Nelle elezioni della più grande democrazia del mondo si è affermato il
partito di Narendra Modi, leader carismatico di una destra che mescola
liberismo reaganiano e appelli identitari e potenzialmente incendiari
contro la minoranza musulmana.
micromega di Guido Caldiron
«L’India
ha scelto di procedere verso un “fascismo soft”». Così, dalle colonne
di The Times of India, Kanti Bajpai, uno dei più noti politologi del
paese, ha commentato la schiacciante vittoria dei nazionalisti indù che,
al termine di lunghissime operazioni di voto durate più di un mese e
che hanno coinvolto complessivamente oltre 800 milioni di indiani, si
sono aggiudicati nei giorni scorsi le elezioni politiche nazionali. Il
Bharatiya Janata Party, Partito del popolo indù, guidato da Narendra
Modi, non solo ha superato il numero di seggi, 272, che gli avrebbe
permesso di dominare il parlamento e di governare da solo, ne ha
ottenuti infatti dieci di più, ma ha anche inflitto la più cocente
sconfitta della sua storia al Partito del Congresso - e al suo attuale
primo ministro, Manmohan Singh, 81 anni -, quello diretto da generazioni
dalla dinastia della famiglia Gandhi, la forza politica che ha segnato
di più le vicende del paese fin dall’indipendenza dalla Gran Bretagna
nel 1947. Una vittoria nel segno del nazionalismo ma anche della
promessa di un nuovo miracolo economico indiano che porti l’India a
competere in particolare con l’espansione produttiva cinese in tutta
l’area asiatica.
Repubblica indiana o Stato teocratico indù?
Per
Bajpai, docente di relazioni internazionali prima negli Stati Uniti e
quindi nell’Università indiana di Dehra Dun e in quella di Singapore, il
rischio che corre ora la democrazia indiana è davvero grande, anche se
il peggio potrebbe non essere ancora arrivato. «Parlo di “fascismo soft”
- spiega l’accademico noto e apprezzato anche in Occidente -, piuttosto
che “duro e puro”, perché il paese è comunque attraversato da grandi
differenze, ha una cultura democratica di fondo e il braccio
amministrativo di cui potrà godere il governo centrale resta comunque
debole. Non è perciò detto che coloro che sostengono un fascismo più
esasperato riusciranno ad imporsi in tutto il territorio indiano».
Le
preoccupazioni di questo noto intellettuale si aggiungono a quelle di
una parte della società indiana, e di molti osservatori internazionali,
che temono che il paese possa conoscere ora una deriva dagli esiti
incerti. A suscitare la maggiore inquietudine è il profilo stesso del
vero protagonista di queste elezioni: Narendra Modi, leader carismatico
della destra indù, oratore capace di infiammare le folle dei suoi
sostenitori, spesso accusato di estremismo e di aver in passato
sostenuto le violenze perpetrate contro i musulmani del paese, ma le cui
reali intenzioni per il governo dell’India non sono mai state chiarite
fino in fondo. Quali paure si celano dietro a questa incertezza?
Come
ha sottolineato lo storico indiano Ramachandra Guha, autore di una
monumentale biografia del Mahatma Gandhi, «alla vigilia di queste
elezioni in molti si sono chiesti se l’eventuale vittoria di Modi e dei
nazionalisti indù non potesse condurre alla formazione di un potere
autoritario, per non dire fascista, nel paese. I più ferventi detrattori
del leader del Bjp parlano di lui come di un Hitler o di un Mussolini
indiano. Altri evocano lo Stato d’emergenza varato da Indira Gandhi
negli anni Settanta - a partire dal 1975 furono sospese per un paio
d’anni in tutto il territorio nazionale le garanzie democratiche -,
spiegando come ci sia oggi di nuovo il rischio dell’arresto degli
oppositori politici, della censura sulla stampa, della repressione e
dell’isolamento delle minoranze. Questo, oltre al pericolo del ritorno
ad una politica estera avventurista che potrebbe far salire
ulteriormente le tensioni con il Pakistan e la Cina». E, precisa Guha,
«non si tratta di preoccupazioni infondate».
