L’Eurostat
ha rivisto i criteri per il calcolo del Pil. Da quest’anno saranno
inclusi nel reddito nazionale anche le spese private per la ricerca e lo
sviluppo ed i proventi di molte attività criminali. Secondo le stime
più prudenti, il Pil dovrebbe aumentare statisticamente dell’1-2%, ma
altre valutazioni fanno pensare ad un incremento dell’ordine del 10%. Al
di là dei problemi etici, questa innovazione metodologica avrà
conseguenze rilevanti. Per prima cosa, la rivalutazione farà diminuire
artificialmente il rapporto debito-Pil, ad ulteriore riprova della
insensatezza di questo ed altri parametri europei. Ma la cosa più
inquietante è che da oggi tutti i governi avranno un motivo in più per
non perseguire il lavoro nero e l’economia criminale, perché producono
reddito e occupazione come qualsiasi altra attività. Anzi, un po’ di
delinquenti in più faranno diminuire il tasso di disoccupazione e
faciliteranno il rispetto dei famigerati criteri di Maastricht.
Alla fine l’Eurostat, l’ufficio statistico della Commissione Europea, ha dovuto dare ragione a Cetto La Qualunque, il geniale personaggio del politico cialtrone interpretato da Antonio Albanese, secondo il quale la prosperità economica si basa sulle attività irregolari o palesemente criminali.
Dopo una decina di anni di riunioni, gli statistici europei hanno infatti adottato il nuovo manuale di contabilità nazionale, il SEC 2010, che prescrive come calcolare il Pil, che corrisponde più o meno all’imponibile sul modello Unico compilato collettivamente per tutti i cittadini italiani. Il SEC 2010 prevede, tra l’altro, l’inclusione nel Pil di quasi tutta l’economia criminale: prostituzione, contrabbando (escluso quello delle armi), usura e spaccio di droga. Per ora rimangono fuori i furti (anche se è compresa la ricettazione), i sequestri di persona, il pizzo e poco altro. Ma già ora non manca chi osserva argutamente che alcuni furti con destrezza sono veri e propri spettacoli di prestidigitazione; il sequestrato usufruisce comunque di un servizio alberghiero e il pizzo è una forma di assicurazione, talvolta meno onerosa di una normale polizza contro furto e incendio. Comunque i più curiosi potranno trovare tutti i dettagli dell’operazione sul sito; anche l’Istat fornisce qualche ragguaglio qui. Per la cronaca, la stessa revisione prevede che le armi siano considerate un investimento, alla stregua di qualsiasi macchina o capannone. Se fosse solo una bizzarria da statistici, si potrebbe lasciar correre, ma purtroppo queste innovazioni metodologiche rischiano di peggiorare le politiche economiche e le nostre condizioni di vita nei prossimi anni.
Già oggi il Pil include i proventi del lavoro nero applicato a settori legali (soprattutto edilizia, agricoltura e servizi) che da solo ammonta a circa il 17% del reddito complessivo. Fino a ieri l’economia propriamente criminale veniva invece considerata una semplice redistribuzione di ricchezza dai cittadini onesti verso i delinquenti e, come tale, non era ritenuta in grado di creare reddito e occupazione, a differenza delle imprese normali. Ora si osserva pragmaticamente che molte attività criminali sono del tutto assimilabili a normali transazioni economiche. In fondo, sembrano pensare gli statistici, chi compra eroina lo fa volontariamente (almeno all’inizio); parecchi lavori legali sono più pericolosi, precari e mal pagati della prostituzione e il confine tra usura e intermediazione finanziaria regolare è piuttosto labile.
La logica che sta dietro questa “innovazione” è molto semplice: se esiste uno scambio volontario, seppure illegale, vuol dire che si stanno trasferendo beni e servizi ai quali le controparti attribuiscono un valore economico, che si traduce in retribuzioni e profitti per chi li produce e li commercia. Poco importa se in uno scambio criminale le parti sono in una posizione assolutamente asimmetrica: questo avviene anche in quasi tutte le transazioni finanziarie senza alcuno scandalo di statistici ed economisti. E’ una naturale evoluzione del pensiero di Vespasiano, che già 2000 anni fa aveva dimostrato che il denaro “non olet” anche quando proviene da attività poco eleganti. E’ un bel salto logico rispetto al “prodotto materiale” calcolato dagli statistici sovietici, che includeva solo la produzione di oggetti tangibili, ottenuti trasformando le risorse naturali attraverso il duro lavoro (alimenti, vestiti, macchine), ed escludeva perfino i servizi, considerati una sorta di tassa sul valore che veniva creato nelle fabbriche, nei campi e nelle miniere.
