La lettera completa di addio del Subcomandante Insurgente Marcos.
TRA LUCE ED OMBRA.
Comitato Chiapas "Maribel"
Sub-comandante Marcos
La Realidad, Pianeta Terra
Maggio 2014
Compagna, compañeroa, compagno:
Buona notte, sera, giorno, qualunque sia la vostra geografia, tempo e modo.
Buone albe.
Chiedo in particolare alle compagne, compagni e compañeroas della Sexta che vengono da altre parti, ai media liberi compagni, di avere pazienza, tolleranza e comprensione per quello che dirò, perché queste saranno le mie ultime parole in pubblico prima di smettere di esistere.
Mi rivolgo a voi e a coloro che attraverso di voi ci ascoltano e ci guardano.
Forse all’inizio, o durante questo discorso, potrebbe nascere nel vostro cuore la sensazione che qualcosa sia fuori luogo, che qualcosa non quadri, come se mancassero dei tasselli per dare un senso al rompicapo che vi si sta delineando. Come se mancasse qualcosa.
Forse dopo, giorni, settimane, mesi, anni, decenni si capirà quello che diciamo ora.
Le mie compagne e compagni dell’EZLN a tutti i livelli non mi preoccupano, perché questo è il nostro modo: camminare, lottare, sapendo che manca sempre ancora qualcosa.
Inoltre, nessuno si offenda, ma l’intelligenza delle/dei compas zapatisti è molto al di sopra della media.
Per il resto, ci inorgoglisce che sia davanti a compagne, compagni e compañeroas, sia dell’EZLN che della Sexta che si comunica pubblicamente questa decisione collettiva.
Ed è bello che sarà attraverso i media liberi, alternativi, indipendenti di questo arcipelago di dolori, rabbie e degna lotta che chiamiamo “la Sexta“, che verrete a conoscenza di quello che dirò dovunque vi troviate.
Se a qualcun altro interesserà sapere che cosa è successo in questo giorno dovrà rivolgersi ai media liberi per saperlo.
Bene dunque. Benvenute e benvenuti nella realtà zapatista.
I.- Una decisione difficile.
Quando nel 1994 con sangue e fuoco irrompemmo ed interrompemmo, per noi zapatisti non iniziava la guerra.
La guerra dell’alto, con la morte e la distruzione, la spoliazione e l’umiliazione, lo sfruttamento ed il silenzio imposti al vinto, la stavamo già subendo da secoli.
Quello che per noi inizia nel 1994 è uno dei molti momenti della guerra di quelli che stanno in basso contro quelli che stanno sopra, contro il loro mondo.
Quella guerra di resistenza che si svolge giorno per giorno per le strade di ogni angolo dei cinque continenti, nelle campagne e sulle montagne.
La nostra, come quella di molti e molte del basso, era ed è una guerra per l’umanità e contro il neoliberismo.
Contro la morte, noi chiedevamo vita.
Contro il silenzio, esigevamo la parola ed il rispetto.
Contro l’oblio, la memoria.
Contro l’umiliazione e il disprezzo, la dignità.
Contro l’oppressione, la ribellione.
Contro la schiavitù, la libertà.
Contro l’imposizione, la democrazia.
Contro il crimine, la giustizia.
Chi con un po’ di umanità nelle vene potrebbe o può contestare queste richieste?
Ed in quei momenti molti ascoltarono.
La guerra che iniziammo ci diede il privilegio di raggiungere ascolti e cuori attenti e generosi in geografie vicine e lontane.
Mancava certo qualcosa, e manca ancora, ma allora ottenemmo lo sguardo dell’altro, il suo ascolto, il suo cuore.
Allora ci vedemmo nella necessità di rispondere ad una domanda decisiva:
“Che cosa fare?”
I tetri conti della vigilia non includevano la possibilità di porci domande. Cosicché questa domanda ne portò altre:
Preparare quelli che seguiranno il cammino della morte?
Formare altri e migliori soldati?
Investire impegno nel migliorare la nostra malconcia macchina da guerra?
Fingere dialoghi e predisposizione alla pace, ma continuare a preparare nuovi colpi?
Ammazzare o morire come unico destino?
O dovevamo ricostruire il cammino verso la vita, quello che avevano rotto e rompono dall’alto?
La strada non solo dei popoli originari, ma anche di lavoratori, studenti, maestri, giovani, contadini, oltre a tutte le differenze che si celebrano in alto, e sotto si perseguono e si puniscono.
Dovevamo segnare col nostro sangue il cammino che altri dirigono verso il Potere, o dovevamo rivolgere il cuore e lo sguardo verso quelli che siamo e quelli che sono quello che siamo, i popoli originari, guardiani della terra e della memoria?
Nessuno allora sentì, ma con le nostre prime incerte parole avvertimmo che il nostro dilemma non era tra negoziare o combattere, bensì tra morire o vivere.
Chi allora avesse inteso che quel precoce dilemma non era individuale, forse avrebbe capito meglio quello che è successo nella realtà zapatista negli ultimi 20 anni.
Ma vi dicevo che ci imbattemmo in quella domanda e quel dilemma.
Ed abbiamo compiuto una scelta.
Invece di formare guerriglieri, soldati e squadroni, abbiamo formato promotori di educazione, di salute, e sono state lanciate le basi dell’autonomia che oggi stupisce il mondo.
Invece di costruire quartieri militari, migliorare il nostro armamento, innalzare muri e trincee, sono state costruite scuole, ospedali e centri di salute, abbiamo migliorato le nostre condizioni di vita.
Invece di lottare per occupare un posto nel Partenone delle morti individualizzate del basso, abbiamo scelto di costruire la vita.
Tutto questo in mezzo ad una guerra che non perché sorda fosse meno letale.
Perché compas, una cosa è gridare “non siete soli”, ed un’altra affrontare solo col proprio corpo una colonna blindata di truppe federali, come successe nella zona degli Altos del Chiapas, e sperare che con un po’ di fortuna qualcuno lo venga a sapere, e sempre con un po’ di fortuna sperare che chi lo viene a sapere si indigni, e che con un altro poco più di fortuna chi si indigna faccia qualcosa.
Nel frattempo, i blindati vengono fermati dalle donne zapatiste, ed in mancanza d’altro è stato con improperi e pietre che il serpente di acciaio dovette tornare indietro.
E nella zona nord del Chiapas subire la nascita e lo sviluppo delle guardias blancas, riciclate allora come paramilitari; e nella zona Tzotz Choj le aggressioni continue di organizzazioni contadine che di “indipendente” a volte non hanno nemmeno il nome; e nella zona della Selva Tzeltal la combinazione di paramilitari e contras.
Ed una cosa è gridare “tutti siamo marcos” o “non tutti siamo marcos”, a seconda del caso o cosa, ed un’altra la persecuzione con tutto il macchinario di guerra, l’invasione dei villaggi, il “rastrellamento” delle montagne, l’uso dei cani addestrati, le pale degli elicotteri blindati che agitano le cime delle ceibe, l’ordine “vivo o morto” lanciato nei primi giorni di gennaio del 1994 e che raggiunse il suo livello più isterico nel 1995 e nel resto del sessennio dell’allora impiegato di una multinazionale, e che questa zona di Selva di Confine ha patito dal 1995 ed al quale si somma poi la stessa sequenza di aggressioni di organizzazioni contadine, l’uso di paramilitari, la militarizzazione, la persecuzione.
Se c’è un mito in tutto questo non è il passamontagna, ma la menzogna che si ripete fin da quei giorni, perfino ripresa da persone molto istruite, e cioè che la guerra contro gli zapatisti è durata solo 12 giorni.
Non farò un resoconto dettagliato. Qualcuno con un po’ di spirito critico e serietà può ricostruire la storia, e sommare e sottrarre per ottenere il risultato, e dire se sono stati e sono più i giornalisti dei poliziotti e soldati; se sono state più le lusinghe delle minacce e gli insulti, se il prezzo offerto era per vedere il passamontagna o per catturarlo “vivo o morto”.
In quelle condizioni, a volte solo con le nostre forze ed altre con l’appoggio generoso ed incondizionato di gente buona di tutto il mondo, si è andati avanti nella costruzione ancora incompiuta, certo, ma già definita di quello che siamo.
Non è dunque solo una frase, fortunata o sfortunata, a seconda se la si guardi dall’alto o dal basso, questa “siamo qui i morti di sempre, che muoiono di nuovo, ma ora per vivere“. È la realtà.
E quasi 20 anni dopo…
Il 21 dicembre del 2012, quando politica ed esoterismo coincidevano come altre volte nel predire catastrofi che cadono sempre sui soliti, quelli in basso, abbiamo replicato il colpo di mano del 1° gennaio ’94 e, senza sparare un solo colpo, senza armi, col nostro solo silenzio, abbiamo di nuovo rovesciato la superbia della città culla e nido del razzismo e del disprezzo.
Se il primo gennaio 1994 migliaia di uomini e donne senza volto attaccarono e presero le guarnigioni che proteggevano le città, il 21 dicembre 2012 sono state decine di migliaia di persone a prendere senza parole gli edifici da dove si celebrava la nostra scomparsa.
Il solo fatto inappellabile che l’EZLN non solo non si era indebolito, e tanto meno era scomparso, ma che era cresciuto quantitativa e qualitativamente, sarebbe stato sufficiente a qualsiasi mente mediamente intelligente per rendersi conto che, in questi 20 anni, qualcosa era cambiato all’interno dell’EZLN e delle comunità.
Forse più di qualcuno penserà che sbagliammo nella scelta, che un esercito non può né deve impegnarsi per la pace.
Per molte ragioni, certo, ma la principale era ed è perché con una scelta diversa avremmo finito per sparire.
Forse è vero. Forse abbiamo sbagliato a scegliere di coltivare la vita invece di adorare alla morte.
Ma noi abbiamo scelto senza ascoltare quelli di fuori. Non ascoltando quelli che chiedono ed esigono sempre la lotta fino alla morte, quando i morti però li mettono gli altri.
Abbiamo scelto guardandoci ed ascoltandoci, come il Votán collettivo che siamo.
