martedì 27 maggio 2014

Si scrive Pd, si legge Dc.

Si scrive Pd, si legge DcCon Renzi, stravince un partito moderato e di governo. Tutt'altra cosa da quello di un anno. Era questa la famosa vocazione maggioritaria?

L'Espresso di Susanna Turco

L'aveva detto subito, tra generali smorfie di disgusto, che sarebbe andato a cercare i voti anche a destra: e ci è riuscito. Così, come Star Trek, Matteo Renzi è arrivato dove nessun Pd era mai giunto prima. Sfondando non solo la soglia psicologica del 35 per cento – quella mancata da Walter Veltroni – ma addirittura superando quella immaginifica del 40 per cento. Oltre il record del Pc di Berlinguer. Oltre il miglior risultato storico raggiunto nelle Europee: quello del 36, 5 per cento della Democrazia Cristiana nel 1979.
Partito democratico, ultima frontiera: quella di una nuova Dc, appunto. Partito che governa, che bene o male prende la bandiera delle riforme, che dialoga, e dunque che attrae il voto moderato. Ancor prima che si possa fare l’analisi dei flussi, e capire esattamente quali voti hanno traslocato dove, è chiaro infatti che Renzi ha intercettato l’anima moderata dell’Italia: più attraente rispetto al centrismo in dissoluzione e al grillismo in esagerazione. Incarnando un’alternativa: una speranza che non fa paura. Insomma l’operazione che l’altra volta, le altre volte, non era riuscita: “Il Pd sta realizzando la sua vocazione maggioritaria”, dice infatti compunto Davide Faraone. Ma per farlo, con Renzi, il partito ha cambiato pelle. Lo dice anche Ivan Scalfarotto, nella notte: “Il Pd dell’anno scorso e quello di quest’anno sono due partiti diversi”.


Il Pd di Bersani, apoteosi dell’identitarismo post comunista dopo le declinazioni di Veltroni e Franceschini, solo un anno fa si era inchiodato al 25 per cento dicendo no a Berlusconi e “magari” ai Cinque Stelle. Il Pd di Renzi ha detto sì, fino in fondo, al Cavaliere e in fondo un deciso no a Grillo. E ha vinto trattando l’alleanza col centrodestra – anche quella di governo con l’Ncd – come una propria creatura, più che come il frutto controvoglia di larghe intese. Manovrando il compromesso, piuttosto che subirlo.

Ci voleva un capo svezzato coi diccì, per riuscirci? Può darsi. Ci voleva anche, però, un quarantenne cresciuto a pane e berlusconismo, con quel senso personalistico della leadership. Bastava guardare il tavolone della sede del Nazareno attorno a cui si sono riuniti i vincenti vertici democratici: ministri, capigruppo, renziani di punta. Tutti sorridenti e tutti in fondo intercambiabili: mancava giusto lui, il regista e prim’attore.

E dopo aver stravinto il referendum sulla propria legittimazione a governare – andando in questo oltre Massimo D’Alema, che nel 2000 fu azzoppato dalle regionali – Renzi adesso dovrà scegliere se continuare a governare col centrodestra in disarmo, o farsi prendere dalla voglia di incassare presto alle urne un raccolto così generoso. Il suo Pd, al momento, vale poco meno del doppio dei Cinque stelle, oppure di Fi, Ncd e Fratelli d’Italia messi insieme.










Il voto dunque è una tentazione: “Si potrebbe averla, ma abbiamo l’impegno delle riforme da approvare”, ha dichiarato nella notte Maria Elena Boschi. Già, le riforme. Se l’Italicum fosse legge, con questi risultati il Pd vincerebbe al primo turno.

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