giovedì 3 marzo 2016

L'eroina pronta a invadere l'Europa.

Il nuovo primato della raccolta di oppio in Afghanistan conferma una tendenza registrata finora solo negli Usa. L'impennata dei sequestri sorprende gli investigatori che ridisegnano la mappa del traffico internazionale. L'Italia e Roma diventano centrali. Dall'est arrivano i carichi già trasformati in "neve" e dall'ovest quelli della cocaina. Seguendo una rotta del tutto inedita che approda in Africa, trasformata nel grande hub degli stupefacenti. Il terrorismo jihadista, dai Taleban ai miliziani dell'Is, entra nel business per finanziarsi. La conquista dei territori non è più solo legata al sogno del Califfato, ma al controllo dei punti di transito e di approdo della droga.

L'eroina pronta a invadere l'Europa



Ma la cocaina resta la regina della 'ndrangheta
di ANDREA PALLADINO
ROMA - Dieci è il numero chiave della rete dei narcos. Dieci è il moltiplicatore dei guadagni, dal produttore al grossista. Dai laboratori andini della coca, o dai campi afghani, primi produttori di oppio, ai magazzini delle periferie di Roma, la città italiana dove più gira la “bianca”. In mezzo c'è un esercito di broker, riciclatori, corrieri, colonnelli dei cartelli, capi decina, jihadisti, politici corrotti e stati canaglia. Tutti costantemente online sulle chat dei BlackBerry, dove si usa una nuova lingua che mescola spagnolo, portoghese, italiano e inglese. Frasi veloci, pin identificativi scambiati con codici segreti, nickname da b-movie. C'è  Spiderman, Modà, Beep beep, Pavarotti, Verdi, Mozart, Giotto. E poi, sul lato opposto dell'Atlantico, El leon, Soy yo, Noel, Eric Berne. Un sistema fluido, veloce, capace di cambiare rotta in pochi minuti, in grado di controllare linee commerciali imbottendo container o il corpo di disperati disposti a fare da “mulo”. Piccoli carichi, porti sconosciuti, vie che attraversano il deserto del Sahara dove comandano le bande di quella rete criminale che conosciamo come Isis. Oppure, sul lato occidentale, dominando le strade desolate della baixada santista, quell'area periferica cresciuta attorno alla grande San Paolo dove regna il PCC, Primeiro comando da Capital, il feroce cartello brasiliano nato vent'anni fa dentro le carceri, mutuando metodi e organizzazione dalle mafie italiane.