Abbiamo scelto la ribellione, cioè, la vita.
Questo non vuol dire che non sapessimo che la guerra dell’alto avrebbe cercato e cerca di imporre di nuovo il suo dominio su di noi.
Sapevamo e sappiamo che avremmo sempre dovuto difendere ciò che siamo e come siamo.
Sapevamo e sappiamo che continuerà ad esserci la morte affinché ci sia la vita.
Sapevamo e sappiamo che per vivere, moriamo.
II.- Un fallimento?
Da quelle parti dicono che non abbiamo ottenuto niente per noi.
Non smette di sorprendere come si manipoli con tanta impudenza questa posizione.
Pensano che i figli e le figlie dei comandantes e comandantas dovrebbero godere di viaggi all’estero, di studi in scuole private e poi posti di rilievo in aziende o in politica. Che invece di lavorare la terra per strapparle il cibo con sudore e fatica, dovrebbero esibirsi sui social network mentre si divertono nei locali ed esibire il lusso.
Forse i subcomandanti dovrebbero procreare e passare in eredità ai loro discendenti le cariche, le prebende, le scene, come fanno i politici di ogni dove.
Forse dovremmo, come i dirigenti della CIOAC-H e di altre organizzazioni contadine, ricevere privilegi e soldi in progetti ed aiuti, tenercene la maggior parte e lasciare alle basi solo qualche briciola in cambio di eseguire gli ordini criminali che vengono dall’alto.
Ma è vero, non abbiamo ottenuto niente di tutto questo per noi.
Difficile da credere che 20 anni dopo quel “niente per noi“, adesso si scopre che non era uno slogan, una frase buona per cartelloni e canzoni, ma una realtà, la realtà.
Se l’essere conseguenti è un fallimento, dunque l’incoerenza è la strada per il successo, per il Potere.
Ma noi non vogliamo prendere quella strada.
Non ci interessa.
Su queste basi preferiamo fallire che vincere.
III.- L’avvicendamento.
In questi 20 anni nell’EZLN c’è stato un avvicendamento molteplice e complesso.
Alcuni hanno notato solo il fattore evidente: quello generazionale.
Adesso chi era piccolo o non era nemmeno nato all’inizio dell’insurrezione, lotta e guida la resistenza.
Ma alcuni studiosi non hanno notato altri avvicendamenti:
Quello di classe: dall’originale classe media istruita, all’indigeno contadino.
Quello di razza: dalla dirigenza meticcia alla dirigenza nettamente indigena.
Ed il più importante: l’avvicendamento di pensiero: dall’avanguardismo rivoluzionario al comandare ubbidendo; dalla presa del Potere dall’Alto alla creazione del potere dal basso; dalla politica professionale alla politica quotidiana; dai leader, ai popoli; dall’emarginazione di genere, alla partecipazione diretta delle donne; dallo scherno per l’altro, alla celebrazione della differenza.
Non mi dilungherò oltre, perché il corso “La Libertad según l@s zapatistas” è stata proprio l’occasione di constatare se nel territorio organizzato vale più il personale della comunità.
A livello personale non capisco perché gente pensante che afferma che la storia la fanno i popoli, si spaventi tanto di fronte all’esistenza di un governo del popolo dove non ci sono gli “esperti” del governare.
Perché li terrorizza che siano i popoli a comandare, a muovere e dirigere i propri passi?
Perché scuotono il capo con disapprovazione di fronte al comandare ubbidendo?
Il culto della personalità trova nel culto dell’avanguardismo il suo estremo più fanatico.
Ed è esattamente questo, che gli indigeni comandino e che ora un indigeno sia il portavoce e capo, ciò che li atterrisce, li allontana, ed alla fine li spinge via alla ricerca di qualcuno che necessiti di avanguardie, capi e leader. Perché c’è razzismo anche nella sinistra, soprattutto in quella che si crede rivoluzionaria.
L’ezetaellenne non è di quelli. Per questo non tutti possono essere zapatisti.
IV.- Un ologramma cangiante e a modo. Quello che non sarà.
Prima dell’alba del 1994, ho trascorso 10 anni in queste montagne. Ho conosciuto ed avuto a che fare personalmente con alcuni con la cui morte siamo morti in molti. Conosco ed ho a che fare da allora con altri ed altre che oggi sono qui come noi.
Molte albe mi sono trovato io stesso a cercare di assimilare le storie che mi raccontavano, i mondi che disegnavano con silenzi, mani e sguardi, la loro insistenza nell’indicare qualcosa più in là.
Quel mondo così altro, così lontano, così alieno, era un sogno?
A volte pensavo che erano troppo avanti, che le parole che ci guidavano e guidano venivano da tempi per i quali non c’erano ancora calendari adeguati, persi com’erano in geografie imprecise: il sud degno sempre onnipresente in tutti i punti cardinali.
Poi mi sono accorto che non mi parlavano di un mondo inesatto e, pertanto, improbabile.
Quel mondo procedeva già col suo passo.
Voi non l’avete visto? Non lo vedete?
Non abbiamo ingannato nessuno del basso. Non nascondiamo che siamo un esercito, con la sua struttura piramidale, il suo centro di comando, le sue decisioni dall’alto verso il basso. Non neghiamo quello che siamo per ingraziarci i libertari o per moda.
Ma chiunque adesso può vedere se il nostro è un esercito che soppianta o impone.
E devo dire questo, ho già chiesto l’autorizzazione di farlo al compagno Subcomandante Insurgente Moisés:
Niente di quello che abbiamo fatto, nel bene o nel male, sarebbe stato possibile se un esercito armato, quello zapatista di liberazione nazionale, non si fosse sollevato contro il malgoverno esercitando il diritto alla violenza legittima. La violenza del basso di fronte alla violenza dell’alto.
Siamo guerrieri e come tali sappiamo quale è il nostro ruolo ed il nostro momento.
All’alba del giorno primo del primo mese dell’anno 1994, un esercito di giganti, cioè, di indigeni ribelli, scese in città per scuotere il mondo al suo passaggio.
Solo pochi giorni dopo, col sangue dei nostri caduti ancora fresco per le strade cittadine, ci rendemmo conto che quelli di fuori non ci vedevano.
Abituati a guardare gli indigeni dall’alto, non alzavano lo sguardo per vederci.
Abituati a vederci umiliati, il loro cuore non comprendeva la nostra degna ribellione.
Il loro sguardo si era fermato sull’unico meticcio con addosso un passamontagna, ovvero, non guardavano.
Allora i nostri capi e cape dissero:
“Vedono solo quanto sono piccoli, creiamo qualcuno piccolo come loro affinché lo vedano ed attraverso lui vedano noi”.
Iniziò così una complessa manovra di distrazione, un trucco di magia terribile e meraviglioso, un malizioso trucco del nostro cuore indigeno, la saggezza indigena sfidava la modernità in uno dei suoi bastioni: i mezzi di comunicazione.
Incominciò allora la costruzione del personaggio chiamato “Marcos”.
Vi chiedo di seguirmi in questo ragionamento:
Supponiamo che ci sia un altro modo per neutralizzare un criminale. Per esempio, creandogli la propria arma micidiale, facendogli credere che è efficace, e sulla base della sua efficacia fargli costruire un piano, e far sì che nel momento in cui si prepara a sparare, “l’arma” torni ad essere quello che è sempre stata: un’illusione.
L’intero sistema, ma soprattutto i suoi mezzi di comunicazione, giocano a costruire notorietà per poi distruggerle se non si piegano ai loro propositi.
Il loro potere risiedeva (ora non più, per questo sono stati soppiantati dai social network) nel decidere che cosa e chi esisteva nel momento in cui sceglievano cosa dire e cosa tacere.
Infine, ma lasciamo stare, come è stato dimostrato in questi 20 anni, io non so niente di mezzi di comunicazione di massa.
Il fatto è che il SupMarcos è passato dall’essere un portavoce all’essere un elemento di distrazione.
Se la strada della guerra, cioè, della morte, ci ha preso 10 anni; quella della vita ci ha preso più tempo e richiesto più sforzi, per non parlare del sangue.
Perché, anche se non lo credete, è più facile morire che vivere.
Avevamo bisogno di tempo per essere e per trovare chi sapesse vederci per quello che siamo.
Avevamo bisogno di tempo per trovare chi ci guardasse non dall’alto, non dal basso, che ci guardasse di fronte, che ci guardasse con sguardo compagno.
Vi dicevo che incominciò allora la costruzione del personaggio.
Marcos un giorno aveva gli occhi azzurri, un altro li aveva verdi, o marroni, o miele, o neri, a seconda di chi faceva l’intervista o scattasse la foto. Era riserva in qualche squadra di calcio, commesso in qualche negozio, autista, filosofo, cineasta, e gli eccetera che potete trovare sui media prezzolati di quei calendari ed in diverse geografie. C’era un Marcos per ogni occasione, cioè, per ogni intervista. E non è stato facile, credetemi, allora non c’era wikipedia e se venivano dallo Stato Spagnolo doveva sapere se il corte inglés [la più importante catena di grandi magazzini in Spagna - n.d.t.], per esempio, era un taglio d’abito tipico dell’Inghilterra, un negozio di generi alimentari, o un supermercato.
Se posso definire il personaggio Marcos, direi senza indugio che è stata una montatura.
Per intenderci, diciamo che Marcos era un Mezzo non Libero (attenzione: non è la stessa cosa di un media prezzolato).
Nella costruzione e mantenimento del personaggio abbiamo fatto alcuni errori.
“Errare è umano”, si dice.
Durante il primo anno esaurimmo tutto il possibile repertorio dei “Marcos“. Quindi all’inizio del 1995 eravamo in difficoltà ed il processo di autonomia dei popoli muoveva i suoi primi passi.
Dunque nel 1995 non sapevamo più cosa fare. È proprio quando Zedillo, PAN alla mano, “scopre” Marcos con lo stesso metodo scientifico con cui trova gli scheletri, cioè, per delazione esoterica.
