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Che quadro ci consegna la tornata elettorale continentale in Italia e nel resto d'Europa? Alcune riflessioni collettive.
Le elezioni europee consegnano una mappa politica che insiste, grosso modo, su alcune precise traiettorie: l'avanzata delle formazioni populiste o fasciste dichiaratamente anti-europee; il sostanziale ridimensionamento dei partiti di governo, soprattutto socialdemocratici e centristi (con le significative eccezioni della Cdu tedesca e del Pd italiano), responsabili delle politiche di austerità; l'affermazione in alcuni paesi delle liste di sinistra, indipendentiste o espressione di "movimenti" sociali radicali e radicati. Allo stesso tempo, prosegue la lenta diserzione elettorale europea che ha visto solo il 43% della popolazione recarsi alle urne, con la significativa anomalia italiana che, nonostante un calo di circa sette punti rispetto al 2009, vede una partecipazione di circa il 58% degli aventi diritto.
Le elezioni definiscono un campo europeo segnato da risposte eterogenee alla stessa sfida comune, rappresentata dalle politiche di austerità che trovano per la prima volta un'opposizione diffusa. La qualità di questa opposizione, sospesa tra rigurgiti sovranisti e opzioni alternative ma europeiste, è proprio il campo di interesse e di azione dei movimenti sociali antiliberisti. Ma intanto, finalmente, si rompe la dualità fin qui rappresentata nel dibattito pubblico europeo, che vedeva da una parte gli integralisti del rigore e dell'austerità e dall'altra populisti e fascisti.
L'Europa fondata sull'asse franco-tedesco non esiste più, difficilmente Renzi prenderà il posto del presidente francese Hollande, perché nelle ragioni del suo successo emerge determinante una narrazione di cambiamento e una prefigurazione di politica economica che intende segnare una discontinuità con il rigore tedesco. Vero o falso, è un fatto che le prime mosse del premier italiano disegnano forme "ridistributive" (come il bonus da 80 euro per i lavoratori dipendenti) che, seppur ambivalenti e corredate da tagli di altra natura, poco hanno a che fare con la tradizione keynesiana. La stessa recente decisione del governo Merkel di elevare il salario minimo tedesco aggiunge un'indizio in più all'ipotesi, che si fa largo in tutta Europa, di ristrutturare e superare la gestione della crisi fondata esclusivamente su lacrime e sangue.
In Italia il cappotto di Renzi e del Pd andrebbe analizzato per quello che è, senza alibi consolanti o convinzioni d'acciaio buone per circuiti militanti ridotti a privé politici. Per non lasciarci sopraffare dallo stupore disarmato o da comode scorciatoie, occorre riprendere in mano l'analisi materiale della società e il suo rapporto con la politica e le istituzioni nel mezzo di una crisi di "nuovo conio".
1. Due frame sintetizzano la vittoria renziana: l'onda di consenso ex ante per il bonus di 80 euro rivolto a dieci milioni di persone, che ha rotto simbolicamente (e ambiguamente) una moderazione salariale firmata da più di venti anni di concertazione e resa sindacale; una squadra di governo fatta di "giovani e donne" al cui cospetto le vecchie foto di famiglia di palazzo Chigi, dei Mastella, Berlusconi e Letta, sembrano un concerto degli Abba invaso dai Sex Pistols.
Renzi ha imparato benissimo la lezione del Biscione, gioca all'attacco, pressa a tutto campo, corrompe gli arbitri e costruisce il suo palinsesto comunicativo integrato (tv, web, social) nel tempo della grigia austerità e delle depressioni collettive. Spinge ancor di più l'acceleratore dell'"innovazione" senza progresso, delle "riforme" del lavoro e delle misure regressive del piano casa, ma riesce ugualmente a rappresentarsi come agente credibile di contrattazione contro le rigidità di Bruxelles e Francoforte.
Matteo Renzi, con il suo "savoir-faire", avrà anche il compito di impersonificare oltreoceano (alla luce del prossimo semestre europeo a presidenza italiana) "la grande bellezza" dello scenario continentale post-austerity e post-riformista. Negli Usa, si sa, il film è stato molto apprezzato.
2. Renzi si è mosso tra il vuoto di una sinistra subalterna e residuale e una opposizione, il M5S, che nel giro di un anno sembra essere diventata uno sparring partner ideale. Una "rappresentanza contro la rappresentanza", che ripropone una versione traslata e moralistica dell'autonomia del politico, che tratta la società e i movimenti come bambini stupidi da educare alla pedagogia grillina, che cavalca e riduce a slogan plebiscitari le due grandi domande poste dai movimenti globali negli ultimi anni: quale democrazia e quale distribuzione della ricchezza al tempo del colera neoliberale?