Rete fluida. E' un mondo lontano da quello della "Pizza connection" di Gaetano Badalamenti, l'inchiesta che unì negli anni '80 l'allora procuratore Rudolph Giuliani e Giovanni Falcone. La rete fluida del sistema criminale mondiale delle droghe è oggi il giusto milieu di gente come Gregory di Corona, al secolo Gregorio Gigliotti. Feroce e 'ndranghetista. Niente Rolls-Royce, maglietta di cattivo gusto, un banale Suv parcheggiato davanti al suo ristorante “Cucino a modo mio”, nel Queens. Con un arsenale pronto a sparare dietro il bancone, o in grado di saltare in padella a pranzo pezzi di organi di chi ha tradito. Quando i magistrati della Dda di Reggio Calabria lo hanno individuato – insieme ai colleghi di New York, nell'operazione Columbus - come organizzatore dei traffici di cocaina dagli Usa all'Europa, hanno coniato l'espressione “new bridge”, il nuovo ponte che ha sostituito il vecchio link degli anni '70 e '80. Allora l'eroina viaggiava tra Sicilia e Usa: l'oppio semilavorato partiva dalla Turchia, entrava nelle raffinerie di eroina dei corleonesi, finiva tra i tavoli delle pizzerie gestite dalle famiglie storiche di Cosa nostra emigrate un secolo fa negli States. Gigliotti faceva il percorso inverso, la coca la comprava dai narcos in Costa Rica, la faceva passare per i porti statunitensi del Dalaware, per poi spedirla in Calabria o nel porto di Rotterdam, dove sono stati sequestrati 3 mila chili di cocaina collegati – secondo la Direzione nazionale antimafia – al suo gruppo. Nonostante i numeri da brivido Gregory di Corona non è un generale. E' solo uno dei tanti broker della 'ndrangheta in giro per il mondo. Un terminale di una rete ampia, fluida, in grado di riparare immediatamente i nodi tagliati. Se uno cade, c'è già chi è pronto a prendere il posto. Pronti ad alleanze in grado di far girare la bianca ovunque.
Africa connection. Lo chiamano athtub Speed, Cadillac Express, Gagger, Go Fast, Goob, Jee cocktail, Jeff, Mulk, Mulka, Quicksilver. Più conosciuto come Cat, con il nome scientifico di Mephedrone, è il clone sintetico del Khat vegetale, la droga più diffusa nel corno d'Africa. Secondo i rapporti delle Nazioni unite del 2014 ha una diffusione ormai capillare nell'intero continente africano, dove viene prodotto in laboratori clandestini. Passa poi per l'Olanda e alla fine arriva anche nelle nostre strade. L'indicatore che non lascia spazio ai dubbi è l'aumento vertiginoso del mercato dei precursori chimici, le sostanze indispensabili per ricavare il Cat. Ma è solo la punta di un iceberg immenso, fatto soprattutto di polveri bianche. Cocaina. Ma anche eroina, la nuova arrivata sulle rotte a sud del Sahara.
L'Africa è divenuta negli ultimi dieci anni il vero crocevia dei trafficanti, con il primo – drammatico – risultato dell'esplosione dei numero dei consumatori. E' la strada che hanno percorso gli altri snodi delle rotte della cocaina e degli oppiacei: si crea un mercato interno, che alla fine si sposa e si amalgama con le vie dei trafficanti. Già all'inizio del nuovo millennio l'Africa occidentale era divenuta la destinazione dei narcos, soprattutto brasiliani. Avere una piattaforma più vicina al mercato europeo, protetta da governi molto spesso compiacenti, è la chiave utilizzata dai cartelli, a occidente e a oriente. Le tracce delle rotte si perdono e si confondono, i grandi carichi si parcellizzano in tanti rivoli e l'incrocio con gli altri traffici – di armi, diamanti, commodities – può moltiplicare gli affari. 
E' l'eroina la vera regina dei traffici africani, mentre cala – secondo l'agenzia delle Nazioni unite UNODC – il flusso della cocaina. Tra Kenia e Tanzania negli ultimi cinque anni sono stati sequestrati complessivamente almeno 3 tonnellate di carichi, alcuni dei quali sarebbero stati controllati dai miliziani di al-Shabaab, gli alleati dello stato islamico in Somalia. Questo flusso si incrocia sulle vie del deserto con l'antica rotta della cocaina, il cui valore di mercato – secondo il segretario generale delle Nazioni Unite – ha raggiunto nel 2013 la cifra di 1,3 miliardi di dollari per il solo continente africano.

Piattaforma logistica. La Nigeria, mostrano gli ultimi dati delle Nazioni Unite, si è trasformata in una sorta di piattaforma logistica delle droghe. I primi corrieri iniziarono a trasportare i derivati della foglia di coca almeno una quindicina di anni fa, appoggiandosi alla grande comunità nigeriana presente nella città di San Paolo in Brasile. Pochi controlli al largo delle coste, dogane aeroportuali facilmente superabili e un certo effetto sorpresa hanno giocato a favore della nuova via dell'Africa occidentale. Da qui i viaggi verso il mercato europeo si dividono in tanti rivoli. C'è la via di terra, che segue il meridiano 10, passando per la città di Agadez in Niger, centro Tuareg divenuto lo snodo da dove partono le vie del deserto. Uranio, profughi e droga hanno sconvolto questa città patrimonio dell'Unesco che negli anni '80 era una meta turistica di eccellenza, tappa della Parigi Dakar. Le vie tradizionali del Sahara sboccano sulle coste del Maghreb, punti di partenza per l'ultimo viaggio verso i mercati europei. Ci sono poi i viaggi aerei dei “muli” disposti a inghiottire decine di ovuli di coca o di eroina, sperando di bucare i controlli agli arrivi negli aeroporti internazionali portoghesi, spagnoli, italiani. Ed è una questione di statistica: una buona parte ci riesce e i carichi che si perdono sono alla fine irrilevanti. I trafficanti si affidano poi al mare, utilizzando i container o le stive di piccole barche a vela, in grado di sbarcare nei piccoli – e poco controllati – porti turistici. Vie che oggi, accanto agli ormai tradizionali e consolidati carichi di cocaina, sono utilizzate per la nuova ondata di eroina, che sta iniziando ad invadere di nuovo l'Europa.
 REPDATA: IL CONSUMO DI DROGHE NEL MONDO
Tra Santos e Gioia Tauro. Gestisce carichi da record - quasi 4 tonnellate di coca in un solo sequestro – con un arsenale di armi automatiche per proteggere i carichi. Il cartello più feroce del Brasile dei record di omicidi ed esecuzioni sommarie, il Primeiro comando da Capital, in sigla PCC, può contare su un vero esercito. Spietato, disposto a mettere a ferro e fuoco l'intera città se il governo non si piega ai diktat dei padrini reclusi; con una rete di almeno 6000 affiliati arruolati nelle carceri e 1200 in libertà, controlla il porto di Santos, il principale del Brasile, antico punto di partenza del caffè. Una copertura che è in grado di garantire ai broker internazionali della cocaina la gestione delle spedizioni verso l'Africa, gli Usa e l'Europa.

