sabato 13 giugno 2020

Il futuro del lavoro negli Usa dopo la pandemia

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La crisi originata dalla pandemia, e non adeguatamente affrontata dal governo, potrebbe gettare nella più totale miseria circa il 35 per cento della popolazione statunitense. Conseguenze spaventose, che non potranno non avere effetti sulle prossime presidenziali.

di Fabrizio Tonello
Fino a mercoledì scorso la Borsa di New York pensava, non del tutto a torto, che ciò che accadeva nell’economia reale non la riguardasse affatto: viti e bulloni, tavoli e sedie, automobili e biciclette stavano su un altro pianeta per chi guardava unicamente ad Amazon o alla corsa ai vaccini (visti come una fonte di contratti miliardari con il governo, non come uno strumento di salvezza per la gente).

Poi è arrivato Jerome H. Powell, il presidente della Federal Reserve, che ha ricordato ai trader che il il mondo delle cose esiste, che il Covid-19 ha fatto circa 120.000 morti, con nuovi focolai in Arizona e parecchi altri stati e che la recessione potrebbe durare per anni: “Ci sarà una parte significativa dei lavoratori” –ha detto Powell- “che non potranno tornare al loro vecchio lavoro e potrebbe non esserci un lavoro nel loro settore per un po’ di tempo”.

Nel linguaggio felpato dei banchieri “per un po’ di tempo” vuol dire “anni e anni” e questo a chi guarda solo e soltanto ai profitti trimestrali non piace affatto. Giovedì, il Dow Jones ha perso 1861 punti, il 6,9%, mettendo fine, almeno per ora, a una spettacolare ascesa dopo il panico di marzo: fra il 23 marzo e l’8 giugno la Borsa aveva guadagnato il 50%, sfiorando il livello storico raggiunto in febbraio dopo anni di espansione e tagli fiscali. L’Institute for Policy Studies aveva calcolato che fra il primo gennaio e il 10 aprile scorso 170 miliardari avevano aumentato il loro patrimonio di 434 miliardi di dollari, con i fondatori di Amazon e di Facebook a fare la parte del leone. Prevedibilmente, Eric Yuan, il padrone di Zoom, ha profittato largamente del successo della piattaforma di videoconferenze che ormai tutti usano anche in Italia.

Gran parte del merito di questa corsa all’oro andava ovviamente ai piani di salvataggio varati in gran fretta dal Congresso in aprile, distribuendo miliardi di dollari come se fossero noccioline, ma nello stesso periodo 44 milioni di lavoratori americani perdevano il lavoro: la Federal Reserve di Saint Louis, al 7 maggio aveva calcolato che il “vero” tasso di disoccupazione negli Stati Uniti si aggirava intorno al 25%, cioè al massimo raggiunto dopo tre anni della crisi catastrofica del 1929. Nel 2020 è stato raggiunto in due mesi e mezzo con circa 40 milioni di richieste di sussidi di disoccupazione, tra cui 1,5 annunciati dal Bureau of Labor Statistics appunto giovedì.

La recessione colpisce in maniera sproporzionata le minoranze etniche e, secondo l’economista William Darity, della Duke University, “le disuguaglianze non potranno che peggiorare”. La seconda ondata della pandemia sta già colpendo i lavoratori a contatto con il pubblico: infermieri, insegnanti, baristi, camerieri, commessi, postini, parrucchieri. Ci sono già effetti devastanti sul reddito tanto più che il 40% delle famiglie americane non ha 400 dollari in banca per far fronte a un’emergenza improvvisa. Questo significa che quasi metà della popolazione americana, cioè 150 milioni di persone, non ha nessun mezzo per far fronte a un momento di difficoltà come il licenziamento e rischia la perdita della casa perché non è in grado di pagare l’affitto o le rate del mutuo.

Non solo: ci sono interi settori produttivi che sono focolai di infezione: pensiamo ai lavoratori degli impianti di trasformazione delle carni, un settore concentrato, negli Stati Uniti, nelle mani di una mezza dozzina multinazionali come Smithfield Foods, Tyson Foods, e poche altre, costretti in base a una legge della guerra di Corea, concepita per le fabbriche di munizioni e riesumata dall’amministrazione Trump, ad andare a lavorare in stabilimenti che sono dei focolai del virus e licenziati se rifiutano.

Gli stabilimenti di questo tipo sono luoghi infetti e pericolosi: gli operai lavorano in piedi, fianco a fianco, sulla linea di produzione, la cui velocità è stata aumentata. Anche la durata dei turni giornalieri è stata allungata e le pause non sono state scaglionate, per cui i lavoratori si affollano nella caffetteria senza poter rispettare una distanza minima tra loro. Sono migliaia gli gli operai colpiti dal Coronavirus in 70 stabilimenti in 26 stati americani. Prima dell’editto di Trump, richiesto a gran voce dalla multinazionale Tyson Foods erano una ventina gli impianti chiusi a causa del diffondersi del virus. L’aumento dei casi in stati dove si concentra la produzione, come Iowa e South Dakota non ha bisogno di ulteriori commenti.

I primi a essere colpiti sono i lavoratori “informali”, i migranti, gli stagionali: quell’enorme fetta dell’economia sommersa che dà da vivere a decine di milioni di persone negli Stati Uniti e 1,6 miliardi su scala mondiale. Quando noi pensiamo al lavoro nero ci viene in mente l’idraulico che non fa la fattura, o il ristorante che non dà la ricevuta fiscale, ma la realtà è che interi continenti, dall’Africa all’America Latina, vivono di quello. Un paio di settimane fa, l’Organizzazione Mondiale del Lavoro, un’agenzia dell’ONU, ha diffuso le sue stime: il solo primo mese della pandemia ha ridotto i guadagni dei lavoratori informali di oltre l’80%. Il tasso di povertà relativa aumenterà del 21% nei paesi a reddito medio-alto, il che per gli Stati Uniti significherebbe gettare nella miseria il 35% della popolazione.

Non sappiamo quale sarà la situazione fra quattro mesi e mezzo, quando si voterà per la presidenza e per il Congresso. Però possiamo facilmente immaginare che ci sarà un ulteriore rafforzamento dei giganti, a cominciare da Amazon, a danno degli operatori piccoli e medi. Le piattaforme come Zoom e le aziende farmaceutiche in corsa per trovare un vaccino sono triplicate di valore in borsa e hanno resistito anche alle perdite di giovedì. Le aziende familiari, in particolare bar e ristoranti, saranno in buona parte spazzate via. Librerie e piccoli negozi scompariranno, a vantaggio di Netflix e del commercio on line, mentre i servizi sociali dovranno fare i conti con bilanci statali e comunali travolti dai debiti. La sola California ha speso 26,2 miliardi di dollari in aiuti dall’inizio della pandemia: giovedì ha annunciato che stava cercando di assumere 4.800 persone per far fronte alla marea montante delle richieste di indennità di disoccupazione.

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