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Con il passaggio alla cosiddetta fase 2 della crisi
sanitaria, s’inaugura la società della distanza, e si identifica nella
socialità e nella fisicità dei rapporti umani il nemico pubblico numero
uno. Nonostante il declino delle infezioni e lo spopolamento dei reparti
ospedalieri, il ritorno alla “normalità” appare come un miraggio sempre
più lontano. È legittimo ipotizzare se il distanziamento sociale sia,
più che il costo necessario da pagare per combattere il virus,
l’obiettivo politico di una agenda tesa a riformare antropologicamente
la nostra società. L’emergenza sanitaria ha generato una crisi
senza precedenti, in cui per mesi la popolazione intera è stata messa
praticamente agli arresti domiciliari, in molti casi privata dei propri
affetti, dell’amicizia, del lavoro, della stabilità, di una visione del futuro; dopo che è stata distrutta un’economia
intera, devastata la scuola, sospese le libertà costituzionali, e messo
la cittadinanza sotto stretta sorveglianza con droni ed elicotteri. Ora
lo Stato “consente” il ripristino parziale di alcune libertà, purché si
rispetti il principio fondante del nuovo mondo tecno-scientifico: il
distanziamento sociale. Ovvero, la cittadinanza è sottoposta a un
livello di controllo bio-politico in cui lo Stato determina perfino lo
spazio fisico entro cui le viene consentito muoversi.
La giustificazione di misure apparentemente totalitarie risiede nella
necessità di disciplinare gli individui, affinché i loro comportamenti
non facilitano la diffusione del virus, in una rinnovata logica del
“vincolo esterno”. Cosi facendo da un lato si colpevolizza
la popolazione degradandola a ruolo di “infante” da “educare” tramite
il controllo paterno dello Stato.
Dall’altra si sposta la lente
d’ingrandimento dalla dimensione macro della pandemia globale, che si
sviluppa attraverso dinamiche complesse che sfuggono al controllo delle
unità, alla dimensione micro dell’individuo. Quest’ultimo da mera unità
biologica, è potenziale vettore del virus, e quindi è portatore di
rischi non soltanto a sé stesso, ma soprattutto ad altri. Questo
potenziale pericolo biologico ha giustificato (nella fase 1) la
riduzione della vita sociale ad uno stato di segregazione domestica ed
esclusivo consumo alimentare. Il problema pertanto non è più il virus in
sé, ma gli individui, le unità, senza le quali il virus non potrebbe
trasmettersi e non potrebbe esistere. Conseguentemente, la guerra
al virus trova la sua prassi nel conflitto verso gli individui, o più
precisamente nei confronti della socialità attraverso cui i
comportamenti degli individui si manifestano.
La guerra al virus, condotta a fine di salute pubblica e quindi con il fine di salvare la vita, diventa una guerra
contro la vita stessa, intesa come la manifestazione sociale dei
comportamenti umani. In altre parole combattendo il virus combattiamo
noi stessi, e la nostra stessa idea di vita. Per questo motivo la
narrazione dominante si concentra adesso sul ritorno alla socialità, che
infrange le regole della tecno-distopia. Si colpevolizzano gli
individui identificando il capro espiatorio del momento negli
assembramenti della movida e degli aperitivi, che sostituiscono i runner
e i proprietari di cani. Ad essere vietate sono tutte quelle
manifestazioni sociali che potrebbero mettere in pericolo la
sopravvivenza biologica, come una risata con gli amici, una pacca sulla
spalla, una stretta di mano, un abbraccio (come pubblicizzato in una
campagna di sensibilizzazione della regione Veneto). Insomma tutte quei
comportamenti che distinguono l’uomo dalla macchina. Chi non si adegua
viene giudicato come un pazzo o un irresponsabile da additare e
marginalizzare. Di conseguenza lo Stato aumenta la repressione, punendo
ad esempio
coppie che si abbracciano in pubblico, o vietando passeggiate sul
bagnasciuga, o autorizzando il trattamento sanitario obbligatorio per
chi dissente, e cosi finisce per avvitarsi in un’assurda spirale di
autoritarismo.
È arduo spiegare come mai, nonostante l’appiattimento della curva e
lo spopolamento dei reparti ospedalieri, le libertà e la socialità siano
ancora consentite in edizione limitata. Il timore di chi scrive è che
il distanziamento sociale non sia il mezzo ma il fine. D’altronde non
possiamo essere certi dell’efficacia del distanziamento nel contrastare
la pandemia, ed è lecito che nel dibattito pubblico si sollevino dubbi.
Se non è certo che il distanziamento aiuti a contrastare il virus, è
sicuro invece che abbia effetti collaterali di varia natura, tra i quali
troviamo, banalmente, quelli sociali. Esso infatti colpisce in primo
luogo le relazioni e contribuisce al quel processo di svalutazione,
perpetrato dal capitalismo neoliberista, di quelli che Stefano Bartolini
definì i beni relazionali. Si procede nel percorso di atomizzazione
della comunità, nel separare il corpo nelle sue parti, in continuità con
quella società liquida teorizzata da Bauman nell’era ante-virus, in cui
il cittadino altro non era che un consumatore, depoliticizzato,
alienato, impotente in un contesto globalizzato e condannato a una
condizione di “solitudine”. In secondo luogo il distanziamento impedisce
l’aggregazione e quindi la libertà politica stessa nel suo atto di germinazione, perché la politica
è comunità, condivisione e partecipazione. Condannare gli
assembramenti, seppur nella veste dell’happy hour o dell’aperitivo,
equivale a condannare l’aggregazione politica e di conseguenza castrare ogni pulsione di dissenso nei confronti della narrativa dominante.
Come osserva Agamben, l’assenza dei contatti fisici viene sostituita
dai dispositivi tecnologici; ma non possiamo certo illuderci che
potremmo avere per tutto soluzione di tipo smart, relegando noi stessi
nel remoto, perché finiremo per ingabbiarci dietro la tastiera. Se si
accetta convenzionalmente che una relazione non può essere vissuta su
Facebook, discorso analogo dovrebbe valere per l’attività politica, cosi come per la scuola, e per tante attività commerciali che vivono di socialità. Per non menzionare i luoghi di lavoro,
deprivati di qualunque essenza umana e sociale come la pausa caffè
degli operai, in cui le nuove regole hanno istituzionalizzato
l’alienazione. In un’intervista al “Financial Times”, una dipendente di
un’azienda del nord ci da il senso della disgregazione del lavoro
di squadra quando, quasi con malinconia, ricorda come si lavorasse
prima: «A volte eravamo in quattro uno vicino all’altro, gomito a
gomito, davanti a uno schermo, lavorando come se fossimo uno». Il
distanziamento è anti-sociale per definizione, e solo una distopia di
tipo orwelliana (in cui guerra
è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza) poteva
affibbiargli tale etichetta. Esso appare in un inquietante veste di
strumento di controllo bio-politico, che rilancia l’antico motto romano
del divide et impera. Scusate il pessimismo, ma è difficile credere che
andrà tutto bene.
(Brian Cepparulo, “Distanziamento sociale: il mezzo o il fine?”, da “Osservatorio Globalizzazione” del 4 giugno 2020).
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