Terminale. Santos è il terminale finale della rotta che parte dai laboratori andini di Perù, Bolivia, Venezuela e Colombia, attraversa le strade amazzoniche per raggiungere i magazzini di stoccaggio della grande San Paolo, la zona più urbanizzata del Brasile. La rotta finale verso Gioia Tauro è la più gettonata, grazie all'alleanza win-win con i broker delle famiglie calabresi. Lo scorso giugno l'operazione del Gico di Catanzaro Santa Fè – costola di un analogo blitz in Brasile, “Overseas” - ha ricostruito un pezzo del mondo dei narcos fedeli alleati della 'ndrangheta. In Calabria era Antonio Femia a raccogliere tra le famiglie affiliate i soldi per gli acquisti, un gruppo che, secondo la Dda di Reggio Calabria, manteneva il comando dell'intera filiera. Sulle chat si faceva chiamare “Scarface”, “El rey” o un “Un toro y 7 vacas”.

A gestire i contatti giusti in Brasile erano lo spagnolo José Ramon Alvarez e l'uruguaiano Claudio Marcelo Soto Rodriguez, collegati con il trafficante “Dido”; i terminali finali erano due colombiani, che garantivano i rapporti con cartelli dei produttori. L'area del porto era l'affare affidato ad uno dei leader della cellula del PCC nella baixada santista, tale André do Rap, l'interfaccia con i portuali, capaci di scegliere la nave giusta dove infilare la coca. La tecnica per l'invio utilizzata era nuova: nessun grande carico, appena una paio di borsoni con al massimo 100 chili, infilati in container esclusi dai profili di rischio della Agenzia delle dogane (ad esempio contenitori vuoti), con un sigillo clonato pronto per essere utilizzato dopo un veloce recupero nel porto di arrivo. E se a Santos era il PCC a fornire gli appoggi giusti, in Italia un gruppo di funzionari del porto di Gioia Tauro chiudevano più di un occhio. Uno sbarco discreto e sicuro. Una filiera camaleontica, flessibile e invisibile.




La nuova minaccia è il narcoterrorismo
Lo chiamano narcoterrorismo. E' l'alleanza che si sta creando sul campo tra le reti della jihad globale e i cartelli dei narcotrafficanti. La rotta africana dell'eroina è senza dubbio il fronte più delicato, con le milizie legate allo stato islamico in grado di garantire logistica e supporto armato in cambio di narcodollari. I primi a lanciare l'allarme sono stati i russi, che lo scorso anno nel consiglio di sicurezza delle Nazioni unite stimavano in quasi un miliardo di dollari annui il fatturato di Is derivante dal traffico di droga. Ma il patto tra jihadisti e narcos nasce a monte, tra i campi di papavero in Afghanistan.

Fino al 2001 l'oppio era considerato dai leader talebani come haram, contrario all'Islam. Poi, lentamente, le cose sono cambiate. Nella prima fase – che è durata fino a tre, quattro anni fa – i talebani guadagnavano solo indirettamente dalla produzione dell'oppio, imponendo una tassa ai contadini e facendosi pagare per la protezione dei convogli che attraversano le zone controllate dai miliziani islamisti. Secondo il rapporto Unodoc del 2009, ai talebani finivano in tasca 22 milioni di dollari all'anno dai raccolti e 70 milioni di dollari per la protezione dei trasporti. Dal 2011 la strategia è cambiata. Secondo una recente inchiesta del New York Times, l'attuale leader dei Talebani, Mullah Akhtar Muhammad Mansour, è oggi all'apice della piramide tribale Ishaqzai, ovvero i tradizionali signori dell'oppio afghano. Grazie ai soldi derivati dalla partecipazione diretta nel narcotraffico, Mansour sarebbe riuscito a mettere a tacere gli oppositori interni conquistando la leadership.

