Per fortuna che in tanta pecoraggine, in tanto mediocre conformismo, in tanta disonestà intellettuale sciorinati a piene mani sul “caso Panebianco”, si sono sentite voci dissonanti, da quella che era in qualche modo attesa e prevista, del Manifesto (per la penna, garbata, della direttrice, Norma Rangeri), a quella inattesa e sommessa, di un accademico (Guido Itzcovich sul Secolo XIX), e, per finire la galleria, la voce invece sonora e persino clamorosa di Fulvio Scaglione che dalle pagine di Famiglia Cristiana da tempo è tra i pochi giornalisti che in questo Paese si rifiuta ostinatamente di piegarsi al coro.
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Proprio dei giornalisti qui vorrei parlare. Perché al di là del professor Panebianco, mediocre studioso, ma potente opinion leader sul Corriere della Sera, e degli studenti che hanno osato contestarlo a lezione, sono i media da mettere sotto osservazione. Con una buona dose di disgusto.
Che cosa dunque è accaduto di così drammatico? Che Angelo Panebianco, docente di Scienza politica all’ateneo bolognese, l’“Alma Mater”, la più antica università del mondo, mentre svolgeva una delle lezioni de suo corso è stato interrotto da un gruppo di discenti che lo hanno accusato di essere un guerrafondaio. Mai accusa fu più meritata.
Panebianco da anni svolge un’azione incessante di esaltazione del preteso “realismo politico”, di invocazione all’uso della forza, di identificazione di nemici dell’Occidente da sgominare. Panebianco ha rappresentato la voce stolida di chi ritiene che per pacificare il mondo sia opportuno mettere in azione i “guerrieri democratici” (come si intitola un suo libro). Tutte le guerre del XXI secolo, dall’Iraq all’Afghanistan, dal secondo Iraq alla Libia hanno visto il prof. Panebianco in prima linea (ma sulla ben protetta linea delle più potenti baronie accademiche), perfetto esemplare di eroe in pantofole, di irresponsabile sollecitatore di violenza: ma a quanto pare, ora, i violenti diventano quei quattro ragazzi che si sono permessi di ricordare all’illustre penna del Corriere le sue responsabilità.
Apriti cielo! Sono trascorsi pochi minuti che già l’esercito giornalistico si mobilita: “Aggressione al prof. Panebianco”; “Ignobile gesto squadristico”, “Ritornano i fascisti rossi”. E accanto alle innumerevoli manifestazioni di solidarietà (ma per che cosa, poi?), sono piovute generosamente le analisi, che, manco a dirlo, hanno evocato l’orribile Sessantotto, i mostruosi Settanta, e persino il terrorismo brigatista. Allucinante. E tanti commentatori, di area “progressista”, hanno tenuto a precisare di non concordare con le idee di Panebianco, ma hanno stigmatizzato l’azione dei ragazzi, parlando di violenza inaccettabile, e così via.
Una volta precisato che non c’è stato alcun gesto di violenza fisica, e che i ragazzi si sono limitati a far udire i suoni della guerra al professore, urlando slogan, si trasecola a leggere le paginate dedicate a un episodio che rappresenta un “non fatto”. Molti dei “pennaruli” (come li chiamano a Napoli) scesi in campo con le loro penne accanto al prode Panebianco, per nobilitare le proprie mediocri analisi hanno fatto ricorso facile alla solita melensa citazione attribuita a Voltaire (che non avrebbe mai detto una scemenza del genere): “Non sono d’accordo con le tue idee, ma sono pronto a dare la vita perché tu possa esprimerle”, o simile, giacché non essendo verificata la si può citare a casaccio.
Mentre a Panebianco dunque venivano concessi tutti gli onori, gli studenti erano stigmatizzati dall’arco amplissimo del “Partito della nazione”, divenivano oggetto della pronta attenzione della Digos, e minacciati di sanzioni da parte del Rettore (evidentemente la gestione dell’ateneo gli lascia tanto tempo libero). Gli studenti, già. Chi sono costoro? E che cosa mai pretendono?
Lo ha scritto bene Itzcovich, commentando l’episodio del 22 febbraio: “Riescono, per un giorno o due, a capovolgere quel rituale che vede gli studenti come passivi ricettori di una cultura elargita dall’alto. Perché l’università non può essere il tempio di un sapere disincarnato e astratto, soprattutto quando il contenuto del corso sono le “Teorie della pace e della guerra”: l’università fa parte della società ed è anche – può essere, deve essere – un terreno di lotta politica. Gli studenti imparano anche parlando, esponendosi in modo pubblico e diretto; quando lo fanno, forse possono anche insegnarci qualcosa”. Ma come dicevo, si è trattata di rara avis, che non ha scalfito il coro dei conformisti. E in esso la voce solista è stata quella dello stesso Panebianco, al quale, l’indomani del “grave episodio”, il suo giornale ha concesso ben due pagine, con un’articolessa della “vittima” che occupava una intera pagina (con richiamo in prima), più una seconda pagina di “servizio del nostro inviato a Bologna”. Da non credere.
Nella sua autoapologia, Panebianco ha attinto, come ebbe a scrivere una volta Gramsci in riferimento a un bellicista della sua epoca, “le alte note del piffero”. Ci ha ammannito prima una lezioncina sulla democrazia, assai bislacca nei suoi contenuti, a cominciare dalla tesi di fondo secondo cui essa “si regge sul fatto che in ogni momento … la moderazione politica … prevalga sull’estremismo”. Tesi davvero sconcertante. Ma il meglio è venuto dalle considerazioni politiche legate all’episodio (durata due minuti due) che lo ha visto involontario protagonista. Poi ha evocato i fantasmi del Sessantotto che in Italia “non è stato un anno ma un decennio”. E – aiuto aiuto! –, “Qualche cascame o residuo di quell’interminabile decennio è ancora tra noi”.
Nel finale ovviamente la vittima dell’intolleranza tira in ballo i “cattivi maestri”. E se gli si facesse notare che lui, proprio lui, è un pessimo maestro? Che dal punto di vista delle analisi politologiche non ne ha mai azzeccata una (glielo rinfaccia impietosamente Fulvio Scaglione), mentre dal punto di vista dei giudizi politici, andiamo ancora peggio… Panebianco ha creduto nella esportazione manu militari della democrazia; ha sostenuto la campagne di Bush jr contro Saddam Hussein in nome della ricerca delle fantomatiche armi di distruzione di massa; ha assicurato che le guerre americane in Iraq avevano avviato il Paese verso un’epoca di progresso, e così via. Insomma, davvero un disastro per uno specialista di “scienza politica”!
Nella sua meravigliosa autoapologia Panebianco afferma compunto e fiero di non aver mai manifestato le proprie convinzioni politiche ex cathedra. Ma che bisogno ne avrebbe? Ha il Corriere. E la finzione della separatezza tra l’ambito scientifico/didattico e quello politico è una grottesca foglia di fico. E i saggi sulla rivista Il Mulino, che cosa sono? Scienza o ideologia? Panebianco recita da anni questa parte, e cerca di farci credere che i suoi battaglieri articoli, i suoi saggi pensosi, e i suoi libri accademici, siano altrettanti capitoli di una distaccata e oggettiva analisi del mondo della politica, e dei suoi meccanismi. Dobbiamo dire grazie agli studenti bolognesi che per un paio di minuti hanno smontato il giocattolo della scienza, mostrando il mostro dell’ideologia. E della peggiore ideologia, quella dell’armiamoci e partite.
(29 febbraio 2016)
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