La storia del tampiqueño ci diede un po’ di respiro, benché la frode successiva della Paca de Lozano ci fece temere che la stampa prezzolata mettesse in dubbio anche lo “smascheramento” di Marcos e scoprisse che si trattava di un’ulteriore frode. Fortunatamente non fu così. Come con quella, i media continuarono a bersi altre simili fandonie.
Qualche tempo dopo, il tampiqueño venne in queste terre. Insieme al Subcomandante Insurgente Moisés andammo a parlargli. Gli proponemmo di convocare una conferenza stampa congiunta così da potersi liberare dalla persecuzione dato che sarebbe stato evidente che lui e Marcos non erano la stessa persona. Non accettò. Venne a vivere qua. Qualche volta ha viaggiato e la sua faccia appare nelle fotografie delle veglie funebri dei suoi genitori. Se volete potete intervistarlo. Ora vive in una comunità, a…. Ah, non vuole nemmeno che si sappia dove vive. Non diremo nient’altro fino a che non sarà lui, se un giorno lo vorrà, a raccontare la storia che ha vissuto dal 9 febbraio del 1995. Da parte nostra non ci resta che ringraziarlo di averci passato informazioni che ogni tanto abbiamo usato per alimentare la “certezza” che ilSupMarcos non è quello che in realtà è, una montatura o un ologramma, ma un professore universitario originario dell’attuale dolente Tamaulipas.
Nel frattempo continuavamo a cercare, a cercarvi, voi che adesso siete qui e chi non è qui ma c’è.
Abbiamo lanciato mille iniziative per incontrare l’altro, l’altra, l’altro compagno. Diverse iniziative per trovare lo sguardo e l’ascolto di cui necessitiamo e che meritiamo.
Nel frattempo, proseguiva il progredire delle nostre comunità e l’avvicendamento di cui si è parlato molto o poco, ma che si può constatare direttamente, senza intermediari.
Nella ricerca dell’altro abbiamo spesso fallito.
Quelli che trovavamo, o ci volevano guidare o volevano che li guidassimo.
C’era chi si avvicinava e lo facevano per usarci, o per guardare indietro, sia con la nostalgia antropologica, sia con la nostalgia militante.
Così per qualcuno eravamo comunisti, per altri trotzkisti, per altri anarchici, per altri maoisti, per altri millenaristi, e tralascio altri “isti” che lascio a voi completare.
Così è stato fino alla Sesta Dichiarazione dalla Selva Lacandona, la più audace e la più zapatista delle iniziative che abbiamo lanciato fino ad ora.
Con la Sexta finalmente abbiamo incontrato chi ci guarda di fronte e ci saluta e abbraccia, ed è così che si saluta e abbraccia.
Con la Sexta finalmente abbiamo incontrato voi.
Finalmente qualcuno che capiva che non cercavamo né pastori che ci guidassero, né greggi da condurre nella terra promessa. Né padroni né schiavi. Né capi né masse senza testa.
Ma mancava di vedere se eravate in grado di guardare ed ascoltare quello che siamo.
All’interno, i progressi delle comunità erano impressionanti.
Poi è arrivato il corso “La Libertad según l@s zapatistas”.
In 3 turni ci siamo accorti che c’era orami una generazione che poteva guardarci negli occhi, che poteva ascoltarci e parlarci senza aspettarsi guide o leadership, né pretendere sottomissione né controllo.
Marcos, il personaggio, non era più necessario.
La nuova tappa della lotta zapatista era pronta.
È successo allora quello che è successo e molte e molti di voi, compagne e compagni della Sexta, lo conoscono in maniera diretta.
Si potrà dire che la faccenda del personaggio fu oziosa. Ma uno sguardo onesto su quei giorni rivelerà quante e quanti ci hanno guardato, con piacere o fastidio, a causa dei travestimenti di una macchietta.
Quindi l’avvicendamento non è per malattia o morte, né per trasferimenti interni, purghe o epurazione.
Segue la logica dei cambiamenti interni all’interno dell’EZLN.
So che questo non quadra con i rigidi schemi dell’alto, ma questa è la pura verità.
E se questo rovina l’indolente e povera elaborazione dei rumorologi e zapatologidi Jovel, pazienza.
Non sono né sono stato mai malato, non sono né sono mai morto.
O sì, benché tante volte mi hanno ucciso, tante volte sono morto, e di nuovo sono qui.
Se abbiamo alimentato queste voci è stato perché così conveniva.
L’ultimo trucco dell’ologramma è stato simulare una malattia terminale, comprese tutte le morti sofferte.
Infatti, il commento “se la salute glielo permette” che il Subcomandante Insurgente Moisés ha usato nel comunicato annunciando l’incontro con il CNI, era l’equivalente di “se il popolo lo chiede” o “se i sondaggi mi favoriscono” o “se dio vorrà” ed altri luoghi comuni che sono stati il ritornello della classe politica negli ultimi tempi.
Se mi permettete un consiglio: dovreste coltivare un po’ di più il senso dell’umorismo, non solo per la salute mentale e fisica, ma anche perché senza senso dell’umorismo non capireste lo zapatismo. E chi non comprende, giudica; e chi giudica, condanna.
In realtà quella è stata la parte più semplice del personaggio. Per alimentare la diceria è stato solo necessario dire alle persone giuste: “ti svelo un segreto ma prometti di non dirlo a nessuno“.
Ovviamente l’hanno detto.
I principali collaboratori involontari delle voci sulla malattia e morte sono stati gli “esperti in zapatologia” che nella superba Jovel e nella caotica Città del Messico vantano la loro vicinanza allo zapatismo e la sua profonda conoscenza, oltre chiaramente ai poliziotti pagati come giornalisti, giornalisti pagati come poliziotti, e giornalist@ solo pagati, e male, come giornalisti.
Grazie a tutte e tutti loro. Grazie per la loro discrezione. Hanno fatto esattamente come supponevamo avrebbero fatto. L’unico lato negativo di tutto questo, è che adesso dubito che qualcuno confidi loro qualche segreto.
È nostra convinzione e nostra pratica che per ribellarsi e lottare non sono necessari né leader né capi né messia né salvatori. Per lottare c’è bisogno solo di un po’ di vergogna, un tanto di dignità e molta organizzazione.
Il resto, o serve per l’insieme collettivo o non serve.
È stato particolarmente comico quanto provocato dal culto della personalità tra i politologi ed analisti dell’alto. Ieri dicevano che il futuro di questo popolo messicano dipendeva dall’alleanza di 2 personalità. L’altro ieri dicevano che Peña Nieto si emancipava da Salinas de Gortari, senza accorgersi che se criticavano Peña Nieto, passavano dalla parte di Salinas de Gortari; e che se criticavano quest’ultimo, appoggiavano Peña Nieto. Ora dicono che bisogna scegliere da che parte stare nella lotta dell’alto per il controllo delle telecomunicazioni, quindi o stai con Slim o stai con Azcárraga-Salinas. E più su, o con Obama o con Putin.
Chi aspira e guarda in alto può continuare a cercare il proprio leader; può continuare a pensare che si rispetteranno i risultati elettorali; che Slim appoggerà la sinistra; che appariranno i draghi e le battaglie di Game of Thrones; che Kirkman sarà fedele al fumetto originale della serie televisiva The Walking Dead; che gli oggetti fatti in Cina non si romperanno al primo utilizzo; che il calcio sarà uno sport e non un affare.
Sì, forse in qualche caso avranno ragione, ma non bisogna dimenticare che in tutti questi casi si tratta di meri spettatori, cioè, consumatori passivi.
Coloro che hanno amato e odiato il SupMarcos ora sanno che hanno odiato ed amato un ologramma. Il loro amore e odio sono stati quindi inutili, sterili, vacui, vuoti.
Non ci saranno dunque case-museo o targhe di metallo con su scritto qui è nato e cresciuto. Né ci sarà chi dirà di essere stato il subcomandante Marcos. Né si erediterà il suo nome o il suo incarico. Non ci saranno viaggi pagati all’estero per tenere conferenze. Non ci saranno trasferimenti né cure in ospedali di lusso. Non ci saranno vedove né eredi. Non ci saranno funerali, né onori, né statue, né musei, né premi, né niente di quello che il sistema fa per promuovere il culto della personalità e per sminuire la collettività.
Il personaggio è stato creato ed ora i suoi creatori, gli zapatisti e le zapatiste, lo distruggono.
Se qualcuno comprende la lezione delle nostre compagne e compagni, avrà compreso uno dei fondamenti dello zapatismo.
Così negli ultimi anni è successo quello che è successo.
Dunque ci siamo resi conto che la montatura, il personaggio, l’ologramma, non era più necessario.
Abbiamo più volte pianificato e poi più volte aspettato il momento adatto: il calendario e la geografia precisi per mostrare quello che in realtà siamo a chi in realtà è.
Poi è arrivato Galeano con la sua morte a marcare la geografia ed il calendario: “qui, a La Realidad; adesso: nel dolore e la rabbia”.
V.- Il Dolore e la Rabbia. Sussurri e grida.
Quando siamo arrivati qui nel caracol della Realidad, senza che nessuno ce lo dicesse abbiamo cominciato a parlare sussurrando.
Il nostro dolore parlava sommessamente, sommessamente la nostra rabbia.
Come se cercassimo di evitare che Galeano fosse disturbato dai rumori, dai suoni a lui estranei.
Come se le nostre voci ed i nostro passi lo chiamassero.
“Aspetta compa”, diceva il nostro silenzio.
“Non andartene”, sussurravano le parole.
Ma ci sono altri dolori ed altre rabbie.
In questo preciso momento, in altri angoli del Messico e del mondo, un uomo, una donna, uno/a altro/a, una bambina, un bambino, un uomo anziano, una donna anziana, una memoria, vengono picchiati crudelmente e impunemente, circondati dal crimine vorace che è il sistema, bastonati, machetati, sparati, finiti, trascinati via fra lo scherno, abbandonati, il loro corpo poi raccolto e pianto, la loro vita sepolta.
Solo qualche nome:
Alexis Benhumea, assassinato nell’Estado de México.
Francisco Javier Cortés, assassinato nell’Estado de México.
Juan Vázquez Guzmán, assassinato in Chiapas.