L'altro segnale che gli investigatori stanno approfondendo è la contiguità che in Europa contraddistingue le cellule terroristiche. Molto spesso gli islamisti collegati allo Stato islamico hanno una storia personale con il mondo del traffico di droga. Una convergenza che rende ancora più difficili le indagini: sistemi finanziari occulti, organizzazioni radicate all'estero, in paesi dove la cooperazione giudiziaria è di fatto impossibile, nessuna fonte interna ed una compartimentazione difficile da penetrare. (an. pa.)

La via africana della polvere bianca
di ANDREA PALLADINO
ROMA - Se aumenta la produzione, non ci sono dubbi, il mercato tira. La regola numero uno dell'economia è l'indicatore di un ritorno preoccupante della droga più temuta, la bestia nera che ha distrutto un'intera generazione: una quantità record di eroina è alle nostre porte, partita dalle montagne dell'Afghanistan. Sono 224 mila gli ettari di campi destinati all'oppio secondo la UNODC – agenzia Onu che si occupa di narcotraffico – e il Ministero antidroga afgano. Un aumento secco del 7% rispetto al 2013, il record assoluto nella storia del paese. La produzione nel 2014 ha raggiunto le 6.400 tonnellate, il 13% in più rispetto all'anno precedente. Aumentano le terre destinate alla coltivazione del papavero e migliorano i raccolti, con numeri mai raggiunti. Alla fine il 63% diventerà eroina, diretta in gran parte al mercato europeo. Con una fetta in crescita venduta nelle strade delle città africane, tra gli slum e le periferie delle grandi capitali.

Nuove rotte. Cambiano anche le rotte, e questa è forse la novità principale. L'analisi dei dati arrivati all'agenzia delle Nazioni unite ha ridisegnato le mappe della geopolitica dell'eroina. Si chiama Southern Path, la via del sud. Utilizza un corridoio sul confine tra Pakistan e Iran, attraversa senza grandi problemi il Golfo Persico, punta all'Oceano Indiano, sfiora le coste somale, sbarcando sulla terra africana tra il Kenya e la Tanzania. Una parte dei carichi prosegue invece verso il Sudafrica, per doppiare il Capo di buona speranza e risalire l'Atlantico fino allo stretto di Gibilterra. L'antica via del Balcani, che vedeva la Turchia come grande hub dei narcotrafficanti dell'eroina, è diventata sempre più difficile da raggiungere. In buona parte l'area di transito coincide con il corridoio del flusso migratorio dei profughi che fuggono dalle terre conquistate dallo stato islamico; i confine tra Siria e Turchia sono oggi un terreno molto difficile da percorrere in sicurezza, con una pressione in grado di creare troppi problemi. I controlli sul confine tra Iran e Turchia – storicamente lo snodo chiave da dove partiva la rotta balcanica – sono poi stati rafforzati negli ultimi anni, con l'installazione di specifici scanner.

Flessibilità. La via del Sud ha un vantaggio: la flessibilità. La rotta balcanica e del Nord (dall'Afghanistan verso la Russia) approvvigionano esclusivamente il mercato europeo e a quello russo. Accumulare l'eroina nei depositi africani permette ai narcotrafficanti di servire più piazze, tutte in espansione. Lo stesso continente africano, prima di tutto. L'Europa, attraverso diverse modalità, dai piccoli muli imbottiti di ovuli di eroina che sbarcano nei nostri aeroporti, fino alle vie carovaniere che sbucano sul Mediterraneo. I porti africani possono poi servire il nord America, utilizzando logistica e organizzazioni nate e cresciute con le rotte inverse della cocaina. Una ragnatela di piccole organizzazioni, mafie locali, strade controllate da gruppi armati, possibilità di cambiare percorso o porto di partenza facilmente: la logistica diventa difficilmente intercettabile, i carichi possono essere suddivisi abbassando il rischio.