L’Eurostat stima che in Italia la “valorizzazione” di spaccio, prostituzione e contrabbando, assieme alle spese private per ricerca e sviluppo (che sono un altro oggetto della prossima revisione del Pil), frutti 1 o al massimo 2 punti percentuali in più di Pil. Tuttavia uno studio della Banca d’Italia di qualche anno fa valutava che, prima della crisi, l’intera economia criminale ammontasse a circa il 10% del prodotto nazionale.
Al di là degli aspetti puramente etici e quantitativi, la rivalutazione del Pil pone alcune questioni piuttosto serie. La prima è molto antica e riguarda il modello di sviluppo che abbiamo in mente. Il Pil, infatti, ha finito per diventare una misura della performance economica complessiva di un paese, e quindi anche un metro per valutare l’efficacia delle politiche economiche. Di conseguenza, qualsiasi governo decente cercherà di far aumentare il Pil, nella convinzione che questo migliori le condizioni di vita dei cittadini, e soprattutto degli elettori ai quali deve rispondere periodicamente. Ma i risultati concreti di questo sforzo dipenderanno in modo cruciale dalla composizione del Pil. Quasi tutto va bene se il Pil è formato solo da beni e servizi realmente “utili”, prodotti pagando salari e profitti altrettanto meritori a chi ha contribuito alla loro produzione e distribuzione. Ma se il successo di un governo è decretato da un Pil che dipende, almeno in parte, dal lavoro di spacciatori, prostitute, sfruttatori, ricettatori e scafisti, allora è inevitabile che anche il migliore dei governanti sarà tentato dal tollerare, o addirittura incoraggiare, attività che finiscono per danneggiare i propri cittadini. I contabili nazionali spesso ricordano che sposando la propria domestica si finisce per ridurre il Pil, oggi possono aggiungere che si può rimediare facilmente a questo inconveniente facendola prostituire o mandandola in giro a spacciare droga.
Dei difetti del PIl si sono occupati a lungo i padri della moderna contabilità nazionale, almeno novanta anni fa, e, più di recente, il tema è stato ripreso dagli statistici che costruiscono indicatori come il Pil verde, lo HDI (indice di sviluppo umano), il BLI (indice di una vita migliore), il BES (benessere equo e sostenibile), PIQ (Pil di qualità), la FIL (felicità interna lorda), ecc. Sembra tuttavia, che l’Eurostat non sia al corrente di questo annoso dibattito. E gli abitanti di qualsiasi quartiere periferico, assediato da spacciatori e prostitute, glie ne saranno certamente grati, visto che ora potranno dire di abitare in appartamenti con vista su una fiorente manifattura, con lo stesso orgoglio con cui, negli anni sessanta, gli operai potevano scorgere la loro fabbrica dal balcone.
Si potrà ribattere che molti alimenti e parecchie trasmissioni televisive, il cui valore è già regolarmente contabilizzato nel Pil, fanno più danni del crack, e che le automobili provocano più morti di una guerra tra gang di contrabbandieri. Oppure si potrà osservare che ciascuno è libero di drogarsi o di vendere il proprio corpo, invece che il proprio cervello, al migliore offerente. Ma l’ultima revisione dei metodi di contabilità nazionale va ben oltre queste considerazioni. Il “nuovo” Pil contribuisce a rovesciare definitivamente il rapporto tra ciò che è riconosciuto socialmente utile e ciò che transita sul mercato. In altre parole, invece di misurare la produzione di ciò che è utile, si misura tutto ciò che si vende e si compra, in base al pregiudizio ideologico che tutto ciò che ha un mercato è comunque un “bene” e non può essere mai un “male”. In questo modo si incoraggiano i governi a “lasciar fare” in tutti i campi, senza preoccuparsi troppo di indirizzare l’economia verso le attività più proficue per la collettività e senza tutelare gli operatori più deboli, come le persone sfruttate dai protettori e la manovalanza dello spaccio e del contrabbando.
C’è anche un altro aspetto paradossale nella rivalutazione del PIl. L’inclusione dell’economia criminale, infatti, darà una mano (inaspettata?) ai funzionari di via XX Settembre, sempre alle prese con il rapporto tra deficit e Pil e tra debito pubblico e Pil. Anche 1-2 punti percentuali in più di reddito aiuteranno a rispettare gli assurdi vincoli imposti dal famigerato Fiscal Compact (per altro figlio di una lunga serie di accordi, dal Trattato di Maastricht, al Six Pack e al Two Pack). C’è da scommettere che tutti i governi dei paesi più indebitati hanno accolto come una manna questa innovazione metodologica, e la stessa Commissione Europea e la BCE (entrambe coinvolte nella stesura dei nuovi standard di contabilità nazionale) hanno benevolmente chiuso un occhio su questa scappatoia, che consente di allentare vincoli in cui nessuno crede più veramente senza perdere la faccia.