Juan Carlos Gómez Silvano, assassinato in Chiapas.
El compa Kuy, assassinato nel DF.
Carlo Giuliani, assassinato in Italia.
Aléxis Grigoropoulos, assassinato in Grecia.
Wajih Wajdi al-Ramahi, assassinato in un Campo profughi nella città della Cisgiordania di Ramalla. 14 anni, assassinato con un colpo a schiena sparato da un posto di osservazione dell’esercito israeliano, non c’erano marce, né proteste, non c’era nulla in strada.
Matías Valentín Catrileo Quezada, mapuche assassinato in Chile.
Teodulfo Torres Soriano, compa della Sexta desaparecido a Città del Messico.
Guadalupe Jerónimo e Urbano Macías, comuneros di Cherán, assassinato in Michoacán.
Francisco de Asís Manuel, desaparecido a Santa María Ostula
Javier Martínes Robles, desaparecido a Santa María Ostula
Gerardo Vera Orcino, desaparecido a Santa María Ostula
Enrique Domínguez Macías, desaparecido a Santa María Ostula
Martín Santos Luna, desaparecido a Santa María Ostula
Pedro Leyva Domínguez, assassinato a Santa María Ostula.
Diego Ramírez Domínguez, assassinato a Santa María Ostula.
Trinidad de la Cruz Crisóstomo, assassinato a Santa María Ostula.
Crisóforo Sánchez Reyes, assassinato a Santa María Ostula.
Teódulo Santos Girón, desaparecido a Santa María Ostula.
Longino Vicente Morales, desaparecido in Guerrero.
Víctor Ayala Tapia, desaparecido in Guerrero.
Jacinto López Díaz “El Jazi”, assassinato a Puebla.
Bernardo Vázquez Sánchez, assassinato in Oaxaca
Jorge Alexis Herrera, assassinato in Guerrero.
Gabriel Echeverría, assassinato in Guerrero.
Edmundo Reyes Amaya, desaparecido in Oaxaca.
Gabriel Alberto Cruz Sánchez, desaparecido in Oaxaca.
Juan Francisco Sicilia Ortega, assassinato in Morelos.
Ernesto Méndez Salinas, assassinato in Morelos.
Alejandro Chao Barona, assassinato in Morelos.
Sara Robledo, assassinata in Morelos.
Juventina Villa Mojica, assassinata in Guerrero.
Reynaldo Santana Villa, assassinato in Guerrero.
Catarino Torres Pereda, assassinato in Oaxaca.
Bety Cariño, assassinata in Oaxaca.
Jyri Jaakkola, assassinato in Oaxaca.
Sandra Luz Hernández, assassinata in Sinaloa.
Marisela Escobedo Ortíz, assassinata in Chihuahua.
Celedonio Monroy Prudencio, desaparecido in Jalisco.
Nepomuceno Moreno Nuñez, assassinato in Sonora.
Le/i migranti fatti sparire e probabilmente assassinati in qualche parte del territorio messicano.
I carcerati che si vogliono ammazzare in vita: Mumia Abu Jamal, Leonard Peltier, i Mapuche, Mario González, Juan Carlos Flores.
La continua sepoltura di voci che erano vive, messe a tacere dal cadere dalla terra su di loro e dal chiudersi delle sbarre.
E la più grande beffa è che con ogni palata di terra lanciata dallo sbirro di turno, il sistema dice: “Non conti niente, nessuno piangerà per te, nessuno si infurierà per la tua morte, nessuno seguirà le tue orme, nessuno può trattenere la tua vita“.
E con l’ultima palata sentenzia: “anche se prenderanno e puniranno quelli che ti hanno ucciso, ne troveremo sempre un altro, un’altra, altri, che tenderanno un’imboscata e ripeteranno la danza macabra che ha posto fine alla tua vita”.
E dice “La tua giustizia piccola, nana, fabbricata affinché i media pagati mentano per calmare le acque dopo il caos suscitato, non mi spaventa, non mi danneggia, non mi punisce”.
Che cosa diciamo a quel cadavere che, in ogni angolo del mondo del basso, viene sepolto dall’oblio?
Che solo il nostro dolore e rabbia contano?
Che solo la nostra indignazione significa qualcosa?
Che mentre sussurriamo la nostra storia, non sentiamo il suo pianto, il suo urlo?
Ha tanti nomi l’ingiustizia e sono tante le grida che provoca.
Ma il nostro dolore e la nostra rabbia non ci impediscono di sentire.
Ed i nostri sussurri non sono solo per piangere la caduta dei nostri morti ingiustamente.
Sono per poter ascoltare altri dolori, fare nostre altre rabbie e proseguire così nel complicato, lungo e tortuoso cammino di trasformare tutto ciò in un urlo che diventi lotta liberatrice.
E non dimenticare che, mentre qualcuno sussurra, qualcun’altro grida.
E solo l’udito attento può sentire.
Mentre ora parliamo ed ascoltiamo, qualcuno grida di dolore, di rabbia.
E così come bisogna imparare a rivolgere lo sguardo, l’ascolto deve trovare la direzione che lo renda fertile.
Perché mentre qualcuno riposa, c’è chi prosegue la salita.
Per vedere questo impegno, basta abbassare lo sguardo ed elevare il cuore.
Ce la fate?
Ce la farete?
La giustizia piccola somiglia tanto alla vendetta. La giustizia piccola è quella che distribuisce impunità, punendo uno, ne assolve altri.
Quella che vogliamo noi, per la quale lottiamo, non si esaurisce con la scoperta degli assassini del compa Galeano e forse della loro punizione (che se avverrà, nessuno si faccia trarre in inganno).
La ricerca paziente e tenace vuole la verità, non il sollievo della rassegnazione.
La giustizia grande ha che vedere col compagno Galeano sepolto.
Perché noi ci chiediamo non che cosa fare della sua morte, ma che cosa dobbiamo fare della sua vita.
Scusate se entro nel paludoso terreno dei luoghi comuni, ma quel compagno non meritava di morire, non così.
Tutto il suo impegno, il suo quotidiano sacrificio, puntuale, invisibile per chi non era noi, era per la vita.
E vi posso dire che era un essere straordinario ed inoltre, e questo è quello che stupisce, ci sono migliaia di compagne e compagni come lui nelle comunità indigene zapatiste, con la stessa dedizione, identico impegno, uguale chiarezza ed unico destino: la libertà.
E facendo conti macabri: se qualcuno merita la morte è chi non esiste né è esistito, se non nella fugacità dei mezzi di comunicazione prezzolati.
Il nostro compagno capo e portavoce dell’EZLN, il Subcomandante Insurgente Moisés, ci ha detto che assassinando Galeano, o uno chiunque degli zapatisti, quelli di sopra volevano assassinare l’EZLN.
Non come esercito, ma come ostinato ribelle che costruisce vita dove loro, quelli di sopra, desiderano la desolazione delle industrie minerarie, industrie petrolifere, turistiche, la morte della terra e di chi l’abita e lavora.
Ed ha detto che siamo venuti qui, come Comandancia Generale dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, a dissotterrare Galeano.
Pensiamo che sia necessario che uno di noi muoia affinché Galeano viva.
E per soddisfare la morte impertinente, al posto di Galeano mettiamo un altro nome affinché Galeano viva e la morte non si porti via una vita, ma solo un nome, poche lettere prive di senso, senza storia propria, senza vita.
Quindi abbiamo deciso che Marcos da oggi smette di esistere. Lo prenderanno per mano il guerriero ombra e la piccola luce affinché non si perda lungo il cammino. Don Durito se ne andrà con lui, e così anche il Vecchio Antonio.
Non mancherà alle bambine ed ai bambini che gli si facevano intorno per ascoltare i suoi racconti, perché sono ormai grandi, hanno giudizio, lottano per la libertà, la democrazia e la giustizia, che è il compito di ogni zapatista.
Il gatto-cane, e non un cigno, intonerà il canto di addio.
Alla fine chi capirà, saprà che non se ne va chi non c’è mai stato, né muore chi non ha vissuto.
E la morte se ne andrà via ingannata da un indigeno col nome di lotta di Galeano, e sulle pietre posate sulla sua tomba tornerà a camminare ed ad insegnare, a chi lo vorrà, la base dello zapatismo, cioè, non vendersi, non arrendersi, non tentennare.
Oh morte! Come se non fosse evidente che libera quelli di sopra da ogni responsabilità al di là della preghiera funebre, l’omaggio blando, la statua sterile, il museo controllore.
A noi? Beh, perché noi la morte ci impegna alla vita che contiene.
Quindi siamo qui, a deridere la morte nella realtà.
Compas:
Detto questo, alle ore 02:08 del 25 maggio 2014 sul fronte di combattimento sudorientale dell’EZLN, dichiaro che smette di esistere il noto come Subcomandante Insurgente Marcos, l’autodenominato “subcomandante di acciaio inossidabile”.
È tutto.
Per mia voce non parlerà più la voce dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.
Bene. Salute e a mai più… o hasta siempre, chi ha capito sa che questo non ha più importanza, non ne ha mai avuta.
Dalla realtà zapatista.
Subcomandante Insurgente Marcos
Messico, 24 maggio 2014
P.S.1.- “Game is over”?
P.S.2.- Scacco Matto?
P.S.3.- Touché?
P.S. 4.- Fatevene una ragione, raza, e mandate tabacco.
P.S. 5.- Mmm… e questo sarebbe l’inferno… Quel Piporro, Pedro, José Alfredo! Come? Quei machisti? Naah, non credo, ma se io non ho mai…
P.S.-6.- Quindi, senza travestimento, adesso posso andarmene in giro nudo?
P.S. 7.- Eih, è buio qui, datemi un po’ di luce.
(…)
(si sente una voce fuori campo)
Compagne e compagni vi auguro buone albe. Il mio nome è Galeano,Subcomandante Insurgente Galeano.
Qualcun altro si chiama Galeano?
(si alzano voci e grida)
Oh, mi avevano detto che quando sarei rinato lo avrei fatto collettivamente.
Così sia dunque.
Buon viaggio. Abbiate cura di voi, e di noi.