Infatti, spiega
ancora lo storico indiano, «Modi appartiene a quegli ambienti del
nazionalismo di destra che non hanno mai abbandonato l’idea di
rimpiazzare la Repubblica indiana, che i suoi fondatori hanno voluto
fondata su una netta separazione tra la religione e le istituzioni, con
uno Stato teocratico indù. E se si è persuasi che gli indù meritino un
posto privilegiato o siano più legittimati di altri a vivere in questo
paese, oltre che esprimere posizioni contrarie ala nostra Costituzione
credo ci si attesti su una linea che più che nazionalista definirei
apertamente sciovinista, se non fanatica. E questo sciovinismo fa
intrinsecamente parte dell’ideologia e della formazione politica del
nuovo premier indiano».
Del resto, l’ombra del razzismo e di una
cultura totalitaria, hanno accompagnato l’intero sviluppo storico del
nazionalismo locale.
Contro gli inglesi, le camicie nere come modello
Nata
negli anni Venti del Novecento, quella che ha assunto il nome di
Hindutva, vale a dire l’esistenza di un nesso tra “l’essere indiani e
l’essere indù”, è un’ideologia che considera parte della civiltà del
paese, per altro fondata su un meticciato millenario, la sola
maggioranza religiosa induista, circa l’80% della popolazione, mentre
sostiene che gli appartenenti alle minoranze musulmana, 14%, e
cristiana, 2%, dovrebbero praticare i loro culti in privato e
identificarsi pubblicamente con gli indù. Le radici culturali di questo
fenomeno sono da ricercarsi nei movimenti riformatori induisti del XIX e
del XX secolo che proclamarano l’unicità della scrittura santa dei
Veda, i quattro libri che contengono per gli indù tutta la saggezza
divina, e negarono legittimità a tutte le altre religioni del paese.
Ad
incarnare nella società indiana questo nazionalismo a base religiosa,
fu però fin dal 1925 la potente Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss),
l’Associazione dei volontari nazionali, un’organizzazione paramilitare
creata sul modello delle camicie nere del fascismo italiano. Già
all’indomani della Prima guerra mondiale, la Rss aveva offerto una
chiara testimonianza delle sue tendenze, coniando lo slogan «Hindu,
hindi, hindustan» (Un popolo, una lingua, una cultura), più tardi
esprimerà aperta ammirazione per la Germania hitleriana, e dando vita ad
una violenta offensiva contro i musulmani. Come ricorda lo studioso Guy
Deleury, nel suo Il modello indù (Sansoni, 1982), «queste associazioni
paramilitari di estrema destra, direttamente ispirate al nazismo al
tempo della lotta anti-inglese, poterono sviluppare la loro propaganda
contro i musulmani, a tal punto che ben presto commisero l’irreparabile:
nel 1948 Gandhi fu assassinato da un membro della Rss». E il successore
del Mahatma, Nehru, avrebbe represso per decenni questo gruppo, ridotto
per molto tempo alla semiclandestinità, ma pur sempre ben radicato
nella società indiana.
Così, ancora oggi, la vecchia Rss, serve
da base per i successi del partito dei nazionalisti indù, il Bjp.
«Questo gruppo - ha scritto Cristophe Jaffrelot, specialista del Cnrs di
Parigi, e autore de L’Inde contemporaine (Fayard, 2014) - ha costruito
un circuito di 25.000 sezioni locali con oltre due milioni di membri. Ma
l’influenza del Rss è ancora più vasta: i suoi uomini hanno, fin dagli
anni Cinquanta, creato una fitta rete di relazioni, arrivando ad
assumere il controllo, tra l’altro, di uno dei principali sindacati
studenteschi, del maggior sindacato operaio, di una serie di scuole
molto apprezzate dal ceto medio e di alcune associazioni specializzate
in “lavori socialmente utili” nelle zone tribali o nelle baraccopoli».
