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Armiamoli
e partono. Chi? I nostri eroi: i “consiglieri” dell’Aise (l’Intelligence italiana) già presenti in
territorio libico assieme ai colleghi di CIA, MI6, CFR. Mentre ‘gli anfibi sul
terreno’ li metteranno per noi i parà incursori del “Col Moschin”, uno dei
corpi speciali italiani più preparati.
Utilizzati in Libano negli anni Ottanta, poi in Somalia, Ruanda e tragicamente in Afghanistan, dove hanno lasciato diverse vite contro la guerriglia talebana, intervento non compreso da tanta popolazione afghana e percepito per quel che è: un’occupazione straniera che dura da quindici anni. Quella guerra i nostri corpi speciali l’hanno combattuta nella Isaf Mission, operazione che continuava l’Enduring Freedom, tutte volute e dirette unicamente da Washington. L’attuale seconda missione libica viene comunque decisa dai nostri grandi alleati (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia) che determinano anche il ruolo “guida” ricoperto dall’Italia. Dopo l’annuncio un brivido avrà percorso la schiena della donna più militare della nostra patria, la ministra Roberta Pinotti. La quale, più realista di re e regine, è andata a festeggiare le future imprese armate nel Paese più militarista e militarizzato del Medio Oriente: Israele. Quest’ultimo, da buon gendarme di se stesso e degli alleati americani, è interessato agli sviluppi d’un intervento della Nato nel mare, nei cieli e sul terreno della Libia.
Utilizzati in Libano negli anni Ottanta, poi in Somalia, Ruanda e tragicamente in Afghanistan, dove hanno lasciato diverse vite contro la guerriglia talebana, intervento non compreso da tanta popolazione afghana e percepito per quel che è: un’occupazione straniera che dura da quindici anni. Quella guerra i nostri corpi speciali l’hanno combattuta nella Isaf Mission, operazione che continuava l’Enduring Freedom, tutte volute e dirette unicamente da Washington. L’attuale seconda missione libica viene comunque decisa dai nostri grandi alleati (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia) che determinano anche il ruolo “guida” ricoperto dall’Italia. Dopo l’annuncio un brivido avrà percorso la schiena della donna più militare della nostra patria, la ministra Roberta Pinotti. La quale, più realista di re e regine, è andata a festeggiare le future imprese armate nel Paese più militarista e militarizzato del Medio Oriente: Israele. Quest’ultimo, da buon gendarme di se stesso e degli alleati americani, è interessato agli sviluppi d’un intervento della Nato nel mare, nei cieli e sul terreno della Libia.
I suoi
canali col Pentagono sono apertissimi, così il tour a Gerusalemme di Pinotti
fa, al più, da corredo per il governo italiano, rassicurando tutti gli amici
degli amici d’Oltreoceano. Interessante è comprendere cosa aprirà il fronte
libico in loco e, teoricamente, in casa nostra. Analisti e strateghi militari (prendiamo
una disamina dell’Ispi) prospettano ipotesi in base al quadro odierno che
tuttora vede tre realtà: l’esercito para occidentale del generale Haftar
presente a Tobruk, i militanti jihadisti di Alba libica di stanza a Tripoli, i
miliziani del Daesh sparsi da Sirte all’area desertica. Attori in conflitto e
concorrenza. Il possibile dialogo fra i pur diversi orientamenti dei governi
provvisori di Tobruk e Tripoli, scaturente nell’auspicato governo di Accordo
Nazionale, l’unico capace di legittimare l’intervento Nato contro il jihadismo
dello Stato Islamico, non c’è ancora e qualora ci fosse potrebbe non durare. Ma
lo sbarco occidentale, che mira a mettere in sicurezza gli approvvigionamenti
di petrolio e gas libici verso il nord Europa, ci sarà egualmente. Legittimato
da tale scopo più che dalla guerra all’Isis. Il quadro esaminato può comportare
un ampliamento dell’area di crisi ad altre nazioni del Maghreb, quelle
limitrofi: Algeria a ovest, Tunisia a nord-ovest, Egitto a est. Quest’ultime due,
colpite dal proprio jihadismo possono essere interessate a fare da spalla alla
coalizione occidentale (l’Egitto in primo luogo, anche per distogliere
l’attenzione da tanta repressione extralegale interna cui sottopone i cittadini
più che i combattenti pro Al Baghdadi).
Ma il fronte può ampliarsi perché lungo il confine poroso fra Algeria e Niger (dove corre ogni genere di traffico, dalla droga all’esplosivo Semtex) il coagulo jihadista africano può realizzare una retrovia in pieno deserto, zona difficilmente pattugliabile. Intanto i fronti certi sono due: sul territorio libico, dove le forze speciali e aeree saranno impegnate con azioni mirate e bombardamenti con caccia e droni, e quello degli obiettivi civili che potrebbero venir colpiti (com’è accaduto in Francia e Tunisia) da azioni terroristiche di gruppo o isolate. Nel primo caso i lutti sarebbero militari, colpiti direttamente dai nemici o indirettamente dalle conseguenze del materiale bellico utilizzato (uranio impoverito, com’è accaduto cinque anni fa sempre in Libia e prima in Iraq, Kuwait e dove lì si combattono i conflitti dalla morte immediata e ritardata). Gli altri lutti come a Madrid, Londra, New York sono conosciuti. Ma per i fautori dell’intervento indispensabile dopo Parigi, l’Occidente è sempre e comunque un obiettivo. Allora guerra, fino all’ultimo respiro. Anche ora che mentre scriviamo giunge la notizia dell’uccisione di due (Failla e Piano) dei quattro dipendenti italiani sequestrati da mesi a Sabrata. Nel conflitto in cui c’infiliamo probabilmente non basteranno né agenti, né parà.
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