Dalle montagne del Sudest Messicano.
Subcomandante Insurgente Galeano
Messico, maggio 2014
Maggio 2014
Compagna, compañeroa, compagno:
Buona notte, sera, giorno, qualunque sia la vostra geografia, tempo e modo.
Buone albe.
Chiedo in particolare alle compagne, compagni e compañeroas della Sexta che vengono da altre parti, ai media liberi compagni, di avere pazienza, tolleranza e comprensione per quello che dirò, perché queste saranno le mie ultime parole in pubblico prima di smettere di esistere.
Mi rivolgo a voi e a coloro che attraverso di voi ci ascoltano e ci guardano.
Forse all’inizio, o durante questo discorso, potrebbe nascere nel vostro cuore la sensazione che qualcosa sia fuori luogo, che qualcosa non quadri, come se mancassero dei tasselli per dare un senso al rompicapo che vi si sta delineando. Come se mancasse qualcosa.
Forse dopo, giorni, settimane, mesi, anni, decenni si capirà quello che diciamo ora.
Le mie compagne e compagni dell’EZLN a tutti i livelli non mi preoccupano, perché questo è il nostro modo: camminare, lottare, sapendo che manca sempre ancora qualcosa.
Inoltre, nessuno si offenda, ma l’intelligenza delle/dei compas zapatisti è molto al di sopra della media.
Per il resto, ci inorgoglisce che sia davanti a compagne, compagni e compañeroas, sia dell’EZLN che della Sexta che si comunica pubblicamente questa decisione collettiva.
Ed è bello che sarà attraverso i media liberi, alternativi, indipendenti di questo arcipelago di dolori, rabbie e degna lotta che chiamiamo “la Sexta“, che verrete a conoscenza di quello che dirò dovunque vi troviate.
Se a qualcun altro interesserà sapere che cosa è successo in questo giorno dovrà rivolgersi ai media liberi per saperlo.
Bene dunque. Benvenute e benvenuti nella realtà zapatista.
I.- Una decisione difficile.
Quando nel 1994 con sangue e fuoco irrompemmo ed interrompemmo, per noi zapatisti non iniziava la guerra.
La guerra dell’alto, con la morte e la distruzione, la spoliazione e l’umiliazione, lo sfruttamento ed il silenzio imposti al vinto, la stavamo già subendo da secoli.
Quello che per noi inizia nel 1994 è uno dei molti momenti della guerra di quelli che stanno in basso contro quelli che stanno sopra, contro il loro mondo.
Quella guerra di resistenza che si svolge giorno per giorno per le strade di ogni angolo dei cinque continenti, nelle campagne e sulle montagne.
La nostra, come quella di molti e molte del basso, era ed è una guerra per l’umanità e contro il neoliberismo.
Contro la morte, noi chiedevamo vita.
Contro il silenzio, esigevamo la parola ed il rispetto.
Contro l’oblio, la memoria.
Contro l’umiliazione e il disprezzo, la dignità.
Contro l’oppressione, la ribellione.
Contro la schiavitù, la libertà.
Contro l’imposizione, la democrazia.
Contro il crimine, la giustizia.
Chi con un po’ di umanità nelle vene potrebbe o può contestare queste richieste?
Ed in quei momenti molti ascoltarono.
La guerra che iniziammo ci diede il privilegio di raggiungere ascolti e cuori attenti e generosi in geografie vicine e lontane.
Mancava certo qualcosa, e manca ancora, ma allora ottenemmo lo sguardo dell’altro, il suo ascolto, il suo cuore.
Allora ci vedemmo nella necessità di rispondere ad una domanda decisiva:
“Che cosa fare?”
I tetri conti della vigilia non includevano la possibilità di porci domande. Cosicché questa domanda ne portò altre:
Preparare quelli che seguiranno il cammino della morte?
Formare altri e migliori soldati?
Investire impegno nel migliorare la nostra malconcia macchina da guerra?
Fingere dialoghi e predisposizione alla pace, ma continuare a preparare nuovi colpi?
Ammazzare o morire come unico destino?
O dovevamo ricostruire il cammino verso la vita, quello che avevano rotto e rompono dall’alto?
La strada non solo dei popoli originari, ma anche di lavoratori, studenti, maestri, giovani, contadini, oltre a tutte le differenze che si celebrano in alto, e sotto si perseguono e si puniscono.
Dovevamo segnare col nostro sangue il cammino che altri dirigono verso il Potere, o dovevamo rivolgere il cuore e lo sguardo verso quelli che siamo e quelli che sono quello che siamo, i popoli originari, guardiani della terra e della memoria?
Nessuno allora sentì, ma con le nostre prime incerte parole avvertimmo che il nostro dilemma non era tra negoziare o combattere, bensì tra morire o vivere.
Chi allora avesse inteso che quel precoce dilemma non era individuale, forse avrebbe capito meglio quello che è successo nella realtà zapatista negli ultimi 20 anni.
Ma vi dicevo che ci imbattemmo in quella domanda e quel dilemma.
Ed abbiamo compiuto una scelta.
Invece di formare guerriglieri, soldati e squadroni, abbiamo formato promotori di educazione, di salute, e sono state lanciate le basi dell’autonomia che oggi stupisce il mondo.
Invece di costruire quartieri militari, migliorare il nostro armamento, innalzare muri e trincee, sono state costruite scuole, ospedali e centri di salute, abbiamo migliorato le nostre condizioni di vita.
Invece di lottare per occupare un posto nel Partenone delle morti individualizzate del basso, abbiamo scelto di costruire la vita.
Tutto questo in mezzo ad una guerra che non perché sorda fosse meno letale.
Perché compas, una cosa è gridare “non siete soli”, ed un’altra affrontare solo col proprio corpo una colonna blindata di truppe federali, come successe nella zona degli Altos del Chiapas, e sperare che con un po’ di fortuna qualcuno lo venga a sapere, e sempre con un po’ di fortuna sperare che chi lo viene a sapere si indigni, e che con un altro poco più di fortuna chi si indigna faccia qualcosa.
Nel frattempo, i blindati vengono fermati dalle donne zapatiste, ed in mancanza d’altro è stato con improperi e pietre che il serpente di acciaio dovette tornare indietro.
E nella zona nord del Chiapas subire la nascita e lo sviluppo delle guardias blancas, riciclate allora come paramilitari; e nella zona Tzotz Choj le aggressioni continue di organizzazioni contadine che di “indipendente” a volte non hanno nemmeno il nome; e nella zona della Selva Tzeltal la combinazione di paramilitari e contras.
Ed una cosa è gridare “tutti siamo marcos” o “non tutti siamo marcos”, a seconda del caso o cosa, ed un’altra la persecuzione con tutto il macchinario di guerra, l’invasione dei villaggi, il “rastrellamento” delle montagne, l’uso dei cani addestrati, le pale degli elicotteri blindati che agitano le cime delle ceibe, l’ordine “vivo o morto” lanciato nei primi giorni di gennaio del 1994 e che raggiunse il suo livello più isterico nel 1995 e nel resto del sessennio dell’allora impiegato di una multinazionale, e che questa zona di Selva di Confine ha patito dal 1995 ed al quale si somma poi la stessa sequenza di aggressioni di organizzazioni contadine, l’uso di paramilitari, la militarizzazione, la persecuzione.
Se c’è un mito in tutto questo non è il passamontagna, ma la menzogna che si ripete fin da quei giorni, perfino ripresa da persone molto istruite, e cioè che la guerra contro gli zapatisti è durata solo 12 giorni.
Non farò un resoconto dettagliato. Qualcuno con un po’ di spirito critico e serietà può ricostruire la storia, e sommare e sottrarre per ottenere il risultato, e dire se sono stati e sono più i giornalisti dei poliziotti e soldati; se sono state più le lusinghe delle minacce e gli insulti, se il prezzo offerto era per vedere il passamontagna o per catturarlo “vivo o morto”.
In quelle condizioni, a volte solo con le nostre forze ed altre con l’appoggio generoso ed incondizionato di gente buona di tutto il mondo, si è andati avanti nella costruzione ancora incompiuta, certo, ma già definita di quello che siamo.
Non è dunque solo una frase, fortunata o sfortunata, a seconda se la si guardi dall’alto o dal basso, questa “siamo qui i morti di sempre, che muoiono di nuovo, ma ora per vivere“. È la realtà.
E quasi 20 anni dopo…
Il 21 dicembre del 2012, quando politica ed esoterismo coincidevano come altre volte nel predire catastrofi che cadono sempre sui soliti, quelli in basso, abbiamo replicato il colpo di mano del 1° gennaio ’94 e, senza sparare un solo colpo, senza armi, col nostro solo silenzio, abbiamo di nuovo rovesciato la superbia della città culla e nido del razzismo e del disprezzo.
Se il primo gennaio 1994 migliaia di uomini e donne senza volto attaccarono e presero le guarnigioni che proteggevano le città, il 21 dicembre 2012 sono state decine di migliaia di persone a prendere senza parole gli edifici da dove si celebrava la nostra scomparsa.
Il solo fatto inappellabile che l’EZLN non solo non si era indebolito, e tanto meno era scomparso, ma che era cresciuto quantitativa e qualitativamente, sarebbe stato sufficiente a qualsiasi mente mediamente intelligente per rendersi conto che, in questi 20 anni, qualcosa era cambiato all’interno dell’EZLN e delle comunità.
Forse più di qualcuno penserà che sbagliammo nella scelta, che un esercito non può né deve impegnarsi per la pace.
Per molte ragioni, certo, ma la principale era ed è perché con una scelta diversa avremmo finito per sparire.
Forse è vero. Forse abbiamo sbagliato a scegliere di coltivare la vita invece di adorare alla morte.
Ma noi abbiamo scelto senza ascoltare quelli di fuori. Non ascoltando quelli che chiedono ed esigono sempre la lotta fino alla morte, quando i morti però li mettono gli altri.
Abbiamo scelto guardandoci ed ascoltandoci, come il Votán collettivo che siamo.
Abbiamo scelto la ribellione, cioè, la vita.
