Non
sembra placarsi la rabbia scaturita dopo l’omicidio da parte della
polizia di Minneapolis dell’afro-americano George Floyd lo scorso
lunedì.
Da quando sono iniziate le mobilitazioni sono almeno 75 le città
coinvolte, e due dozzine hanno proclamato il “coprifuoco” per domenica
sera dopo le mobilitazioni di sabato. San Francisco, Atlanta e
Filadelfia sono tra le città che hanno dichiarato coprifuoco.
Non
si registrava un numero così elevato di provvedimenti di questo genere
dalla morte del leader afro-americano Martin Luther King, nel 1968.
L’uccisione
del reverendo fu uno spartiacque per la società nord-americana ed un
giro di boa che di fatto decretò la fine della pratica della
“non-violenza” da parte del movimento afro-americano, la ripresa della
difesa armata come strategia che lo caratterizzerà e lo sviluppo delle
maggiori esperienze organizzative “nere” degli anni avvenire.
Molti
amministratori locali chiedono il supporto della Guardia Nazionale per
dare “man forte” alla polizia territoriale, come nel caso di Los
Angeles, dove sono stati chiamati ad intervenire tra le 500-700 unità
della National Guard al fianco dei 10 mila agenti della LAPD. O di
Seattle, nello stato di Washington, dove opereranno 200 NG. Il Texas ha
dichiarato lo “State of Disaster” che consente ad agenti federali
di svolgere funzioni di polizia. mentre sono rimasti feriti 60 agenti
del Secret Service a protezione della Casa bianca.
Ormai sono 5 le persone morte per eventi legati alle proteste.
Gli
appelli alla calma di parte degli eletti, comunque a parole “sensibili”
alla questione delle ingiustizie razziali, sembrano per ora
legittimamente inascoltati tenendo conto che l’alzarsi della tensione ha
nuovamente posto con forza la questione della giustizia razziale,
spingendo al licenziamento degli agenti coinvolti e all’imputazione di
“omicidio di terzo grado” per Derek Chavin.
“Pace, non pazienza”,
è stata l’espressione usata dal sindaco di St. Paul, Malivin Carter,
ripresa da altri. L’esatto contrario di ciò che grida la piazza, quel
“No justice, No Peace” che riecheggia dopo quasi trent’anni dall’ultima
insurrezione urbana della storia statunitense, avvenuta a Los Angeles
nel 1992, che ha preceduto l’ultimo ciclo di proteste di circa 5 anni fa
da Ferguson a Baltimora.
Trump ed una parte dell’establishment
invece non fanno che gettare benzina sul fuoco etichettando come
“terroriste” le esperienze organizzative – tra cui gli “antifa” – che
invitano a partecipare alle proteste. Gli fa eco l’Attorney General
William P. Barr, che classifica come “terrorismo domestico” le sommosse
che avvengono al calar del sole nelle metropoli nord-americane.
Per
cercare di comprendere al meglio le ragioni dell’attuali proteste
abbiamo tradotto un intervento della studiosa ed attivista
afro-americana Keeanga-Yamahtta Taylor apparso sul New York Times: “Of Course There Are Protest. The State Is Failing Black People”.
K-YT è assistant professor
di studi afro-americani all’università di Princeton, nonché prolifica
autrice di importanti testi, che spaziano dal movimento afro-americano
al femminismo nero, fino alla condizione urbana del proletariato “di
colore”, che purtroppo non sono stati tradotti in italiano.
Il suo testo più rilevante è forse “#BlackLivesMatter to Black Liberation”,
pubblicato nel 2016 dalla Haymarket Books, in cui fornisce una delle
chiavi di lettura più interessanti del movimento #BlackLivesMatter.
Il
suo è un atto d’accusa contro il fallimento della Stato e contro
l’ipocrisia dell’establishment democratico, nonché una lucidissima
spiegazione di come storicamente l’unica strada percorribile per il
cambiamento della condizione afro-americana sia prendere il destino
nelle proprie mani.
Buona Lettura
Il Paese sta cercando di tornare alla sua routine quotidiana.
Questa
volta è Minneapolis. Migliaia di persone sono scese in strada per
protestare contro l’uccisione di George Floyd da parte di un poliziotto
che ha schiacciato il suo ginocchio sul collo di Floyd per otto minuti
mozzandogli il fiato, mentre lui era bloccato a terra ammanettato.
Le
richieste di aiuto di Floyd, che ripeteva di non riuscire a respirare,
chiamando la sua defunta madre, sono state ignorate.
Gli altri tre
poliziotti che stavano a guardare sembravano del tutto indifferenti al
fatto che una vita stesse spirando di fronte alla folla inorridita.
