L’accordo intercommerciale, in discussione tra Usa e Ue,
dovrebbe prevedere l’istituzione di un tribunale che tutela solo i
privati nelle dispute tra investitore estero e Stato.
il manifesto Andrea Baranes (http://stop-ttip-italia.net)
Dopo il disastro di Fukushima, la Germania decide di uscire dal
nucleare. Pochi mesi dopo, basandosi su un accordo internazionale
sugli investimenti in ambito energetico, il colosso dell’energia
Vattenfall chiede allo stato tedesco una compensazione di 3,5
miliardi di euro. L’anno prima la Philip Morris cita l’Australia,
sostenendo che la nuova legge pensata per limitare il consumo di
sigarette deprime il valore dei suoi investimenti nel Paese e ne
“compromette irragionevolmente il pieno uso e godimento”.
Benvenuti nel mondo delle dispute tra investitore e Stato, o Investor-State Dispute Settlement (Isds).
Semplificando, una sorta di tribunale in cui le imprese private
possono direttamente citare in giudizio gli Stati, quando questi
dovessero introdurre delle legislazioni con impatti negativi sugli
investimenti realizzati e persino sui potenziali profitti futuri.
Legislazioni in ambito ambientale, del diritto del lavoro, della
tutela dei consumatori, sulla sicurezza e chi più ne ha più
ne metta.
Tali «tribunali» sono parte integrante di diversi accordi
commerciali o sugli investimenti, come nel caso del Nafta, siglato
tra Canada, Usa e Messico. È così che la statunitense Metalclad si
è vista riconoscere un rimborso di oltre 15 milioni di dollari
quando un Comune messicano ha revocato l’autorizzazione a costruire
una discarica di rifiuti pericolosi sul proprio territorio;
o ancora che la Lone Pine Resources ha chiesto 250 milioni di dollari
al Canada a causa della moratoria approvata dal Quebec sulle
attività di fracking — una pratica di estrazione di petrolio dalle rocce con enormi rischi ambientali.
Tutto questo potrebbe diventare la norma nei prossimi anni anche in Italia e in tutta Europa, se passasse il Ttip o Transatlantic Trade and Investment Partnership in
discussione tra Ue e Usa. Se da una parte già si moltiplicano studi
e ricerche che magnificano i presunti vantaggi di una completa
liberalizzazione di commercio e investimenti, dall’altra fino
a oggi i contenuti dell’accordo filtrano dalla Commissione europea
e dai governi con il contagocce.
Quello che sembra però confermato
è che uno dei pilastri del Ttip dovrebbe essere proprio l’istituzione
di un meccanismo di risoluzione delle dispute tra investitori
e Stati.
Tralasciando i pur enormi potenziali impatti di tale accordo in
ogni attività immaginabile, per quale motivo gli investitori
esteri che si sentissero penalizzati non dovrebbero rivolgersi ai
tribunali esistenti tanto in Usa quanto in Ue, come un qualsiasi
cittadino o impresa locale? Secondo la Commissione «alcuni
investitori potrebbero pensare che i tribunali nazionali sono
prevenuti». Fa piacere sapere che la Commissione si preoccupa per
quello che alcuni investitori esteri potrebbero pensare più che dei
cittadini che dovrebbe rappresentare. Tenendo poi conto che un
singolo non può rivolgersi a tali tribunali nel caso in cui fosse
danneggiato dal comportamento di un investitore estero, che
giustizia è quella in cui unicamente una delle due parti può
intentare causa all’altra? Ancora prima, nel momento in cui si
sancisce un diverso trattamento tra imprese locali e investitori
esteri, ha ancora senso affermare che «la legge è uguale per tutti»?
Con tali meccanismi si rischia di minare le stesse fondamenta
della sovranità democratica. Non vi è appello possibile, così come
non c’è nessuna trasparenza sulle decisioni di tre «esperti» che si
riuniscono e decidono a porte chiuse, nel nome della
«confidenzialità commerciale», ma che di fatto possono
influenzare, pesantemente, le legislazioni di Stati sovrani.
Spesso non è nemmeno necessario arrivare a giudizio: la
semplice minaccia di una disputa basta a bloccare o indebolire una
nuova legislazione. In parte per il costo di tali procedimenti, in
parte per il rischio di dovere poi pagare multe che possono arrivare
a miliardi di euro, ma anche per un altro aspetto: un governo che
dovesse incorrere in diverse dispute dimostrerebbe di essere poco
incline agli investimenti internazionali. In un mondo che ha fatto
della competitività il proprio faro e che si è lanciato in una
corsa verso il fondo in materia ambientale, sociale, fiscale, sui
diritti del lavoro pur di attrarre i capitali esteri, l’introduzione di
leggi «eccessive» e l’essere citato in giudizio in un Investor-State Dispute Settlementdiventano macchie inaccettabili.
O forse, al contrario, è semplicemente inaccettabile un mondo
in cui la tutela dei profitti delle imprese ha definitivamente il
sopravvento sui diritti delle persone. Come sostiene la campagna
promossa anche in Italia da decine di organizzazioni —
http://stop-ttip-italia.net -, a essere inaccettabile è il Ttip
nel suo insieme. E non è probabilmente necessario il giudizio di
un tribunale internazionale per capire da che parte stare.
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lunedì 19 maggio 2014
Diritti vs profitti. Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership)
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