Questo non vuol dire che non sapessimo che la guerra dell’alto avrebbe cercato e cerca di imporre di nuovo il suo dominio su di noi.
Sapevamo e sappiamo che avremmo sempre dovuto difendere ciò che siamo e come siamo.
Sapevamo e sappiamo che continuerà ad esserci la morte affinché ci sia la vita.
Sapevamo e sappiamo che per vivere, moriamo.
II.- Un fallimento?
Da quelle parti dicono che non abbiamo ottenuto niente per noi.
Non smette di sorprendere come si manipoli con tanta impudenza questa posizione.
Pensano che i figli e le figlie dei comandantes e comandantas dovrebbero godere di viaggi all’estero, di studi in scuole private e poi posti di rilievo in aziende o in politica. Che invece di lavorare la terra per strapparle il cibo con sudore e fatica, dovrebbero esibirsi sui social network mentre si divertono nei locali ed esibire il lusso.
Forse i subcomandanti dovrebbero procreare e passare in eredità ai loro discendenti le cariche, le prebende, le scene, come fanno i politici di ogni dove.
Forse dovremmo, come i dirigenti della CIOAC-H e di altre organizzazioni contadine, ricevere privilegi e soldi in progetti ed aiuti, tenercene la maggior parte e lasciare alle basi solo qualche briciola in cambio di eseguire gli ordini criminali che vengono dall’alto.
Ma è vero, non abbiamo ottenuto niente di tutto questo per noi.
Difficile da credere che 20 anni dopo quel “niente per noi“, adesso si scopre che non era uno slogan, una frase buona per cartelloni e canzoni, ma una realtà, la realtà.
Se l’essere conseguenti è un fallimento, dunque l’incoerenza è la strada per il successo, per il Potere.
Ma noi non vogliamo prendere quella strada.
Non ci interessa.
Su queste basi preferiamo fallire che vincere.
III.- L’avvicendamento.
In questi 20 anni nell’EZLN c’è stato un avvicendamento molteplice e complesso.
Alcuni hanno notato solo il fattore evidente: quello generazionale.
Adesso chi era piccolo o non era nemmeno nato all’inizio dell’insurrezione, lotta e guida la resistenza.
Ma alcuni studiosi non hanno notato altri avvicendamenti:
Quello di classe: dall’originale classe media istruita, all’indigeno contadino.
Quello di razza: dalla dirigenza meticcia alla dirigenza nettamente indigena.
Ed il più importante: l’avvicendamento di pensiero: dall’avanguardismo rivoluzionario al comandare ubbidendo; dalla presa del Potere dall’Alto alla creazione del potere dal basso; dalla politica professionale alla politica quotidiana; dai leader, ai popoli; dall’emarginazione di genere, alla partecipazione diretta delle donne; dallo scherno per l’altro, alla celebrazione della differenza.
Non mi dilungherò oltre, perché il corso “La Libertad según l@s zapatistas” è stata proprio l’occasione di constatare se nel territorio organizzato vale più il personale della comunità.
A livello personale non capisco perché gente pensante che afferma che la storia la fanno i popoli, si spaventi tanto di fronte all’esistenza di un governo del popolo dove non ci sono gli “esperti” del governare.
Perché li terrorizza che siano i popoli a comandare, a muovere e dirigere i propri passi?
Perché scuotono il capo con disapprovazione di fronte al comandare ubbidendo?
Il culto della personalità trova nel culto dell’avanguardismo il suo estremo più fanatico.
Ed è esattamente questo, che gli indigeni comandino e che ora un indigeno sia il portavoce e capo, ciò che li atterrisce, li allontana, ed alla fine li spinge via alla ricerca di qualcuno che necessiti di avanguardie, capi e leader. Perché c’è razzismo anche nella sinistra, soprattutto in quella che si crede rivoluzionaria.
L’ezetaellenne non è di quelli. Per questo non tutti possono essere zapatisti.
IV.- Un ologramma cangiante e a modo. Quello che non sarà.
Prima dell’alba del 1994, ho trascorso 10 anni in queste montagne. Ho conosciuto ed avuto a che fare personalmente con alcuni con la cui morte siamo morti in molti. Conosco ed ho a che fare da allora con altri ed altre che oggi sono qui come noi.
Molte albe mi sono trovato io stesso a cercare di assimilare le storie che mi raccontavano, i mondi che disegnavano con silenzi, mani e sguardi, la loro insistenza nell’indicare qualcosa più in là.
Quel mondo così altro, così lontano, così alieno, era un sogno?
A volte pensavo che erano troppo avanti, che le parole che ci guidavano e guidano venivano da tempi per i quali non c’erano ancora calendari adeguati, persi com’erano in geografie imprecise: il sud degno sempre onnipresente in tutti i punti cardinali.
Poi mi sono accorto che non mi parlavano di un mondo inesatto e, pertanto, improbabile.
Quel mondo procedeva già col suo passo.
Voi non l’avete visto? Non lo vedete?
Non abbiamo ingannato nessuno del basso. Non nascondiamo che siamo un esercito, con la sua struttura piramidale, il suo centro di comando, le sue decisioni dall’alto verso il basso. Non neghiamo quello che siamo per ingraziarci i libertari o per moda.
Ma chiunque adesso può vedere se il nostro è un esercito che soppianta o impone.
E devo dire questo, ho già chiesto l’autorizzazione di farlo al compagno Subcomandante Insurgente Moisés:
Niente di quello che abbiamo fatto, nel bene o nel male, sarebbe stato possibile se un esercito armato, quello zapatista di liberazione nazionale, non si fosse sollevato contro il malgoverno esercitando il diritto alla violenza legittima. La violenza del basso di fronte alla violenza dell’alto.
Siamo guerrieri e come tali sappiamo quale è il nostro ruolo ed il nostro momento.
All’alba del giorno primo del primo mese dell’anno 1994, un esercito di giganti, cioè, di indigeni ribelli, scese in città per scuotere il mondo al suo passaggio.
Solo pochi giorni dopo, col sangue dei nostri caduti ancora fresco per le strade cittadine, ci rendemmo conto che quelli di fuori non ci vedevano.
Abituati a guardare gli indigeni dall’alto, non alzavano lo sguardo per vederci.
Abituati a vederci umiliati, il loro cuore non comprendeva la nostra degna ribellione.
Il loro sguardo si era fermato sull’unico meticcio con addosso un passamontagna, ovvero, non guardavano.
Allora i nostri capi e cape dissero:
“Vedono solo quanto sono piccoli, creiamo qualcuno piccolo come loro affinché lo vedano ed attraverso lui vedano noi”.
Iniziò così una complessa manovra di distrazione, un trucco di magia terribile e meraviglioso, un malizioso trucco del nostro cuore indigeno, la saggezza indigena sfidava la modernità in uno dei suoi bastioni: i mezzi di comunicazione.
Incominciò allora la costruzione del personaggio chiamato “Marcos”.
Vi chiedo di seguirmi in questo ragionamento:
Supponiamo che ci sia un altro modo per neutralizzare un criminale. Per esempio, creandogli la propria arma micidiale, facendogli credere che è efficace, e sulla base della sua efficacia fargli costruire un piano, e far sì che nel momento in cui si prepara a sparare, “l’arma” torni ad essere quello che è sempre stata: un’illusione.
L’intero sistema, ma soprattutto i suoi mezzi di comunicazione, giocano a costruire notorietà per poi distruggerle se non si piegano ai loro propositi.
Il loro potere risiedeva (ora non più, per questo sono stati soppiantati dai social network) nel decidere che cosa e chi esisteva nel momento in cui sceglievano cosa dire e cosa tacere.
Infine, ma lasciamo stare, come è stato dimostrato in questi 20 anni, io non so niente di mezzi di comunicazione di massa.
Il fatto è che il SupMarcos è passato dall’essere un portavoce all’essere un elemento di distrazione.
Se la strada della guerra, cioè, della morte, ci ha preso 10 anni; quella della vita ci ha preso più tempo e richiesto più sforzi, per non parlare del sangue.
Perché, anche se non lo credete, è più facile morire che vivere.
Avevamo bisogno di tempo per essere e per trovare chi sapesse vederci per quello che siamo.
Avevamo bisogno di tempo per trovare chi ci guardasse non dall’alto, non dal basso, che ci guardasse di fronte, che ci guardasse con sguardo compagno.
Vi dicevo che incominciò allora la costruzione del personaggio.
Marcos un giorno aveva gli occhi azzurri, un altro li aveva verdi, o marroni, o miele, o neri, a seconda di chi faceva l’intervista o scattasse la foto. Era riserva in qualche squadra di calcio, commesso in qualche negozio, autista, filosofo, cineasta, e gli eccetera che potete trovare sui media prezzolati di quei calendari ed in diverse geografie. C’era un Marcos per ogni occasione, cioè, per ogni intervista. E non è stato facile, credetemi, allora non c’era wikipedia e se venivano dallo Stato Spagnolo doveva sapere se il corte inglés [la più importante catena di grandi magazzini in Spagna - n.d.t.], per esempio, era un taglio d’abito tipico dell’Inghilterra, un negozio di generi alimentari, o un supermercato.
Se posso definire il personaggio Marcos, direi senza indugio che è stata una montatura.
Per intenderci, diciamo che Marcos era un Mezzo non Libero (attenzione: non è la stessa cosa di un media prezzolato).
Nella costruzione e mantenimento del personaggio abbiamo fatto alcuni errori.
“Errare è umano”, si dice.
Durante il primo anno esaurimmo tutto il possibile repertorio dei “Marcos“. Quindi all’inizio del 1995 eravamo in difficoltà ed il processo di autonomia dei popoli muoveva i suoi primi passi.
Dunque nel 1995 non sapevamo più cosa fare. È proprio quando Zedillo, PAN alla mano, “scopre” Marcos con lo stesso metodo scientifico con cui trova gli scheletri, cioè, per delazione esoterica.
La storia del tampiqueño ci diede un po’ di respiro, benché la frode successiva della Paca de Lozano ci fece temere che la stampa prezzolata mettesse in dubbio anche lo “smascheramento” di Marcos e scoprisse che si trattava di un’ulteriore frode. Fortunatamente non fu così. Come con quella, i media continuarono a bersi altre simili fandonie.
