“Dolore, divertimento, pena, riflessione, compartecipazione. Quanti
testi moderni riescono a suscitare una tale gamma di sentimenti?”.
Pubblichiamo la prefazione di Valerio Evangelisti alla nuova edizione
del romanzo "Amianto. Una storia operaia" (Alegre) di Alberto Prunetti e
la recensione di Silvia Preziosi.
micromega di Valerio Evangelisti
Avete
tra le mani un libro terribile e bellissimo. Detto questo, ci sarebbe
poco da aggiungere. Ogni lettore noterà da sé la verità della mia
constatazione. Ciò che scriverò sotto il giudizio iniziale è dunque, in
certa misura, superfluo.
Dolore, divertimento, pena, riflessione,
compartecipazione. Quanti testi moderni riescono a suscitare una tale
gamma di sentimenti? Eppure ho provato tutto ciò leggendo la storia
narrata da Alberto Prunetti. Una nuvola di sensazioni alternanti e
contrapposte, quali solo uno scrittore vero riesce a condensare.
Sulla
bravura di Prunetti non avevo dubbi. Le prime cose che lessi di lui
erano le sue disavventure tragicomiche di pizzaiolo a Londra. Seguirono
racconti, un romanzo (Il fioraio di Perón), ricostruzioni storiche in
chiave narrativa (Potassa), antologie, molte traduzioni, molte
introduzioni e curatele di scrittori sudamericani (pochi, in Italia,
conoscono l’Argentina e la sua cultura quanto Prunetti).
Non
immaginavo però di ritrovarmi così commosso — autenticamente commosso —
nel leggere le righe che ha voluto dedicare a suo padre. E così
coinvolto in una vicenda che, purtroppo, non è ancora finita.
Renato
Prunetti, operaio tubista e saldatore, era fiero della sua professione e
della sua bravura. Solo che doveva coprirsi d’amianto per svolgere il
lavoro. L’amianto uccideva lentamente, e lui non lo sapeva. Quando fu
noto, il padronato cercò di tenere nascosto il più possibile il male
compiuto, poi di ritardare le misure riparatorie. Scegliere altre forme
di protezione avrebbe compromesso un ciclo collaudato, e obbligato a
spese senza rientri sul piano del profitto. Sostituire un lavoratore che
muore costava (e costa) sempre meno che introdurre modifiche nel
processo lavorativo. Direi anzi che oggi costa meno ancora. L’Ilva, e
non solo l’Ilva, ce lo ricorda.
Alberto Prunetti assiste al
logorio progressivo del padre. La vicenda è al tempo stesso angosciante
e, nelle prime pagine, quasi divertente, ma solo perché, pur consapevoli
dell’esito (ci è stato anticipato fin dalle prime righe), non lo
abbiamo ancora “vissuto”. Prunetti calibra benissimo il contagocce delle
emozioni.
La sua bravura di scrittore la si vede, la si tocca
grazie a una lingua vivissima e naturale, impreziosita da espressioni
idiomatiche. Una costruzione stilistica raffinata e tuttavia avvertita
dal lettore come spontanea, quale è.
Si passa da un’infanzia
tutto sommato felice, scandita da corse in bicicletta tra cumuli di
veleni, all’inizio del dramma. Con, in mezzo, la lunga parentesi
“normale” dell’uomo — Renato — soddisfatto di ciò che fa, del suo essere
indispensabile per chi lo impiega, delle sue veniali trasgressioni (un
bicchiere di vino, qualche esplosione di esuberanza), della protezione
che assicura alla famiglia. Con la morte già nelle membra, a sua
insaputa. Seguirà l’iter avvilente, burocratico e giudiziario, percorso
dal figlio perché sia sancito che fu un delitto. Fino a una deludente
soluzione di compromesso, che non voglio anticipare.
Due note
conclusive. C’è chi ritiene che la classe operaia sia tramontata per
sempre, sostituita dal “lavoro cognitivo” (a cui vorrebbe approdare
Alberto Prunetti, salvo trovarsi a sguazzare in un pantano di precarietà
e frustrazione). Falso. Basta guardare fuori dai confini occidentali
per scoprire che la classe operaia, espunta in un luogo, riappare in un
altro. Ed è ancor più sfruttata. Gli operai delle maquiladoras del
Messico, delle Filippine, dell’India ecc. sono forse “proletariato
cognitivo”?
Non prendiamoci in giro. Sono proletariato e basta. Di storie come quella di Renato potrebbero narrarcene a centinaia.
Seconda
nota. Senza volere santificare il suo martirio, è certo che l’orgoglio
di Renato Prunetti per ciò che faceva aveva basi concrete, materiali.
Saldava, forgiava, ridisegnava i metalli. Ne andava fiero. Anche i suoi
momenti di ribellione traevano origine da tali abilità. Si può irridere
un simile passato. Pubblicare romanzetti di successo in cui la fabbrica è
solo sfiorata, richiamata nel titolo e poi ignorata. Ma quel passato
implicava fierezza, onorabilità, senso di appartenenza, ribellione ai
soprusi. Ciò che oggi si cerca di cancellare con ogni possibile, sporco
espediente, perché in quella condizione esistenziale, prima ancora che
materiale, risiedeva l’antitesi prima allo sfruttamento. Un operaio con
la fronte bassa non è un operaio, ma un involucro funzionale a produrre
miseria propria e ricchezza altrui.
Renato Prunetti la fronte alta la
tenne sempre, anche quando fu ormai prossimo a morire. Per fortuna
lascia un figlio capace di far rivivere il senso di una resistenza umana
con una bravura che mette i brividi.
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venerdì 16 maggio 2014
Libro. Una sola fibra d’amianto e tra vent’anni sei morto. Amianto. Una storia operaia" (Alegre) di Alberto Prunetti.
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