lunedì 1 giugno 2020

Gli afroamericani non possono che insorgere

Non sembra placarsi la rabbia scaturita dopo l’omicidio da parte della polizia di Minneapolis dell’afro-americano George Floyd lo scorso lunedì. 


Da quando sono iniziate le mobilitazioni sono almeno 75 le città coinvolte, e due dozzine hanno proclamato il “coprifuoco” per domenica sera dopo le mobilitazioni di sabato. San Francisco, Atlanta e Filadelfia sono tra le città che hanno dichiarato coprifuoco.
Non si registrava un numero così elevato di provvedimenti di questo genere dalla morte del leader afro-americano Martin Luther King, nel 1968.
L’uccisione del reverendo fu uno spartiacque per la società nord-americana ed un giro di boa che di fatto decretò la fine della pratica della “non-violenza” da parte del movimento afro-americano, la ripresa della difesa armata come strategia che lo caratterizzerà e lo sviluppo delle maggiori esperienze organizzative “nere” degli anni avvenire.

Molti amministratori locali chiedono il supporto della Guardia Nazionale per dare “man forte” alla polizia territoriale, come nel caso di Los Angeles, dove sono stati chiamati ad intervenire tra le 500-700 unità della National Guard al fianco dei 10 mila agenti della LAPD. O di Seattle, nello stato di Washington, dove opereranno 200 NG. Il Texas ha dichiarato lo “State of Disaster” che consente ad agenti federali di svolgere funzioni di polizia. mentre sono rimasti feriti 60 agenti del Secret Service a protezione della Casa bianca.
Ormai sono 5 le persone morte per eventi legati alle proteste.
Gli appelli alla calma di parte degli eletti, comunque a parole “sensibili” alla questione delle ingiustizie razziali, sembrano per ora legittimamente inascoltati tenendo conto che l’alzarsi della tensione ha nuovamente posto con forza la questione della giustizia razziale, spingendo al licenziamento degli agenti coinvolti e all’imputazione di “omicidio di terzo grado” per Derek Chavin.
Pace, non pazienza”, è stata l’espressione usata dal sindaco di St. Paul, Malivin Carter, ripresa da altri. L’esatto contrario di ciò che grida la piazza, quel “No justice, No Peace” che riecheggia dopo quasi trent’anni dall’ultima insurrezione urbana della storia statunitense, avvenuta a Los Angeles nel 1992, che ha preceduto l’ultimo ciclo di proteste di circa 5 anni fa da Ferguson a Baltimora.
Trump ed una parte dell’establishment invece non fanno che gettare benzina sul fuoco etichettando come “terroriste” le esperienze organizzative – tra cui gli “antifa” – che invitano a partecipare alle proteste. Gli fa eco l’Attorney General William P. Barr, che classifica come “terrorismo domestico” le sommosse che avvengono al calar del sole nelle metropoli nord-americane.
Per cercare di comprendere al meglio le ragioni dell’attuali proteste abbiamo tradotto un intervento della studiosa ed attivista afro-americana Keeanga-Yamahtta Taylor apparso sul New York Times: “Of Course There Are Protest. The State Is Failing Black People”.
K-YT è assistant professor di studi afro-americani all’università di Princeton, nonché prolifica autrice di importanti testi, che spaziano dal movimento afro-americano al femminismo nero, fino alla condizione urbana del proletariato “di colore”, che purtroppo non sono stati tradotti in italiano.
Il suo testo più rilevante è forse “#BlackLivesMatter to Black Liberation”, pubblicato nel 2016 dalla Haymarket Books, in cui fornisce una delle chiavi di lettura più interessanti del movimento #BlackLivesMatter.
Il suo è un atto d’accusa contro il fallimento della Stato e contro l’ipocrisia dell’establishment democratico, nonché una lucidissima spiegazione di come storicamente l’unica strada percorribile per il cambiamento della condizione afro-americana sia prendere il destino nelle proprie mani.
Buona Lettura

