento di fedeltà al regime
fascista e la conseguente revoca della libera docenza nello stesso
anno, gli avesse consentito di svolgerlo, ovvero Herzen e i democratici
italiani. Un argomento la cui scelta rivela il rapporto profondo della
sua adesione a GL con la tradizione del Risorgimento italiano ma anche
nello stesso tempo forse non meno profondo rapporto con l’identità e la
cultura russa. Ancora una volta una identità complessa, per così dire
“doppia”. Ma al fondo v’è un modo diverso di concepire la tanto
ricercata e alla fine conquistata identità italiana: non si tratta solo
di diventare italiano per legittimare in tal modo l’azione diretta
contro il governo e lo stato italiani ma più radicalmente di
identificare nello stesso antifascismo il suo patriottismo.
Muoverà da questa ridefinizione del significato stesso
dell’identità nazionale e patriottica il senso sempre più
accentuatamente rivoluzionario, non esente da qualche tratto
“gramsciano” del suo antifascismo, profondamente legato all’esperienza
di “Giustizia e libertà” e all’insegnamento di Carlo Rosselli. Un
antifascismo che si contrappone a quello tradizionale, “prefascista” che
caratterizza in fondo la stessa Concentrazione antifascista promossa a
Parigi da alcuni fuorusciti di orientamento socialista e riformista,
come Turati, Treves, Modigliani. La ricostruzione di D’Orsi si sofferma
particolarmente a questo proposito sul primo testo politico di Ginzburg
scritto insieme con Levi e pubblicato sui “Quaderni di Giustizia e
Libertà”. In esso vi si riafferma “il valore morale della politica” e
insieme una idea “rivoluzionaria” di libertà intesa non in senso
formale, ovvero nel suo mero significato giuridico o politico ma a
partire dal suo concreto contenuto economico e sociale. Ed esplicita è
la identificazione di un programma di riforma in grado di trasformare le
strutture economiche e produttive con la idea stessa di “Rivoluzione”.
D’Orsi sottolinea la forte presenza di alcuni motivi del
consiliarismo ordinovista in quei passi dell’articolo in cui si
rivendica la necessità di una “azione spontanea delle masse operaie e
contadine” e di un “controllo delle industrie” da parte dei “consigli
operai”. Il nesso tra la questione dello stato e l’obiettivo della
rivoluzione si esplicita così nell’affermazione della necessità di un
nuovo potere statale che sia espressione degli “organi autonomi di
rappresentanza delle classi lavoratrici” e in un richiamo all’esperienza
delle “assemblee del 1919-20”. L’idea di un potere democratico che
muove dal basso e che negli istituti di autogoverno popolare locali e
municipali trova la sua concreta realizzazione storica deriva certo dal
federalismo di Cattaneo: di nuovo una delle grandi tradizioni
democratiche del Risorgimento italiano veniva ripresa e attualizzata nel
contesto della lotta immediata contro il dispotismo del potere
fascista.
Ma ancora più importante è un altro articolo di Ginzburg uscito
sempre sui “Quaderni di Giustizia e Libertà” in cui la sua idea di
rivoluzione si definisce e precisa in una riflessione storica e critica
dell’esperienza sovietica fortemente intrisa di echi gramsciani e
gobettiani. Significativa è la sua critica dei menscevichi i quali
“pretendevano di abbandonare il potere ai partiti borghesi politicamente
nulli e incapaci di guidare il movimento perché così si iniziava,
secondo loro, l’era capitalistica.” Di contro a questa concezione
sostanzialmente astratta ed economicistica della rivoluzione, Ginzburg
sottolineava come Lenin e i bolscevichi avessero compreso come il
capitalismo e la modernità potessero realizzarsi solo nella prospettiva
immediata di una rivoluzione socialista. E non può che colpire che
proprio un convinto europeista come Ginzburg sottolinei come pensare la
Russia secondo schemi ricavati dalla storia dell’Europa occidentale è
“frutto di ignoranza o di pigrizia mentale”. Del resto già in una
splendida recensione della Storia della rivoluzione russa di
Trotskij, uscita sul “Pegaso” nel 1931, in cui non aveva mancato di
notare come nella crisi russa del 1917 di contro alla “atmosfera di
esasperato legalismo” dei partiti liberali e democratici, “i soviet
d’ogni grado s’erano trovati a esser gli unici organismi vitali, perché
atti a uno sviluppo spontaneo e adeguabili alle esigenze del momento”,
egli aveva sostenuto con forza la necessità storica della Rivoluzione
d’ottobre: “perché in Russia si costituisse davvero uno stato moderno
era necessario che perisse in ogni sua forma la società precedente.