Corridoio. Il primo snodo della rotta del sud è il corridoio tra Pakistan e Iran. Secondo le stime disponibili della UNODC (dati del 2009, tre anni prima del nuovo boom di esportazione degli oppiacei) il 45% dell'oppio afghano attraversa il confine pakistano. Una parte viaggia verso la Cina o alimenta il mercato interno (sono 320 mila i consumatori d'oppio in Pakistan), mentre i grandi carichi entrano nei porti che si affacciano sul Mar Arabico o si dirigono verso il crescente mercato iraniano. Il percorso è ben tracciato sulle mappe dei sequestri: le quasi 35 tonnellate di oppio confiscate nel 2013 (numero raddoppiato rispetto al 2006) erano in gran parte concentrate sulle strade che dal confine con l'Afghanistan scendono verso il mare, attraversando la regione del Balochistan o il Punjab, provenienti l'area nord del paese. L'hub finale è il porto di Karachi, snodo commerciale da dove partono le rotte verso il Golfo Persico e l'Africa orientale. Secondo la piattaforma di monitoraggio delle Nazioni unite il 37% della droga sequestrata in Pakistan era diretta in Europa e il 34% ai paesi del Golfo Persico.

Paese chiave. L'Iran, nello scenario globale della rotta del sud dei trafficanti, è oggi il paese chiave. Secondo l'UNODC nel 2012 qui è stata sequestrata il 12% dell'eroina e il 70% dell'oppio a livello mondiale. Negli anni '70 l'allora Persia era il principale produttore, superando di gran lunga l'Afghanistan. Poi, con la cessazione della coltivazione, si è trasformata in un punto chiave di transito. Nel 2013 sono stati uccisi nel paese 14 ufficiali di polizia impegnati in operazioni antidroga, mentre il mercato interno – di oppio e di eroina – è in costante crescita. Il volume d'affari è gigantesco: all'ingresso nel paese, un chilo di oppio proveniente dall'Afghanistan costa 700 dollari; quando raggiunge il confine con la Turchia il prezzo è più che raddoppiato, raggiungendo i 1700 dollari. I mille dollari di differenza alimentano le potenti organizzazioni di trafficanti iraniani. Il giro d'affari è ancora più alto con l'eroina già pronta per i mercati europei, che passa dal costo iniziale di 5.000 dollari al chilo, ai 13.500 dollari, prezzo all'uscita dal paese.

Emergenti. Già nel 2002 erano state individuate le rotte emergenti, che dal porto di Bandar Abbas e dalle coste iraniane in generale puntavano verso gli Emirati Arabi, il Kwait e l'Iran. Una rotta che negli ultimi anni si è rafforzata, includendo il Bahrain, mentre una parte dell'eroina iraniana punta direttamente alle piazze europee: Belgio, Francia, Olanda e Inghilterra. Paesi a loro volta di transito, piattaforme utilizzate dai trafficanti per la nuova onda che sta invadendo l'Europa.




"Così sono diventato un trafficante"
di ANDREA PALLADINO
REGGIO CALABRIA - René Luiz Pereira ha un viso di pietra: “Mi spiace, ma da questo momento non dirò nulla”. Siede davanti alla commissione parlamentare d'inchiesta del parlamento brasiliano incaricata di ricostruire il caso “Lava jato”, un groviglio di vicende dove si intrecciano corruzione all'interno della statale Petrobras, soldi sporchi e trafficanti di droga. Lui appartiene a quest'ultima categoria ed ha sulle spalle una condanna a 14 anni reclusione per un carico di 698 chili di cocaina arrivato in Brasile dalla Bolivia, pronto per essere rispedito verso l'Europa. Era un uomo di Maria de Fatima Stocker, detta la “directora”, brasiliana esperta di narcodollari sulle piazze di Inghilterra, Spagna, Svizzera. E Calabria, dove agiva come broker finanziaria per le famiglie locali. René è finito nelle maglie della Polizia federale, nell'operazione Oversea, mentre Maria de Fatima è stata arrestata in Spagna su mandato del procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicolò Gratteri, a conclusione dell'inchiesta del 2014 Buongustaio. Due terminali di una organizzazione che partiva dai narcos colombiani per arrivare sui mercati di cocaina di tutta Europa, passando per la Bolivia e il Brasile.

Fiume in piena. René era tutt'altro che silenzioso qualche mese prima dell'arresto. Un vero fiume in piena. Usava skype per comunicare con i cartelli che dalla Colombia garantivano merce buona e ottimi prezzi.