Pronti o no, negli Stati Uniti la vita sta tornando alla normalità e la normalità include inevitabilmente che dei poliziotti uccidano un afroamericano disarmato in loro custodia, omicidio a cui seguono delle proteste. 
Il Paese sta cercando di tornare alla sua routine quotidiana.
Questa volta è Minneapolis. Migliaia di persone sono scese in strada per protestare contro l’uccisione di George Floyd da parte di un poliziotto che ha schiacciato il suo ginocchio sul collo di Floyd per otto minuti mozzandogli il fiato, mentre lui era bloccato a terra ammanettato. 
Le richieste di aiuto di Floyd, che ripeteva di non riuscire a respirare, chiamando la sua defunta madre, sono state ignorate. 
Gli altri tre poliziotti che stavano a guardare sembravano del tutto indifferenti al fatto che una vita stesse spirando di fronte alla folla inorridita.
I politici eletti in Minnesota hanno condannato la brutalità. Jacob Frey, il sindaco di Minneapolis, ha dichiarato: “essere neri in America non può essere una condanna a morte”. Altri, inclusa la senatrice Amy Klobuchar, che spera di farsi strada come candidata alla vicepresidenza di Joe Biden hanno espresso una carrellata di emozioni che sono diventate un luogo comune: shock, orrore, promesse di indagini e inviti a mantenere la calma. 
Per punizione, fatto raro in questi casi, i quattro poliziotti coinvolti sono stati licenziati.
Ma il fatto stesso che Floyd sia stato arrestato, senza contare l’omicidio, per un crimine insignificante come una banconota falsa durante una pandemia che ha ucciso un afroamericano su duemila è l’agghiacciante dimostrazione che le vite delle persone nere ancora non valgono negli Stati Uniti.
È facile capire la risposta delle manifestazioni multietniche a Minneapolis. 
(Se guardate bene, centinaia di bianchi stanno partecipando, le ingiustizie che si intrecciano sono chiare anche ai loro occhi). 
In questa stagione primaverile sono almeno ventitremila le morti legate al coronavirus nell’America nera. Il virus si è fatto strada nelle comunità nere, mettendo in luce e accelerando le disuguaglianze sociali ben radicate che hanno fatto degli afroamericani i più vulnerabili alla malattia.
Questo inaccettabile perdita è accaduta quando le restrizioni erano al loro massimo e il distanziamento sociale era nella fase più estrema. Cosa succederà quando la nazione riaprirà del tutto, anche se i numeri del coronavirus continuano a crescere?
Mentre la maggior parte dei pubblici ufficiali bianchi prova a far tornare le cose alla normalità il più velocemente possibile, le discussioni sulle conseguenze devastanti della pandemia sulle persone nere si sono dissolte sullo sfondo, conseguenze che sono diventate la “nuova normalità” con cui vivere o morire.
Se anche ci fossero stati dei dubbi sul fatto che sia i poveri che la classe lavoratrice afroamericana fosse sacrificabile o meno, ora non ce ne sono più. È chiaro che la violenza di stato non è solo appannaggio della polizia.
Non è solo la percentuale più alta di morti che ha alimentato la rabbia, ma anche casi resi pubblici di afroamericani a cui è stata negata l’assistenza sanitaria perché infermieri e medici non credevano a quello che raccontavano sui loro sintomi. Questo è esattamente esasperante come l’assunto che gli afroamericani abbiano delle responsabilità personali per le loro morti in percentuali così sproporzionate.
Invece di sfruttare questa enorme crisi per cambiare le condizioni che hanno portato al numero impressionante di morti di afroamericani, agenti armati dallo stato continuano la loro politica meschina e gretta. Perfino le istruzioni che sembrano innocue sul distanziamento sociale diventano nuove scuse usate dalla polizia per molestare e infastidire gli afroamericani.
A New York gli afroamericani sono il 93% degli arresti relativi al coronavirus. Ci sono disparità etniche simili anche a Chicago. Nel momento in cui i dipartimenti di polizia hanno assicurato di arrestare meno persone per interrompere il contagio nelle prigioni locali e in nome della salute pubblica, gli afroamericani rimangono nel mirino. Del resto, perché la polizia stava arrestando George Floyd per una banconota falsa, un “crimine” di povertà commesso da un lavoratore a basso reddito disperato?
Quando manifestanti bianchi, armati fino ai denti in Michigan e da altre parti, minacciano i politici locali, il presidente li considera “bravissime persone” e molto spesso sono lasciati in pace. Sicuramente non sono uccisi strangolati nel mezzo della strada.
Al contrario, dopo che il governatore del Minnesota ha attivato la guardia nazionale giovedì sera, il presidente ha suggerito che si può sparare contro coloro che osano protestare contro la brutalità della polizia. I manifestanti di Minneapolis sono stati accolti da gas lacrimogeni e proiettili sparati dalla polizia, anche se molti politici sostengono di comprendere la loro rabbia.
Questo doppio standard è uno dei motivi dei tumulti ed è anche la ragione per cui il potenziale di queste rivolte esiste in ogni città.