Quanto ciò sia doloroso, e come particolarmente stringa il cuore a noi,
uomini di cultura, la temporanea, eppur grave, menomazione dei valori
dello spirito, non c’è bisogno di dirlo; ma la storia ha esigenze
inesorabili, ch’è meglio riconoscere con virile chiaroveggenza.”
Opportunamente, D’Orsi sottolinea come nella sua riflessione
sull’esperienza dell’Ottobre sovietico lo “storicismo” di Ginzburg
evolva e si precisi nel senso di una “sostanziale adesione al senso
della Rivoluzione”. E’ questo storicismo rivoluzionario il nucleo
teorico e intellettuale del suo antifascismo militante. Ma D’Orsi non
manca di sottolineare il tratto di radicale diversità di questo
antifascismo da quello comunista. Ginzburg è in questo senso una figura
esemplare, ovvero emblematica di un nuovo tipo di cospiratore, mosso da
motivazioni eminentemente intellettuali, da quei “valori dello spirito”
che devono continuare a informare il combattimento e la lotta anche nei
suoi momenti più aspri e terribili, e insieme da un’ansia perfino
febbrile di azione diretta. L’intransigenza morale, il kantiano agire
per il dovere si inverano nella vitale concretezza dell’agire politico.
Del resto l’antifascismo torinese si era nutrito di filosofie che
esaltavano lo “slancio vitale” dell’azione e della prassi. Si pensi al
bergsonismo di Sorel, un autore che era stato caro a Gramsci ma anche a
Togliatti, negli anni torinesi.
Ma alle spalle di Sorel e di Bergson, in Ginzburg è anche
l’insegnamento e l’esempio dell’amatissimo Mazzini e più in generale il
riferimento alla “tradizione del Risorgimento” cui proprio in questi
anni ritornava per riconnetterla agli impegni e ai doveri del presente.
“Insorgere per risorgere” era il motto del movimento, fondato a Parigi
da Rosselli ed Emilio Lussu. Si tratta di dichiarare guerra al fascismo,
agendo da combattenti disposti a pagare di persona. Ginzburg sposa in
pieno questa idea di azione identificandosi totalmente in essa. Come ha
scritto Vittorio Foa l’azione, la cospirazione è anche il modo in cui di
fronte ad un regime totalitario fondato su un sempre ampio consenso sia
nelle masse popolari che negli stessi ceti intellettuali, chi si oppone
al fascismo trova il mondo di reagire al senso di solitudine,
ritrovando un rapporto col mondo attraverso l’azione politica immediata
sentita come un lavorare nel presente ma per il futuro. La bontà
dell’esempio, il senso del sacrificio sono elementi essenziali di questa
idea di azione intransigente, di impegno combattente.
È in particolare un articolo del marzo ’33, intitolato Viatico ai nuovi fascisti,
pubblicato sui “Quaderni di Giustizia e libertà” esattamente un anno
prima del suo arresto a sintetizzare nel modo più chiaro ed efficace la
concezione dell’azione politica antifascista propria di Ginzburg.
Quest’ultimo vi denuncia “l’atmosfera diseducatrice e avvelenatrice” del
fascismo. In questa atmosfera l’obbligo dell’iscrizione al PNF
costituisce un elemento difficilmente eludibile soprattutto per i
giovani che devono conquistare la loro autonomia attraverso il lavoro.
Perciò l’atteggiamento di Ginzburg non è di condanna moralistica, ma
piuttosto di pietà per quei giovani che nonostante l’iscrizione al PNF
mantengono una purezza di cuore. E tuttavia ciò non toglie che anche il
consenso forzato possa gradatamente trasformarsi o nascondere una
adesione intima. La tattica privata del singolo può volgersi in
opportunismo o corruzione. In questo senso, all’atteggiamento di pietà,
di comprensione per la condizione di servitù involontaria e di
avvilimento degli altri si accompagna in Ginzburg una rivendicazione
anche orgogliosa della propria diversità, una diversità che è anche la
solitudine dello sconfitto.