Qualche tempo dopo, il tampiqueño venne in queste terre. Insieme al Subcomandante Insurgente Moisés andammo a parlargli. Gli proponemmo di convocare una conferenza stampa congiunta così da potersi liberare dalla persecuzione dato che sarebbe stato evidente che lui e Marcos non erano la stessa persona. Non accettò. Venne a vivere qua. Qualche volta ha viaggiato e la sua faccia appare nelle fotografie delle veglie funebri dei suoi genitori. Se volete potete intervistarlo. Ora vive in una comunità, a…. Ah, non vuole nemmeno che si sappia dove vive. Non diremo nient’altro fino a che non sarà lui, se un giorno lo vorrà, a raccontare la storia che ha vissuto dal 9 febbraio del 1995. Da parte nostra non ci resta che ringraziarlo di averci passato informazioni che ogni tanto abbiamo usato per alimentare la “certezza” che ilSupMarcos non è quello che in realtà è, una montatura o un ologramma, ma un professore universitario originario dell’attuale dolente Tamaulipas.
Nel frattempo continuavamo a cercare, a cercarvi, voi che adesso siete qui e chi non è qui ma c’è.
Abbiamo lanciato mille iniziative per incontrare l’altro, l’altra, l’altro compagno. Diverse iniziative per trovare lo sguardo e l’ascolto di cui necessitiamo e che meritiamo.
Nel frattempo, proseguiva il progredire delle nostre comunità e l’avvicendamento di cui si è parlato molto o poco, ma che si può constatare direttamente, senza intermediari.
Nella ricerca dell’altro abbiamo spesso fallito.
Quelli che trovavamo, o ci volevano guidare o volevano che li guidassimo.
C’era chi si avvicinava e lo facevano per usarci, o per guardare indietro, sia con la nostalgia antropologica, sia con la nostalgia militante.
Così per qualcuno eravamo comunisti, per altri trotzkisti, per altri anarchici, per altri maoisti, per altri millenaristi, e tralascio altri “isti” che lascio a voi completare.
Così è stato fino alla Sesta Dichiarazione dalla Selva Lacandona, la più audace e la più zapatista delle iniziative che abbiamo lanciato fino ad ora.
Con la Sexta finalmente abbiamo incontrato chi ci guarda di fronte e ci saluta e abbraccia, ed è così che si saluta e abbraccia.
Con la Sexta finalmente abbiamo incontrato voi.
Finalmente qualcuno che capiva che non cercavamo né pastori che ci guidassero, né greggi da condurre nella terra promessa. Né padroni né schiavi. Né capi né masse senza testa.
Ma mancava di vedere se eravate in grado di guardare ed ascoltare quello che siamo.
All’interno, i progressi delle comunità erano impressionanti.
Poi è arrivato il corso “La Libertad según l@s zapatistas”.
In 3 turni ci siamo accorti che c’era orami una generazione che poteva guardarci negli occhi, che poteva ascoltarci e parlarci senza aspettarsi guide o leadership, né pretendere sottomissione né controllo.
Marcos, il personaggio, non era più necessario.
La nuova tappa della lotta zapatista era pronta.
È successo allora quello che è successo e molte e molti di voi, compagne e compagni della Sexta, lo conoscono in maniera diretta.
Si potrà dire che la faccenda del personaggio fu oziosa. Ma uno sguardo onesto su quei giorni rivelerà quante e quanti ci hanno guardato, con piacere o fastidio, a causa dei travestimenti di una macchietta.
Quindi l’avvicendamento non è per malattia o morte, né per trasferimenti interni, purghe o epurazione.
Segue la logica dei cambiamenti interni all’interno dell’EZLN.
So che questo non quadra con i rigidi schemi dell’alto, ma questa è la pura verità.
E se questo rovina l’indolente e povera elaborazione dei rumorologi e zapatologidi Jovel, pazienza.
Non sono né sono stato mai malato, non sono né sono mai morto.
O sì, benché tante volte mi hanno ucciso, tante volte sono morto, e di nuovo sono qui.
Se abbiamo alimentato queste voci è stato perché così conveniva.
L’ultimo trucco dell’ologramma è stato simulare una malattia terminale, comprese tutte le morti sofferte.
Infatti, il commento “se la salute glielo permette” che il Subcomandante Insurgente Moisés ha usato nel comunicato annunciando l’incontro con il CNI, era l’equivalente di “se il popolo lo chiede” o “se i sondaggi mi favoriscono” o “se dio vorrà” ed altri luoghi comuni che sono stati il ritornello della classe politica negli ultimi tempi.
Se mi permettete un consiglio: dovreste coltivare un po’ di più il senso dell’umorismo, non solo per la salute mentale e fisica, ma anche perché senza senso dell’umorismo non capireste lo zapatismo. E chi non comprende, giudica; e chi giudica, condanna.
In realtà quella è stata la parte più semplice del personaggio. Per alimentare la diceria è stato solo necessario dire alle persone giuste: “ti svelo un segreto ma prometti di non dirlo a nessuno“.
Ovviamente l’hanno detto.
I principali collaboratori involontari delle voci sulla malattia e morte sono stati gli “esperti in zapatologia” che nella superba Jovel e nella caotica Città del Messico vantano la loro vicinanza allo zapatismo e la sua profonda conoscenza, oltre chiaramente ai poliziotti pagati come giornalisti, giornalisti pagati come poliziotti, e giornalist@ solo pagati, e male, come giornalisti.
Grazie a tutte e tutti loro. Grazie per la loro discrezione. Hanno fatto esattamente come supponevamo avrebbero fatto. L’unico lato negativo di tutto questo, è che adesso dubito che qualcuno confidi loro qualche segreto.
È nostra convinzione e nostra pratica che per ribellarsi e lottare non sono necessari né leader né capi né messia né salvatori. Per lottare c’è bisogno solo di un po’ di vergogna, un tanto di dignità e molta organizzazione.
Il resto, o serve per l’insieme collettivo o non serve.
È stato particolarmente comico quanto provocato dal culto della personalità tra i politologi ed analisti dell’alto. Ieri dicevano che il futuro di questo popolo messicano dipendeva dall’alleanza di 2 personalità. L’altro ieri dicevano che Peña Nieto si emancipava da Salinas de Gortari, senza accorgersi che se criticavano Peña Nieto, passavano dalla parte di Salinas de Gortari; e che se criticavano quest’ultimo, appoggiavano Peña Nieto. Ora dicono che bisogna scegliere da che parte stare nella lotta dell’alto per il controllo delle telecomunicazioni, quindi o stai con Slim o stai con Azcárraga-Salinas. E più su, o con Obama o con Putin.
Chi aspira e guarda in alto può continuare a cercare il proprio leader; può continuare a pensare che si rispetteranno i risultati elettorali; che Slim appoggerà la sinistra; che appariranno i draghi e le battaglie di Game of Thrones; che Kirkman sarà fedele al fumetto originale della serie televisiva The Walking Dead; che gli oggetti fatti in Cina non si romperanno al primo utilizzo; che il calcio sarà uno sport e non un affare.
Sì, forse in qualche caso avranno ragione, ma non bisogna dimenticare che in tutti questi casi si tratta di meri spettatori, cioè, consumatori passivi.
Coloro che hanno amato e odiato il SupMarcos ora sanno che hanno odiato ed amato un ologramma. Il loro amore e odio sono stati quindi inutili, sterili, vacui, vuoti.
Non ci saranno dunque case-museo o targhe di metallo con su scritto qui è nato e cresciuto. Né ci sarà chi dirà di essere stato il subcomandante Marcos. Né si erediterà il suo nome o il suo incarico. Non ci saranno viaggi pagati all’estero per tenere conferenze. Non ci saranno trasferimenti né cure in ospedali di lusso. Non ci saranno vedove né eredi. Non ci saranno funerali, né onori, né statue, né musei, né premi, né niente di quello che il sistema fa per promuovere il culto della personalità e per sminuire la collettività.
Il personaggio è stato creato ed ora i suoi creatori, gli zapatisti e le zapatiste, lo distruggono.
Se qualcuno comprende la lezione delle nostre compagne e compagni, avrà compreso uno dei fondamenti dello zapatismo.
Così negli ultimi anni è successo quello che è successo.
Dunque ci siamo resi conto che la montatura, il personaggio, l’ologramma, non era più necessario.
Abbiamo più volte pianificato e poi più volte aspettato il momento adatto: il calendario e la geografia precisi per mostrare quello che in realtà siamo a chi in realtà è.
Poi è arrivato Galeano con la sua morte a marcare la geografia ed il calendario: “qui, a La Realidad; adesso: nel dolore e la rabbia”.
V.- Il Dolore e la Rabbia. Sussurri e grida.
Quando siamo arrivati qui nel caracol della Realidad, senza che nessuno ce lo dicesse abbiamo cominciato a parlare sussurrando.
Il nostro dolore parlava sommessamente, sommessamente la nostra rabbia.
Come se cercassimo di evitare che Galeano fosse disturbato dai rumori, dai suoni a lui estranei.
Come se le nostre voci ed i nostro passi lo chiamassero.
“Aspetta compa”, diceva il nostro silenzio.
“Non andartene”, sussurravano le parole.
Ma ci sono altri dolori ed altre rabbie.
In questo preciso momento, in altri angoli del Messico e del mondo, un uomo, una donna, uno/a altro/a, una bambina, un bambino, un uomo anziano, una donna anziana, una memoria, vengono picchiati crudelmente e impunemente, circondati dal crimine vorace che è il sistema, bastonati, machetati, sparati, finiti, trascinati via fra lo scherno, abbandonati, il loro corpo poi raccolto e pianto, la loro vita sepolta.
Solo qualche nome:
Alexis Benhumea, assassinato nell’Estado de México.
Francisco Javier Cortés, assassinato nell’Estado de México.
Juan Vázquez Guzmán, assassinato in Chiapas.
Juan Carlos Gómez Silvano, assassinato in Chiapas.
El compa Kuy, assassinato nel DF.