Sul suo iPhone gli agenti della Polizia federale brasiliana gli hanno trovato la registrazione di una conversazione di due ore con un colombiano mai identificato: “Tu sei in Colombia ed io in Brasile. Tu hai bisogno di me, è necessario che io faccia il mio servizio qui nel mio paese, dove conosco le persone; ed io ho bisogno che tu faccia il tuo con le persone del tuo paese. Parla con i tuoi in Europa ed io contatto i miei referenti lì”.

Il gruppo di René poteva garantire la rete giusta per far partire la merce dal porto di Santos; dall'altra parte delle rete c'era lei, Maria de Fatima Stocker, la donna di fiducia dei calabresi: “C'è una donna in Svizzera, è una fortissima! Una veramente forte. Questa signora a volte prende in Olanda, ovunque, e poi in due o tre giorni paga qui. Tutto attraverso imprese, così non ci sono rischi. Loro guadagnano poi sui due lati, chiedono una percentuale a tutti”.

E' quella rete finanziaria invisibile in grado di far girare i soldi dei narcos, velocemente: “Tutto questo passa attraverso le banche. Si fanno affari con imprese europee, si prendono i soldi lì e ci danno i soldi qui, in Reais. Si fa sempre così, in realtà i soldi già sono qui, si fa semplicemente un cambio”.

Il trasporto, poi, non è mai un problema: “Io so come vendere in Europa. Non ho nessun problema per farlo, se tu hai bisogno conosco le persone giuste. Mio cugino sta già lavorando con il suo gruppo, già hanno un aereo con tre turbine, e volevano andare in Africa con duemila pezzi (duemila chili di cocaina, annotano i magistrati brasiliani) e mi ha chiesto se conoscevo qualcuno da quelle parti per vendere la merce”.  

Contatto giusto. L'importante è il contatto giusto. La porta d'ingresso al giro grosso è spesso il carcere: “La prigione mi ha fatto imparare e conoscere le persone. Tu non ne hai bisogno – spiega René al colombiano -  perché già conosci e sai come funziona meglio di me. Non sono orgoglioso di essere stato arrestato, preferivo farne a meno. Ma veniamo da posti differenti, dove sei tu è più facile conoscere. Se io non fossi stato in carcere non avrei saputo nulla di tutto questo, la mia famiglia non me lo avrebbe consentito. Non starei qui a parlare con te in questo momento. Ho conosciuto così i mafiosi. C'era uno in carcere con me, era finito dentro per droga. Gli ho pagato l'avvocato che lo ha fatto uscire e lui mi ha presentato vari mafiosi in Paraguay. Sì, proprio in Paraguay. E' tutto iniziato così, quello che oggi so l'ho imparato così”.

Falsa apparenza. I narcos, se li incontri, hanno l'apparenza che meno ti aspetti. Un commesso viaggiatore, un imprenditore tranquillo, con una famiglia da foto ricordo: “Amico mio, se mi vedi in strada non mi riconosceresti, mai penseresti che sto facendo questo”. Il colombiano lo interrompe: “E di più, sono sincero, dal primo giorno che ti ho visto, quando il El negro ci ha presentati, avevi una faccia di uno che faceva qualsiasi altro mestiere, meno questo…”. René riprende il discorso, spiegando come si deve comportare il trafficante: “Perché nessuno deve essere in grado di sapere cosa faccio, amico mio. Prima era un piacere far sapere in giro che facevi il trafficante… bene, ma qual è il vantaggio? Non c'è nessun motivo. Io giro per la mia città e nessuno neanche immagina, pensano che io lavori con l'edilizia, è questo quello che sanno in giro. Quando viaggio neanche mio padre sa che sono qui. Non lo sa nessuno…”.




I papaveri dei Taleban
di DANIELE MASTROGIACOMO

Perfino i Taleban non ne facevano mistero. Anzi, con un sorriso quasi sornione commentavano. "Qui, nel sud dell'Afghanistan, siamo ricchi". Poi alzavano le braccia e ci mostravano orgogliosi il prodotto principale della loro terra. Davanti a noi si aprivano distese di piantagioni di papavero di oppio: un vero arcobaleno di colori, con i boccioli quasi pronti alla raccolta che svettavano fino a quasi due metri, creando sfumature di viola, verde, giallo, rosso e arancione.