La rabbia che esplode nelle strade è radicata molto più a fondo delle ovvie ipocrisie del trattamento diverso riservato ai manifestanti bianchi e conservatori rispetto alla folla multietnica che si oppone alla brutalità della polizia. Nelle ultime settimane è stato registrato l’omicidio di Ahmaud Arbery in Georgia, la feroce sparatoria della polizia di Louisville contro Breonna Taylor e l’uccisione di Tony McDade, un uomo trans nero, da parte di poliziotti a Tallahassee.
Questi casi erano stati ignorati finché il grido di protesta ha imposto alla nazione di prestare attenzione, anche se l’opinione pubblica era stata incollata ai telegiornali fino a quel momento a causa dell’ordine di stare a casa. Nel mentre, c’è stato il caso, altamente pubblicizzato di una donna bianca che ha chiamato la polizia a Central Park contro un afroamericano che le chiedeva di tenere il cane al guinzaglio. Le potenziali conseguenze di quella chiamata sono rese chiare da quello che è successo a George Floyd.
Ma ciò che è innegabile nelle proteste aspre a Minneapolis e nel Paese è il senso che lo Stato è o complice o incapace di imprimere un cambio effettivamente sostanziale.
Mentre il candidato presidente per i democratici scherza sul fatto che gli afroamericani che non votano per lui non sono veri afroamericani, la crisi nelle comunità nere sembra più acuta e si sovrappone con episodi di violenza della polizia o altre espressioni del potere oppressivo dello stato quasi quotidiani.
Joe Biden pensava fosse uno scherzo che gli avrebbe permesso di mostrarsi come un insider nella comunità afroamericana. Invece l’ha fatto apparire un arrogante che pensa di appartenere alla classe dei giovani o dei lavoratori afroamericani.
È apparso come ogni altro politico ricco che non è riuscito a cogliere l’enormità delle sfide. Il simultaneo collasso della politica e del governo ha spinto le persone a scendere in strada – a scapito della loro salute e della salute degli altri – per chiedere le più basilari necessità della vita, incluso il diritto di essere liberi dalle persecuzioni della polizia o dall’omicidio.
Quali sono le alternative alla protesta quando lo Stato non riesce a svolgere le mansioni di base e quando poliziotti banditi raramente vengono bacchettati per crimini che vengono puniti con anni di prigione per i cittadini normali?
Se non puoi ottenere giustizia all’interno del sistema, allora devi cercare altri mezzi per cambiarlo. Questo non è un desiderio, è una premonizione. La convergenza di questi tragici eventi – una pandemia che ha ucciso sproporzionatamente afroamericani, il fallimento dello Stato nel proteggere i cittadini neri e la caccia agli Afro-Americani da parte della polizia – ha confermato ciò che molti di noi sapevano già: se noi e chi sta con noi non ci mobilitiamo in nostra difesa, nessun ente ufficiale lo farà mai.
Giovani afroamericani devono sopportare le contusioni causate dai proiettili di gomma o dall’acre bruciore dei gas lacrimogeni perché il governo ci ha abbandonato, black lives matter solo perché le facciamo valere noi. Non c’è nulla nuovo nella nostra storia.
Dopo la Seconda guerra mondiale, gli afroamericani che vivevano in città videro le contraddizioni di una società che manda un uomo sulla luna ma permette che i topi mordano i bambini Afro-Americani nelle loro culle la notte. Il governo federale assicurò abitazioni sotto gli standard assegnate agli Afro-Americani per mantenere la segregazione residenziale. Dovunque gli afroamericani guardassero, lo Stato non solo era sordo ai loro bisogni ma un complice del crimine.
Questo è stato la causa delle sollevazioni urbane che hanno spazzato le città della nazione negli anni 60, la stessa epoca del movimento dei diritti civili nel sud. Il fallimento dello Stato nel concedere un qualunque diritto gli Afro-Americani chiedessero ha lasciato centinaia di migliaia a dover fare da soli. Non importava allora, e non importa ora, se la società bianca approva o disapprova, quello che conta è che il meccanismo formale per il cambiamento sociale ha fallito, spingendo gli Afro-Americani ad agire a loro tutela.
Sei anni fa, le proteste di Ferguson hanno posto le basi per la nascita del movimento black lives matter, che è radicato in simili disuguaglianze sociali. Fu paradossale che il nuovo movimento emerse all’ombra del primo presidente afroamericano e alla presenza di più afroamericani al congresso di quanti ce ne siano mai stati prima.
Comunque, la presenza di così tanto potere politico nero non aveva fermato la brutalità quotidiana della polizia. Così come non ha potuto fermare il collasso della proprietà di case degli afroamericani, l’allargamento del gap del benessere fra etnie o il debito dato dai prestiti per gli studenti che ha messo il giogo alla storia debitoria dei black millennials.
Non importava se le aspettative erano troppo grandiose per ciò che un presidente nero avrebbe potuto ottenere. Ciò che importava era che il governo aveva sostanzialmente fallito nel fare la differenza nelle vite delle persone, gli afroamericani protestavano per far sì che black lives matter.

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