Carlo Giuliani, assassinato in Italia.
Aléxis Grigoropoulos, assassinato in Grecia.
Wajih Wajdi al-Ramahi, assassinato in un Campo profughi nella città della Cisgiordania di Ramalla. 14 anni, assassinato con un colpo a schiena sparato da un posto di osservazione dell’esercito israeliano, non c’erano marce, né proteste, non c’era nulla in strada.
Matías Valentín Catrileo Quezada, mapuche assassinato in Chile.
Teodulfo Torres Soriano, compa della Sexta desaparecido a Città del Messico.
Guadalupe Jerónimo e Urbano Macías, comuneros di Cherán, assassinato in Michoacán.
Francisco de Asís Manuel, desaparecido a Santa María Ostula
Javier Martínes Robles, desaparecido a Santa María Ostula
Gerardo Vera Orcino, desaparecido a Santa María Ostula
Enrique Domínguez Macías, desaparecido a Santa María Ostula
Martín Santos Luna, desaparecido a Santa María Ostula
Pedro Leyva Domínguez, assassinato a Santa María Ostula.
Diego Ramírez Domínguez, assassinato a Santa María Ostula.
Trinidad de la Cruz Crisóstomo, assassinato a Santa María Ostula.
Crisóforo Sánchez Reyes, assassinato a Santa María Ostula.
Teódulo Santos Girón, desaparecido a Santa María Ostula.
Longino Vicente Morales, desaparecido in Guerrero.
Víctor Ayala Tapia, desaparecido in Guerrero.
Jacinto López Díaz “El Jazi”, assassinato a Puebla.
Bernardo Vázquez Sánchez, assassinato in Oaxaca
Jorge Alexis Herrera, assassinato in Guerrero.
Gabriel Echeverría, assassinato in Guerrero.
Edmundo Reyes Amaya, desaparecido in Oaxaca.
Gabriel Alberto Cruz Sánchez, desaparecido in Oaxaca.
Juan Francisco Sicilia Ortega, assassinato in Morelos.
Ernesto Méndez Salinas, assassinato in Morelos.
Alejandro Chao Barona, assassinato in Morelos.
Sara Robledo, assassinata in Morelos.
Juventina Villa Mojica, assassinata in Guerrero.
Reynaldo Santana Villa, assassinato in Guerrero.
Catarino Torres Pereda, assassinato in Oaxaca.
Bety Cariño, assassinata in Oaxaca.
Jyri Jaakkola, assassinato in Oaxaca.
Sandra Luz Hernández, assassinata in Sinaloa.
Marisela Escobedo Ortíz, assassinata in Chihuahua.
Celedonio Monroy Prudencio, desaparecido in Jalisco.
Nepomuceno Moreno Nuñez, assassinato in Sonora.
Le/i migranti fatti sparire e probabilmente assassinati in qualche parte del territorio messicano.
I carcerati che si vogliono ammazzare in vita: Mumia Abu Jamal, Leonard Peltier, i Mapuche, Mario González, Juan Carlos Flores.
La continua sepoltura di voci che erano vive, messe a tacere dal cadere dalla terra su di loro e dal chiudersi delle sbarre.
E la più grande beffa è che con ogni palata di terra lanciata dallo sbirro di turno, il sistema dice: “Non conti niente, nessuno piangerà per te, nessuno si infurierà per la tua morte, nessuno seguirà le tue orme, nessuno può trattenere la tua vita“.
E con l’ultima palata sentenzia: “anche se prenderanno e puniranno quelli che ti hanno ucciso, ne troveremo sempre un altro, un’altra, altri, che tenderanno un’imboscata e ripeteranno la danza macabra che ha posto fine alla tua vita”.
E dice “La tua giustizia piccola, nana, fabbricata affinché i media pagati mentano per calmare le acque dopo il caos suscitato, non mi spaventa, non mi danneggia, non mi punisce”.
Che cosa diciamo a quel cadavere che, in ogni angolo del mondo del basso, viene sepolto dall’oblio?
Che solo il nostro dolore e rabbia contano?
Che solo la nostra indignazione significa qualcosa?
Che mentre sussurriamo la nostra storia, non sentiamo il suo pianto, il suo urlo?
Ha tanti nomi l’ingiustizia e sono tante le grida che provoca.
Ma il nostro dolore e la nostra rabbia non ci impediscono di sentire.
Ed i nostri sussurri non sono solo per piangere la caduta dei nostri morti ingiustamente.
Sono per poter ascoltare altri dolori, fare nostre altre rabbie e proseguire così nel complicato, lungo e tortuoso cammino di trasformare tutto ciò in un urlo che diventi lotta liberatrice.
E non dimenticare che, mentre qualcuno sussurra, qualcun’altro grida.
E solo l’udito attento può sentire.
Mentre ora parliamo ed ascoltiamo, qualcuno grida di dolore, di rabbia.
E così come bisogna imparare a rivolgere lo sguardo, l’ascolto deve trovare la direzione che lo renda fertile.
Perché mentre qualcuno riposa, c’è chi prosegue la salita.
Per vedere questo impegno, basta abbassare lo sguardo ed elevare il cuore.
Ce la fate?
Ce la farete?
La giustizia piccola somiglia tanto alla vendetta. La giustizia piccola è quella che distribuisce impunità, punendo uno, ne assolve altri.
Quella che vogliamo noi, per la quale lottiamo, non si esaurisce con la scoperta degli assassini del compa Galeano e forse della loro punizione (che se avverrà, nessuno si faccia trarre in inganno).
La ricerca paziente e tenace vuole la verità, non il sollievo della rassegnazione.
La giustizia grande ha che vedere col compagno Galeano sepolto.
Perché noi ci chiediamo non che cosa fare della sua morte, ma che cosa dobbiamo fare della sua vita.
Scusate se entro nel paludoso terreno dei luoghi comuni, ma quel compagno non meritava di morire, non così.
Tutto il suo impegno, il suo quotidiano sacrificio, puntuale, invisibile per chi non era noi, era per la vita.
E vi posso dire che era un essere straordinario ed inoltre, e questo è quello che stupisce, ci sono migliaia di compagne e compagni come lui nelle comunità indigene zapatiste, con la stessa dedizione, identico impegno, uguale chiarezza ed unico destino: la libertà.
E facendo conti macabri: se qualcuno merita la morte è chi non esiste né è esistito, se non nella fugacità dei mezzi di comunicazione prezzolati.
Il nostro compagno capo e portavoce dell’EZLN, il Subcomandante Insurgente Moisés, ci ha detto che assassinando Galeano, o uno chiunque degli zapatisti, quelli di sopra volevano assassinare l’EZLN.
Non come esercito, ma come ostinato ribelle che costruisce vita dove loro, quelli di sopra, desiderano la desolazione delle industrie minerarie, industrie petrolifere, turistiche, la morte della terra e di chi l’abita e lavora.
Ed ha detto che siamo venuti qui, come Comandancia Generale dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, a dissotterrare Galeano.
Pensiamo che sia necessario che uno di noi muoia affinché Galeano viva.
E per soddisfare la morte impertinente, al posto di Galeano mettiamo un altro nome affinché Galeano viva e la morte non si porti via una vita, ma solo un nome, poche lettere prive di senso, senza storia propria, senza vita.
Quindi abbiamo deciso che Marcos da oggi smette di esistere. Lo prenderanno per mano il guerriero ombra e la piccola luce affinché non si perda lungo il cammino. Don Durito se ne andrà con lui, e così anche il Vecchio Antonio.
Non mancherà alle bambine ed ai bambini che gli si facevano intorno per ascoltare i suoi racconti, perché sono ormai grandi, hanno giudizio, lottano per la libertà, la democrazia e la giustizia, che è il compito di ogni zapatista.
Il gatto-cane, e non un cigno, intonerà il canto di addio.
Alla fine chi capirà, saprà che non se ne va chi non c’è mai stato, né muore chi non ha vissuto.
E la morte se ne andrà via ingannata da un indigeno col nome di lotta di Galeano, e sulle pietre posate sulla sua tomba tornerà a camminare ed ad insegnare, a chi lo vorrà, la base dello zapatismo, cioè, non vendersi, non arrendersi, non tentennare.
Oh morte! Come se non fosse evidente che libera quelli di sopra da ogni responsabilità al di là della preghiera funebre, l’omaggio blando, la statua sterile, il museo controllore.
A noi? Beh, perché noi la morte ci impegna alla vita che contiene.
Quindi siamo qui, a deridere la morte nella realtà.
Compas:
Detto questo, alle ore 02:08 del 25 maggio 2014 sul fronte di combattimento sudorientale dell’EZLN, dichiaro che smette di esistere il noto come Subcomandante Insurgente Marcos, l’autodenominato “subcomandante di acciaio inossidabile”.
È tutto.
Per mia voce non parlerà più la voce dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.
Bene. Salute e a mai più… o hasta siempre, chi ha capito sa che questo non ha più importanza, non ne ha mai avuta.
Dalla realtà zapatista.
Subcomandante Insurgente Marcos
Messico, 24 maggio 2014
P.S.1.- “Game is over”?
P.S.2.- Scacco Matto?
P.S.3.- Touché?
P.S. 4.- Fatevene una ragione, raza, e mandate tabacco.
P.S. 5.- Mmm… e questo sarebbe l’inferno… Quel Piporro, Pedro, José Alfredo! Come? Quei machisti? Naah, non credo, ma se io non ho mai…
P.S.-6.- Quindi, senza travestimento, adesso posso andarmene in giro nudo?
P.S. 7.- Eih, è buio qui, datemi un po’ di luce.
(…)
(si sente una voce fuori campo)
Compagne e compagni vi auguro buone albe. Il mio nome è Galeano,Subcomandante Insurgente Galeano.
Qualcun altro si chiama Galeano?
(si alzano voci e grida)
Oh, mi avevano detto che quando sarei rinato lo avrei fatto collettivamente.
Così sia dunque.
Buon viaggio. Abbiate cura di voi, e di noi.
Dalle montagne del Sudest Messicano.
Subcomandante Insurgente Galeano
Messico, maggio 2014
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