Ed
è dai ranghi dei paramilitari indù che è nato, inizialmente come sua
costola “politica”, il Bharatiya Janata Party, la formazione del nuovo
premier indiano che continua ancora oggi a sostenere il progetto di un
Hindu Rashtra, uno “Stato indù puro”, a lungo difeso dal Rss, e ad
indicare i musulmani come “il nemico interno” del paese. Temi tornati
drammaticamente d’attualità negli ultimi anni all’ombra delle nuove
contraddizioni sociali emerse in India. Secondo il sociologo Ashis
Nandy, intervenuto sul tema dalle pagine della rivista teologica
Concilium: «E’ la collera degli indiani che si sono progressivamente
allontanati dalle loro tradizioni, sedotti dalle promesse della
“modernità indiana”, e che si sentono ora abbandonati e umiliati ad
indirizzarsi contro le minoranze. Per un gran numero di indiani della
piccola borghesia urbana della prima generazione, la modernizzazione -
in particolare la sotto-categoria che va sotto il nome di “sviluppo” - è
stata un fallimento. E’ in questo contesto che i musulmani sono stati
indicati come un facile capro espiatorio».
Questo l'albero di famiglia ideologico del nuovo premier indiano. Ma di chi si tratta esattamente?
Il mercante di morti che piace alle tv
Classe
1950, Narendra Modi ha in effetti mosso i suoi primi passi in politica
già da adolescente all’interno del Rss, prima di raggiungere i vertici
nazionali del Partito del popolo indù. Cresciuto in una famiglia di
piccoli commercianti della città di Ahmedabad, nello Stato occidentaloe
del Gujarat, ai confini con il Pakistan, Modi è stato eletto Primo
ministro della sua regione nel 2001 e si è aggiudicato anche i
successivi quattro mandati.
Dal Gujrat, l’uomo nuovo della
politica indiana, cui l’edizione asiatica di Time aveva già dedicato una
copertina da tempo, inserendolo alcuni anni fa tra le 100 figure più
influenti del pianeta, ha iniziato a farsi conoscere grazie ad
un’immagine a due facce: da un lato il volto sorridente dell’alfiere del
nuovo sviluppo economico indiano, dall’altro lo sguardo arcigno del
nazionalista irriducibile. E, accanto a questo, una dote evidente di
comunicatore che ne ha fatto in breve un beniamino della stampa popolare
e della tv, ma soprattutto una presenza quotidiana sui social network e
la rete.
Intanto le ombre. Nel 2002 fu accusato di aver
sostenuto, e in ogni caso non fermato i progrom anti-musulmani scoppiati
proprio nello Stato che guidava e che fecero oltre un migliaio di
vittime - la presidente del Partito del Congresso, Sonia Ghandi, lo
aveva definito in quell’occasione come un «mercante di morti»,
altrettanto dura la replica dell’interessato: «La signora (di origini
italiane, nda), è una straniera»; per questo gli Stati Uniti avrebbero
più tardi rifiutato a Modi un visto d’ingresso nel paese. Intervistato
dalla Reuters alla fine dello scorso anno, il personaggio ha ribadito di
considerarsi «prima di tutto un nazionalista indù», mentre non ha
mancato lungo l’intera campagna elettorale che si è appena conclusa di
far leva su cliché e pregiudizi contro i musulmani che dice di
considerare come «appartenenti ad una religione non indiana». Quanto al
piccolo pantheon dei maestri del passato che cita spesso come fonte
d’ispirazione, nomi come Vivekananda, Deen Dayal Upadhyaya e Syama
Prasad Mookerjee, si tratta, come ha spiegato Le Monde, sempre e
soltanto di ideologi del nazionalismo induista.
Quindi, la luce.
L’immagine che Modi ama però esibire con più disinvoltura è quella di
“padre” del modello economico del Gujarat, lo Stato indiano dove
nell’ultimo decennio il processo di urbanizzazione e di
industrializzazione ha raggiunto i maggiori risultati rispetto al resto
del paese, soprattutto grazie ad una politica di forte riduzione delle
tasse per gli imprenditori. La fabbrica dell’industria automobilistica
Tata, installata nella periferia di Ahmedabad, dove vengono costruite le
famose Nano, vetture a basso costo, che avrebbero dovuto incarcare il
nuovo sviluppo industriale indiano, rimane il simbolo più evidente di
questa crescita produttica. E questo, malgrado il clamoroso fiasco
commerciale dell’auto che, sulla carta, doveva rivaleggiare con i
modelli cinesi e coreani sul mercato asiatico e su quello interno del
Subcontinente indiano. Quel che più conta, Modi e il Bjp si sono
mostrati da tempo particolarmente vicini al mondo degli affari, tanto da
godere di un forte sostegno economico da parte di questo ambiente anche
in occasione delle elezioni di questi giorni.
