giovedì 4 giugno 2020

Il “divieto di assembramento” è più pericoloso del “distanziamento sociale”

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Paolo Becchi

manifestazione ristoratori milanoL’espressione che sinora è stata più usata in relazione al pericolo del contagio è “distanziamento sociale”. Tutti noi abbiamo sperimentato e sperimentiamo ancora cosa questo significhi. Per non contagiare c’è bisogno di un preservativo specifico, la “mascherina”, ma neppure questa per il nuovo virus – a differenza di quanto il preservativo vero faceva per l’HIV – basta. Ci vuole almeno un metro di distanza tra i corpi. Anche un bacio con la mascherina tra fidanzati o un abbraccio sono vietati perché non è stato rispettato il metro di distanza. Lavorare in fabbrica con la mascherina alla lunga creerà problemi di salute agli operai, ma pazienza questa è la vita. E non basta ancora: i corpi non sono liberi di spostarsi neppure mantenendo la distanza. Non posso andare da Genova a Milano da solo in macchina se non con permessi speciali. Le assurdità di queste disposizioni, tanto più quando l’emergenza è inesistente, sono evidenti. E non è il caso di insistervi ulteriormente.
È passato invece in secondo piano un aspetto più specifico del distanziamento: l’assembramento. Vietato ovviamente allo stesso modo del distanziamento. E se il distanziamento sociale limita, certamente, la libertà personale, la libertà di movimento e di circolazione, l’assembramento viola in modo diretto l’art. 17 della Costituzione, che stabilisce che «i cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso».

Questo diritto fondamentale violato lo hanno chiamato “assembramento” –, così l’art. 1 del DPCM del 9 Marzo scorso, che dispone: «sull’intero territorio nazionale è vietata ogni forma di assembramento di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico». Non hanno detto “riunione”, per due ragioni: da una parte, per rendere meno immediato, agli occhi delle persone, il fatto che, con tale disposizione, ad essere limitato è un diritto fondamentale previsto dalla Costituzione; dall’altra, perché, rispetto a “riunione”, “assembramento” veicola il significato – negativo – di “affollamento”, di qualcosa di disordinato e di pericoloso. Ma, giuridicamente, vietare “ogni forma di assembramento” significa vietare ogni forma di riunione. Se ci si pensa, è un divieto ancora più lesivo di quello del distanziamento. Potremmo definirla la “strategia della tensione sanitaria”. E con 33. 000 morti circa sta avendo successo.
Nel distanziamento io sono obbligato a tenere le distanze da altri individui;
nel divieto di assembramento non bastano neppure le distanze e neppure l’uso della mascherina.
Il soffocamento della libertà di riunirmi con più cittadini per manifestare il dissenso non riesce neppure a nascondersi dietro il pericolo del contagio. È un controllo totale sulla vita pubblica dei cittadini. Dalla sua il governo può sempre dire che questo viene paternalisticamente fatto “per il bene dei cittadini”, meno comprensibile è che le opposizioni abbiano accettato senza grandi proteste le violazioni delle libertà individuali che ci sono state e continuano in parte ad esserci, compresa questa ultima. Fino a quando potrà continuare questa situazione? Anche la campagna elettorale in vista delle elezioni regionali di settembre sarà subordinata al divieto di assembramento in tutti i luoghi pubblici? Saranno ammesse manifestazioni a condizioni che si evitino contatti e solo se in “forma statica” e dunque senza cortei, come previsto dalle leggi fasciste di pubblica sicurezza del 1931? A questo siamo letteralmente tornati. Che dire? Possiamo solo sperare che alla soglia dell’invivibilità irrompa spontaneamente la necessità di vivere e non solo di sopravvivere. Possiamo solo sperare in atto collettivo liberatorio da regole fasciste che sono una offesa alla democrazia.
Vorrei toccare un altro aspetto, da un punto di vista filosofico sicuramente più interessante e profondo. L’assembramento è vietato non solo nelle piazze, ma anche nelle chiese. Tocca così anche la libertà religiosa. Perché impedire messe e funerali – anche se oggi c’è qualche apertura al riguardo – pur nel rispetto delle distanze fisiche tra le persone? Non è facile rispondere a questa domanda. Il contagio qui non c’entra o c’entra poco. Contro il dispotismo dei virologi e ancor più del tecnoscientismo dominante, la Chiesa, con l’idea del “corpo di Cristo”, era l’ultimo ostacolo, il katechon, il potere che mette un freno all’apocalisse. Ma lo gnosticismo ha finito con il prendersi la sua rivincita. Il disprezzo del corpo vivo o morto, in fondo, è un tema gnostico essenziale, come ha magistralmente dimostrato Hans Jonas: il corpo è il male, per la gnosi, è qualcosa che deve essere abbandonato, disprezzato.
Il nichilismo gnostico del mondo tardo antico e il nichilismo scientistico della tarda modernità pensano a partire dallo stesso movimento: nel corpo non c’è nulla di sacro, nulla che trascenda la “materia” di cui è fatto; il corpo non è nient’altro che un contenitore inerte. La vita abita «come un’estranea nel corpo», il quale «in verità è un cadavere»: se vive, se sembra vivere, è solo per la presenza – estrinseca e temporanea – di qualcosa che lo trascende, ossia l’anima. Così Jonas, in Organismo e libertà, ricorda il tema già orfico del soma-sema, del corpo come tomba. Il Comitato tecnico scientifico del governo terapeutico ha portato a compimento mirabilmente questo motivo “gnostico”: i corpi dei malati sono già dei cadaveri, in attesa di essere portati via e bruciati, ridotti a cenere, senza conforti religiosi. Nessuna traccia deve rimanere dei corpi. Nei primi secoli dopo Cristo la teologia riuscì a sconfiggere il nichilismo gnostico con una sintesi totalizzante di fede cristiana e platonismo, oggi la teologia è morta e la filosofia non sta tanto bene.
Per la verità Papa Francesco aveva intuito il pericolo, per un attimo – nell’omelia del 17 aprile scorso – quando aveva denunciato il «pericolo che in questo momento che stiamo vivendo, questa pandemia che ha fatto che tutti ci comunicassimo anche religiosamente attraverso i media, attraverso i mezzi di comunicazione»: questo «stiamo insieme, ma non insieme», egli ricordava, rischia di andare verso una «familiarità gnostica, staccata dal popolo di Dio». Parole sante, a cui però ha fatto subito seguito un silenzio accomodante. E così anche la Chiesa ha per mesi rinunciato ad essere il “corpo di Cristo”.
Ad essere colpiti siamo tutti quanti, non la Chiesa soltanto, ma l’intera società. Staremo “insieme, ma non insieme”: è questo il destino che ci attende? Monadi “in forma statica” che nichilisticamente hanno preso il posto della Monade?

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