I
politici eletti in Minnesota hanno condannato la brutalità. Jacob Frey,
il sindaco di Minneapolis, ha dichiarato: “essere neri in America non
può essere una condanna a morte”. Altri, inclusa la senatrice Amy
Klobuchar, che spera di farsi strada come candidata alla vicepresidenza
di Joe Biden hanno espresso una carrellata di emozioni che sono
diventate un luogo comune: shock, orrore, promesse di indagini e inviti a
mantenere la calma.
Per punizione, fatto raro in questi casi, i quattro
poliziotti coinvolti sono stati licenziati.
Ma
il fatto stesso che Floyd sia stato arrestato, senza contare
l’omicidio, per un crimine insignificante come una banconota falsa
durante una pandemia che ha ucciso un afroamericano su duemila è
l’agghiacciante dimostrazione che le vite delle persone nere ancora non
valgono negli Stati Uniti.
È
facile capire la risposta delle manifestazioni multietniche a
Minneapolis.
(Se guardate bene, centinaia di bianchi stanno
partecipando, le ingiustizie che si intrecciano sono chiare anche ai
loro occhi).
In questa stagione primaverile sono almeno ventitremila le
morti legate al coronavirus nell’America nera. Il virus si è fatto
strada nelle comunità nere, mettendo in luce e accelerando le
disuguaglianze sociali ben radicate che hanno fatto degli afroamericani i
più vulnerabili alla malattia.
Questo
inaccettabile perdita è accaduta quando le restrizioni erano al loro
massimo e il distanziamento sociale era nella fase più estrema. Cosa
succederà quando la nazione riaprirà del tutto, anche se i numeri del
coronavirus continuano a crescere?
Mentre
la maggior parte dei pubblici ufficiali bianchi prova a far tornare le
cose alla normalità il più velocemente possibile, le discussioni sulle
conseguenze devastanti della pandemia sulle persone nere si sono
dissolte sullo sfondo, conseguenze che sono diventate la “nuova
normalità” con cui vivere o morire.
Se
anche ci fossero stati dei dubbi sul fatto che sia i poveri che la
classe lavoratrice afroamericana fosse sacrificabile o meno, ora non ce
ne sono più. È chiaro che la violenza di stato non è solo appannaggio
della polizia.
Non
è solo la percentuale più alta di morti che ha alimentato la rabbia, ma
anche casi resi pubblici di afroamericani a cui è stata negata
l’assistenza sanitaria perché infermieri e medici non credevano a quello
che raccontavano sui loro sintomi. Questo è esattamente esasperante
come l’assunto che gli afroamericani abbiano delle responsabilità
personali per le loro morti in percentuali così sproporzionate.
Invece
di sfruttare questa enorme crisi per cambiare le condizioni che hanno
portato al numero impressionante di morti di afroamericani, agenti
armati dallo stato continuano la loro politica meschina e gretta.
Perfino le istruzioni che sembrano innocue sul distanziamento sociale
diventano nuove scuse usate dalla polizia per molestare e infastidire
gli afroamericani.
A
New York gli afroamericani sono il 93% degli arresti relativi al
coronavirus. Ci sono disparità etniche simili anche a Chicago. Nel
momento in cui i dipartimenti di polizia hanno assicurato di arrestare
meno persone per interrompere il contagio nelle prigioni locali e in
nome della salute pubblica, gli afroamericani rimangono nel mirino. Del
resto, perché la polizia stava arrestando George Floyd per una banconota
falsa, un “crimine” di povertà commesso da un lavoratore a basso
reddito disperato?
Quando
manifestanti bianchi, armati fino ai denti in Michigan e da altre
parti, minacciano i politici locali, il presidente li considera
“bravissime persone” e molto spesso sono lasciati in pace. Sicuramente
non sono uccisi strangolati nel mezzo della strada.
Al
contrario, dopo che il governatore del Minnesota ha attivato la guardia
nazionale giovedì sera, il presidente ha suggerito che si può sparare
contro coloro che osano protestare contro la brutalità della polizia. I
manifestanti di Minneapolis sono stati accolti da gas lacrimogeni e
proiettili sparati dalla polizia, anche se molti politici sostengono di
comprendere la loro rabbia.
Questo
doppio standard è uno dei motivi dei tumulti ed è anche la ragione per
cui il potenziale di queste rivolte esiste in ogni città.
La
rabbia che esplode nelle strade è radicata molto più a fondo delle
ovvie ipocrisie del trattamento diverso riservato ai manifestanti
bianchi e conservatori rispetto alla folla multietnica che si oppone
alla brutalità della polizia. Nelle ultime settimane è stato registrato
l’omicidio di Ahmaud Arbery in Georgia, la feroce sparatoria della
polizia di Louisville contro Breonna Taylor e l’uccisione di Tony
McDade, un uomo trans nero, da parte di poliziotti a Tallahassee.