Questa volta il giochetto di mischiare "reddito di cittadinanza" e le "cose buone della legge Biagi", il No Tav e i rigurgiti sovranisti, i beni comuni con i satelliti per fermare i barconi dei migranti, non ha funzionato. Alla fine della fiera, il "movimento" nato dalla critica della casta partitica ottiene il risultato opposto, cioè la rilegittimazione di un intero sistema politico e del suo pilastro principale. Una gigantesca opera di anestetizzazione e recupero del conflitto sociale, ridotto a narrazione infantile e a mero strumento di consenso elettorale.
Nessuna porta si aperta nel Palazzo, nessuna finestra è stata spalancata sulle istanze sociali che si volevano rappresentare. Nell'era di Grillo le lotte - con la variante della Val Susa, una storia densa, robusta e autonoma, allergica alle strumentalizzazioni - sono viste che espressioni brutali di istanze giuste ma preistoriche, figlie di un'epoca in cui la soluzione a portata di mano ancora non si era palesata: la scheda nell'urna con la X sul simbolo pentastellato.
Dietro l'exploit imprevisto di Renzi - imprevisto da tutti, da noi, dai sondaggi, dalle piazze (semi)vuote, dai "mercati", dai politologi di primo e ultimo pelo - intravediamo in controluce i profili dimessi del duo delle meraviglie, Grillo e Casaleggio, divenuti il bersaglio facile del leader democratico il quale, concedendo loro gli onori delle armi, li umilia due volte nel giro di 24 ore.
3. Il nostro paese ha un altro record, quello della presenza più flebile della "sinistra", quella cosa che in altri paesi si situa sostanzialmente alla sinistra e dintorni dei socialisti e dei socialdemocratici di turno, garanti delle politiche neoliberali. A partire dalla vittoria straordinaria di Syriza, primo partito in Grecia, passando per la Spagna della lista Podemos e della sinistra repubblicana catalana, l'Irlanda dello Sinn Féin, la Svezia dell'exploit femminista, tanto per citare solo i casi più significativi, si affermano formazioni politiche della sinistra sociale, indipendentista e di movimento situate che si battono per un'altra Europa. Esperienze molto eterogenee che però evidenziano due condizioni comuni necessarie: l'esistenza di una movimentazione sociale all'altezza della crisi e la capacità dei residui della sinistra storica di rimettersi in discussione dentro le sfide contemporanee.
Nel nostro paese, tutta la sinistra politica - Sel, Rifondazione, quel che resta dei Verdi - non è stata in grado né hanno voluto mettersi a disposizione di un processo più largo, capace di promuovere un laboratorio all'altezza delle istanze sociali, di democrazia radicale e di conflitto su beni comuni e precarietà espresse dai movimenti negli ultimi anni. Resta aperta la sfida su come si costruisce un laboratorio politico-sociale nel punto di intersezione tra i residui di sovranità della rappresentanza e un possibile terreno di sperimentazione delle "istituzioni del comune", di forme anomale di autogoverno urbano, capaci di tenere insieme insistenza territoriale metropolitana e spazio europeo come sfida di costruzione di nuova democrazia.
Il superamento della soglia del 4 per cento della lista Tsipras, avvenuta nello schiacciamento del dibattito pubblico tra Grillo e Renzi, può significare la nascita di uno spazio della sinistra politica aperto ai movimenti e alla società non subalterno al Pd? Dai primi commenti post voto, provenienti dalle eterogenee forze e personalità che hanno dato vita alla lista, sembrano esserci idee molto diverse in merito.
Le soggettività di movimento, da parte loro, hanno una doppia sfida, complicatissima: da una parte, riaprire spazi pubblici di conflitto credibili e di massa, innanzitutto sui terreni principali dell'offensiva neoliberale, lavoro e beni comuni, per contrastare gli esiti definitivi di quella inedita accumulazione originaria avvenuta in questi anni di austerità e saccheggio della ricchezza sociale. Dall'altra, non ridurre la "crisi della rappresentanza" alla sua comoda volgarizzazione, alle scorciatoie para-insurrezionali, all'autismo di un'autonomia del sociale ideologica, per rimettere al centro la ricerca materialistica di nuove istituzioni democratiche, che sappiano tenere insieme insistenza locale e spazio transnazionale.
In tutta Europa l'affermazione delle liste antiliberiste ed "altereuropeiste" non si sarebbe data in assenza dei decisivi processi di politicizzazione di massa e conflitto sociale espressi dai movimenti negli ultimi anni, che hanno saputo trasformare e ricollocare nello spazio continentale la sfida del rapporto con la rappresentanza politica.
L'esito di queste elezioni riapre anche il campo di questa sfida.
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