Anche in questo caso, una misura statistica inappropriata rischia di favorire politiche sbagliate. Se qualche delinquente libero in più consente di rispettare senza fatica i vincoli europei, allora qualsiasi governo non può che tollerare il lavoro nero e la criminalità più o meno organizzata. Le cose andrebbero in modo molto diverso se, ad esempio, deficit e debito pubblico fossero misurati rispetto alle entrate del debitore, che nel caso specifico è lo Stato. C’è almeno un buon motivo per farlo: in mancanza di una banca centrale che, in caso di necessità, possa assorbire debito pubblico in scadenza, quest’ultimo può essere rimborsato e remunerato solo attingendo alle entrate fiscali, mentre aggredire il Pil (ossia le entrate nette di tutti i cittadini) comporterebbe espropri inimmaginabili perfino in un regime sovietico. Non a caso, qualsiasi banca concede prestiti in base alle entrate personali del richiedente e non a quelle dei suoi parenti e amici. Un’altra ottima ragione per usare le entrate fiscali al posto del Pil è che i dati di bilancio sono (quasi) inoppugnabili, mentre il Pil è soggetto a perturbazioni metodologiche come quella del SEC 2010 e ad errori statistici, tanto è vero che può essere rivisto per tre anni di seguito.
Ma il motivo principale per commisurare deficit e debito alle entrate dello Stato è che ciò incoraggerebbe comportamenti virtuosi da parte dei governi. In particolare, mentre il confronto di queste variabili col Pil induce a chiudere più di un occhio sull’evasione e sull’elusione fiscale, che hanno invece pochi effetti sul Pil, il rapporto tra debito ed entrate può essere facilmente migliorato aumentando l’efficienza del fisco. Per lo stesso motivo, una accorta gestione del patrimonio pubblico risulterebbe preferibile alla svendita dei beni dello Stato, perché quest’ultima soluzione ridurrebbe in modo permanente il flusso delle entrate fiscali. Verrebbe rivalutata anche la fornitura diretta di servizi pubblici, che produce entrate aggiuntive e risulta dunque preferibile all’outsourcing, che è uno dei responsabili del dissesto delle finanze pubbliche. Forse verrebbe meno anche la regola assurda che limita la dinamica della spesa pubblica (non del solo deficit) per i paesi con deficit eccessivo, nella misura in cui la spesa aggiuntiva sia interamente finanziata da imposte e tariffe pubbliche. Insomma il semplice cambiamento del denominatore di un indice statistico ci permetterebbe di vivere in un mondo migliore, con più servizi, più beni pubblici e meno criminalità. Ma evidentemente alla Commissione Europea e nel suo ufficio statistico non sono di quest’avviso.
Oltre tutto, osservando il rapporto tra debito pubblico ed entrate fiscali si scoprono anche parecchie cose interessanti. Per esempio, un paese spesso preso a modello, come gli USA, quest’anno farà registrare un debito che è 3,2 volte le sue entrate fiscali, anche se è poco superiore a quello del Pil. Ovviamente può permetterselo perché la FED, a differenza della BCE, è pronta a monetizzare il debito americano senza bisogno di inasprire la pressione fiscale sui cittadini. Lo stesso vale per il Giappone, che convive abbastanza tranquillamente con un debito che è pari a quasi 2 volte e mezza il suo Pil e circa a 7 volte le sue entrate fiscali.
Guardando al rapporto tra debito ed entrate fiscali, in Europa solo la Grecia e l’Irlanda sono in condizioni peggiori di USA e Giappone, mentre paesi come l’Italia e il Portogallo, pur registrando un rapporto debito-Pil superiore agli USA, possono vantare un confronto molto più favorevole in termini di entrate fiscali. Il rapporto con le entrate, invece che col Pil, fa anche apparire molto meno preoccupante la posizione debitoria dell’Italia, che stacca la Germania di circa il 78% in termini di rapporto debito-Pil, ma solo del 66% in termini di entrate. Lo stesso vale per Belgio, Francia e perfino per la vituperata Grecia. Nel caso austriaco, la posizione rispetto alle entrate è addirittura migliore di quella della Germania. Tre paesi presi spesso come testimonial del successo delle politiche di austerity, come Spagna, Irlanda e Regno Unito, escono fuori molto ridimensionati dall’esame del rapporto tra debito e entrate: la Spagna non si discosta troppo dalla posizione italiana e l’Irlanda sembrerebbe messa molto peggio. Non a caso, anche il Regno Unito dispone di una banca centrale autonoma, in grado di garantire il debito sovrano senza pesare direttamente sulle tasche dei contribuenti.
In conclusione, forse è bene che i cittadini comincino ad occuparsi anche di statistica prima che la statistica si occupi di loro.
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