Questi
casi erano stati ignorati finché il grido di protesta ha imposto alla
nazione di prestare attenzione, anche se l’opinione pubblica era stata
incollata ai telegiornali fino a quel momento a causa dell’ordine di
stare a casa. Nel mentre, c’è stato il caso, altamente pubblicizzato di
una donna bianca che ha chiamato la polizia a Central Park contro un
afroamericano che le chiedeva di tenere il cane al guinzaglio. Le
potenziali conseguenze di quella chiamata sono rese chiare da quello che
è successo a George Floyd.
Ma
ciò che è innegabile nelle proteste aspre a Minneapolis e nel Paese è
il senso che lo Stato è o complice o incapace di imprimere un cambio
effettivamente sostanziale.
Mentre
il candidato presidente per i democratici scherza sul fatto che gli
afroamericani che non votano per lui non sono veri afroamericani, la
crisi nelle comunità nere sembra più acuta e si sovrappone con episodi
di violenza della polizia o altre espressioni del potere oppressivo
dello stato quasi quotidiani.
Joe
Biden pensava fosse uno scherzo che gli avrebbe permesso di mostrarsi
come un insider nella comunità afroamericana. Invece l’ha fatto apparire
un arrogante che pensa di appartenere alla classe dei giovani o dei
lavoratori afroamericani.
È
apparso come ogni altro politico ricco che non è riuscito a cogliere
l’enormità delle sfide. Il simultaneo collasso della politica e del
governo ha spinto le persone a scendere in strada – a scapito della loro
salute e della salute degli altri – per chiedere le più basilari
necessità della vita, incluso il diritto di essere liberi dalle
persecuzioni della polizia o dall’omicidio.
Quali
sono le alternative alla protesta quando lo Stato non riesce a svolgere
le mansioni di base e quando poliziotti banditi raramente vengono
bacchettati per crimini che vengono puniti con anni di prigione per i
cittadini normali?
Se
non puoi ottenere giustizia all’interno del sistema, allora devi
cercare altri mezzi per cambiarlo. Questo non è un desiderio, è una
premonizione. La convergenza di questi tragici eventi – una pandemia che
ha ucciso sproporzionatamente afroamericani, il fallimento dello Stato
nel proteggere i cittadini neri e la caccia agli Afro-Americani da parte
della polizia – ha confermato ciò che molti di noi sapevano già: se noi
e chi sta con noi non ci mobilitiamo in nostra difesa, nessun ente
ufficiale lo farà mai.
Giovani
afroamericani devono sopportare le contusioni causate dai proiettili di
gomma o dall’acre bruciore dei gas lacrimogeni perché il governo ci ha
abbandonato, black lives matter solo perché le facciamo valere noi. Non c’è nulla nuovo nella nostra storia.
Dopo
la Seconda guerra mondiale, gli afroamericani che vivevano in città
videro le contraddizioni di una società che manda un uomo sulla luna ma
permette che i topi mordano i bambini Afro-Americani nelle loro culle la
notte. Il governo federale assicurò abitazioni sotto gli standard
assegnate agli Afro-Americani per mantenere la segregazione
residenziale. Dovunque gli afroamericani guardassero, lo Stato non solo
era sordo ai loro bisogni ma un complice del crimine.
Questo
è stato la causa delle sollevazioni urbane che hanno spazzato le città
della nazione negli anni 60, la stessa epoca del movimento dei diritti
civili nel sud. Il fallimento dello Stato nel concedere un qualunque
diritto gli Afro-Americani chiedessero ha lasciato centinaia di migliaia
a dover fare da soli. Non importava allora, e non importa ora, se la
società bianca approva o disapprova, quello che conta è che il
meccanismo formale per il cambiamento sociale ha fallito, spingendo gli
Afro-Americani ad agire a loro tutela.
Sei anni fa, le proteste di Ferguson hanno posto le basi per la nascita del movimento black lives matter,
che è radicato in simili disuguaglianze sociali. Fu paradossale che il
nuovo movimento emerse all’ombra del primo presidente afroamericano e
alla presenza di più afroamericani al congresso di quanti ce ne siano
mai stati prima.
Comunque,
la presenza di così tanto potere politico nero non aveva fermato la
brutalità quotidiana della polizia. Così come non ha potuto fermare il
collasso della proprietà di case degli afroamericani, l’allargamento del
gap del benessere fra etnie o il debito dato dai prestiti per gli
studenti che ha messo il giogo alla storia debitoria dei black millennials.
Non
importava se le aspettative erano troppo grandiose per ciò che un
presidente nero avrebbe potuto ottenere. Ciò che importava era che il
governo aveva sostanzialmente fallito nel fare la differenza nelle vite
delle persone, gli afroamericani protestavano per far sì che black lives matter.
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