Eppure, erano stati proprio loro, negli anni (1996-2001) in cui sono stati al potere in Afghanistan, a mettere al bando la coltivazione. Era contrario ai principi della sharia. Ufficialmente lo fecero solo nel 2000, sollecitati dalle pressioni dell'United Nations Fund for Drug Abuse Control (Unfdac), la struttura delle Nazioni Unite contro il traffico di droga. La produzione, stando al stime, diminuì da 4000 tonnellate a 82 in un solo anno. Ma erano stime di comodo. In realtà la coltivazione e la raccolta non si è mai interrotta. Serviva a finanziare i vecchi signori della guerra convertiti al wahabismo e i capi clan che sull'oppio avevano sempre campato. Dal 1997 fino a tutto il 2000, secondo un rapporto stilato dal Dipartimento di Stato Usa, quindi di una nazione in guerra con il Movimento coranico guidato dal mullah Omar, la produzione ammontò a ben il 72 per cento delle forniture mondiali di oppio.

Ma è stato all'inizio della nuova rivolta dei Taleban, nel 2005, che la coltivazione e la raccolta ha ripreso in pieno. Durante la nostra prigionia come ostaggi del mullah Dadullah, mentre ci spostavano in tutto l'Helmand, la regione meridionale dell'Afghanistan punteggiata dalle piantagioni di papavero, ci è capitato di dormire in piccole fattorie trasformate in depositi di oppio. Una notte, assieme al mio amico e interprete Ajmal, non riuscivamo a prendere sonno. Eravamo angosciati dalla morte atroce del nostro autista Sayed, sgozzato e decapitato due giorni prima lungo la sponda del fiume che prende il nome dalla regione. Ci avevano tutti e tre condannati a morte per spionaggio. Attendavamo solo il nostro turno, rassegnati ma ancora decisi a reagire. Chiusi in una sorta di granaio, avvolti dal buio, oppressi da un silenzio cupo e pesante, sentivamo strani rumori lungo le pareti. Restammo in ascolto. Solo quando qualcosa sfiorò i nostri volti, saltammo in piedi, le mani e i piedi legati dalle catene: ci accorgemmo che lo stanzone era pieno di topi.

C'era una candela e riuscimmo ad accenderla. Lungo tutta una parete, fino al soffitto, erano impilati centinaia di pacchi di plastica sotto vuoto. Ognuno conteneva 5 chili di oppio: un grosso blocco nero. Il mullah che guidava il gruppo di carcerieri, forse attirato dalla luce della candela, fece irruzione nel granaio. Ci osservò, guardò i pacchi di droga e si mise a ridere. Ne afferrò uno, lo soppesò, ci offrì di acquistarlo. “500 dollari per 5 chili”, propose. Poi beffardo, lo mise di nuovo a posto, chiuse con un colpo la porta e ci lasciò di nuovo al buio. Ajmal mi disse che era oppio già pronto per essere venduto.

Il giorno dopo iniziò la raccolta nel campo che si apriva proprio davanti alla nostra prigione. Partecipavano tutti i maschi dei villaggi vicini: dai 7 ai 60 anni. Lavoravano in gruppo. Entravano nella piantagione e procedevano all'indietro per non urtare le piante con il kurta, il tradizionale pigiamone afgano. Avevano un coltellino fatto con un pezzo di legno e tre lamette. Serviva ad incidere il bocciolo maturo. Dalla fenditura usciva una pasta biancastra: durante la notte, a contatto con l'ossigeno, sarebbe diventata nera. Con lo stesso movimento, il giorno dopo, i lavoratori passavano a raccogliere l'oppio. Lo prendevano con una spatola e lo accumulavano in un catino che tenevano legato al collo. Proprio sotto la bocca e il naso. I più vecchi, esperti, ogni tanto allontanavano quel contenitore ricavato da taniche tagliate. I più giovani proseguivano cercando di raccogliere più oppio possibile per incassare la paga a fine giornata. Barcollavano, sorridevano, qualcuno cantava lente nenie. Storditi e strafatti dai fumi di quella pasta nera. Altri la imballavano in sacchi di plastica. Una notte arrivarono quattro gipponi neri. I nostri carcerieri ci fecero uscire. Due ore dopo era tutto finito. La stanza era vuota, i Suv scomparsi verso sud, oltre la frontiera, in Pakistan. Ci sono i migliori chimici della regione. Capaci con un piccolo laboratorio artigianale di trasformare quella pasta nera in eroina di prima qualità.

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