La solitudine che segnerà gli anni durissimi del carcere e poi del
confino a Pizzoli, nei quali tuttavia, lungi dallo spezzarsi la
continuità e l’impegno nel lavoro culturale appaiono attraversati da
nuove idee e stimoli destinati a lasciare il segno nella storia della
casa editrice Einaudi. Intanto, alcune figure di giovani intellettuali,
della generazione successiva a quella di Ginzburg come Carlo Muscetta,
Mario Alicata e Giaime Pintor, influenzati dal fascismo critico di
Giuseppe Bottai e della sua rivista “Primato” cominciano un “viaggio”
che li porterà, soprattutto dopo l’inizio della guerra, alla scelta
antifascista: il loro impegno nell’attività e nel lavoro culturali,
ancora cautamente interna alle compatibilità del regime lo porterà ad
avvicinarsi al nucleo einaudiano. Ma bisognerà aspettare la guerra per
vedere le prime crepe, i primi segni di crisi del regime, sia nei suoi
apparati di vertici che nella sua base di consenso. Una crisi che si
riflette subito nel gruppo einaudiano. Nell’ambito di quest’ultimo,
Ginzburg avverte prima degli altri suoi membri l’esigenza di superare
quel dualismo tra politica e cultura che aveva caratterizzato la
costruzione della cospirazione giellista. Come scrive D’Orsi, “la crisi
evidente del fascismo” sembra andare verso “una crasi dei due ambiti”.
Con la guerra, insomma, politica e antifascismo militante sono
ormai la stessa cosa. Ancora una volta la diversità di Ginzburg, la sua
capacità di individuare i passaggi critici e i momenti di svolta
anticipandoli, precorrendoli si conferma clamorosamente. Di nuovo esse
si traducono in volontà d’azione, in una idea concreta dell’agire
politico che troverà il culmine della sua manifestazione nel lavoro per
organizzare il Partito D’Azione in cui confluirà il vecchio nucleo
torinese di GL e nella partecipazione alla Resistenza romana fino al
sacrificio estremo. Costante è nel corso di tale lavoro la sua battaglia
contro l’ala conservatrice, moderata del PdA cui egli contrappone la
sua idea rivoluzionaria di antifascismo, nel corso della crisi del
luglio e settembre del ’43: ferma è in lui l’idea che il cambiamento non
potrà consistere in un mero cambio di regime ma in una trasformazione
profonda della società e dello stato italiani, una trasformazione di
carattere appunto rivoluzionario.
Non a caso, proprio mentre con la caduta di Mussolini il sogno di
un’Italia libera sembra più vicino e realizzabile egli ridefinisce la
sua idea di rivoluzione a partire dal suo rapporto con la tradizione
italiana. Il suo lavoro culturale ritorna con forza sui temi a lui cari
del Risorgimento come rivoluzione mancata. A Torino, nel settembre ’43
si mostra entusiasta del progetto di Alessandro Galante Garrone di un
lavoro di su Mazzini, Buonarroti e la Giovine Italia: e Mazzini non a
caso è al centro di un lavoro di Ginzburg sul Risorgimento in cui il
grande genovese non vi appare soltanto come il profeta dell’Italia,
avversario irriducibile del giobertismo come di ogni deteriore
machiavellismo ma anche come il dirigente e il combattente politico in
grado di coniugare realisticamente tattica e strategia, caratterizzato
“da una singolare attitudine ad isolare e mettere a fuoco, di volta in
volta, il problema più importante e più urgente, e per la soluzione di
quello stabilire momentanee alleanze che lo avviassero a soluzione, pur
conservando una piena libertà d’atteggiamento rispetto ai problemi
tenuti in serbo per l’avvenire.”
Le osservazioni di Galante Garrone sulle possibili prospettive
degli studi sul Risorgimento italiano e sulle sue origini rivoluzionarie
nel corso dello stesso colloquio con Ginzburg appena ricordato
richiamano non a caso alcuni dei riferimenti storici e teorici
fondamentali della ricerca e dell’opera di quest’ultimo,
dall’illuminismo destinato a diventare tema di ricerca storica di un
altro grande intellettuale torinese di Giustizia e Libertà come Franco
Venturi, al federalismo modernizzatore di Carlo Cattaneo al pensiero
democratico e repubblicano di Giuseppe Mazzini. Ma ancora una volta,
proprio quando il suo pensiero e il suo lavoro culturale si
intensificano attorno a nuove grandi idee e progetti, si intensifica
parallelamente la lotta politica fino ad assorbirlo totalmente. A Roma,
nel periodo immediatamente precedente il suo arresto e quindi la sua
morte, che lo vede dirigere con Muscetta, Fancello e Rossi Doria,
“L’Italia Libera”, destinato a diventare l’organo del PdA, Ginzburg è
ormai un dirigente politico a tempo pieno, totalmente immerso nella
costruzione dell’organizzazione. L’antifascista intellettuale e borghese
che si è fatto dirigente politico, rivela adesso, nel fuoco di una
lotta tremenda e decisiva per i destini dell’Italia e dell’Europa, la
sua vocazione più vera e profonda, quella cui più intimamente si lega il
suo “sogno” di una “Italia libera”.
(1 giugno 2020)
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