In realtà, se sul
boom del Gujarat sono state sollevate molte eccezioni - il Bjp e il suo
leader sono stati tra l’altro accusati di favorire le imprese più
vicine al partito -, è certo che l’attuale stagnazione economica
dell’India ha fatto sentire il suo effetto nelle urne.
Un manager premier per un ceto medio in crisi
A
fronte della lentezza dei processi decisionali, e talvolta della
corruzione, che hanno caratterizzato negli ultimi anni la gestione delle
istituzioni da parte del Partito del Cogresso, Modi ha promesso metodi e
stile manageriale, una deregulation generalizzata del mercato del
lavoro e delle norme che vincolano gli imprenditori - c’è chi ha parlato
dell’arrivo di un Reagan indiano - e un taglio alle sovvenzioni ai più
poveri, spesso percepite dalla nuova classe media cresciuta nei
distretti high tech del paese, come un inutile peso sulle casse dello
Stato. L’obiettivo dichiarato - più che sul programma, che non è stato
presentato fino all’inizio della tornata elettorale ad aprile, i
nazionalisti indù hanno puntato tutto sul carisma di Modi -, è quello di
tornare ad alimentare la crescita del paese, oggi stimata la metà di
quanto non fosse all’inizio degli anni Duemila quando si parlava
esplicitamente di “miracolo indiano”. E il ceto sociale cui il Bjp si è
indirizzato prioritariamente, è stato la nuova classe media, che attende
ancora di veder realizzare i sogni di affermazione e arrichimento nati
all’ombra del sogno indiano.
Due le categorie di elettori che
secondo lo storico Ramachandra Guha hanno così contribuito di più al
successo di Modi: «Da un lato un nucleo solido di hindutvawadis
(sostenitori dell’ideologia estremista indù), dall’altro un gruppo più
eterogeneo di cittadini disincantati e delusi dal Partito del Congresso,
che pensano che una volta insediato a New Delhi il leader del Bjp saprà
calmare i suoi ardori nazionalisti e concentrarsi sui temi dello
sviluppo economico». Questo, mentre per il politologo Kanti Bajpai, le
ragiori di questa ampia affermazione elettorale vanno ricercate in
diversi fattori: «La diffusione dell’ideologia nazionalista “alla Modi”,
il sostegno delle imprese, grandi e piccole e del ceto medio, lo spazio
e la visibilità che i media hanno assicurato al leader del Bjp».
In
realtà, il Partito del popolo indù, più volte in testa nelle elezioni
per tutti gli anni Novanta, aveva già guidato l’esecutivo indiano tra il
1998 e il 2004. Allora il premier Atal Binari Vajpayee, che a
differenza di Narendra Modi era per altro considerato “un moderato” del
fronte nazionalista, aveva spaventato il mondo promuovendo una serie di
test nucleari, dando vita ad un drammatico braccio di ferro con il
vicino islamico, il Pakistan. La piattaforma che aveva portato i
nazionalisti al potere all’epoca poggiava su tre punti principali: la
costruzione di un tempio induista sulle macerie della moschea di
Ayodhya, città dell’Uttar Pradesh dove sarebbe nato il dio Rama,
distrutta nel 1992 dagli estremisti indù; l’adozione di un codice civile
uniforme che eliminasse il ricorso alla sharia per gli indiani di
religione musulmana; l’abrogazione dell’articolo 370 della costituzione
che concedeva al Kashmir, a maggioranza musulmana, una parziale
autonomia.
Oggi Modi e il Bjp si vogliono rassicuranti, parlano
soprattutto di economia e di libero mercato, pur continuando a soffiare
sul fuoco della “nazione indù”. Un clima che già all’inizio del decennio
la scrittrice Arundhati Roy aveva riassunto in questi termini nella
raccolta di saggi Guerra è pace (Guanda, 2002): «Hanno sviluppato e reso
quasi perfetta la loro morsa a tenaglia: mentre un braccio è impegnato a
vendere la nazione a tranci, l’altro, per distrarre l’attenzione,
orchestra un folle coro di ringhi e di latrati nazionalisti. (...)
L’aria è densa di bruttura e nel vento si avverte l’inconfondibile puzzo
del fascismo»
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