In "Capitalismo in-finito",
Aldo Bonomi racconta l'ascesa e la caduta della borghesia diffusa del
capitalismo molecolare e dei distretti industriali. Dagli anni Ottanta,
le sue quattromila imprese sono cresciute grazie al decentramento
produttivo e alla riduzione della società italiana al “ceto medio”.
Questa è stata la storia (anche) del Nord-Est, e del suo "capitalismo
molecolare". Nel tempo questo modello è diventato l'oggetto di uno dei
"miti" della produttività all'italiana.
micromega di Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli
Oggi la crisi ha lasciato
sul terreno una moltitudine di disoccupati e partite Iva che formano
una sterminata massa di contoterzisti impoveriti. Diversi per status e
per culture professionali dai precari maggioritari, ma come loro ridotti
a un neo-proletariato definito anche da Bonomi “Quinto Stato”.
Che cos'è il Quinto Stato
Categoria altamente composita, cresciuta sull'onda della “terziarizzazione” dell'economia, il Quinto Stato raccoglie tre habitus diversi:
quello del capitalismo personale; il lavoro della conoscenza, culturale
e creativo; quello dei servizi alla persona e della logistica. Più che
rappresentare un soggetto unico, e omogeneo, il Quinto Stato è il nome
del processo che ha progressivamente precarizzato i rapporti di lavoro,
svuotato i territori e i rapporti produttivi. Questo processo ha
investito tanto i precari tradizionali, quanto il lavoro autonomo
professionale che Sergio Bologna ha definito di “seconda generazione”.
Bonomi non trascura la contraddizione interna al Quinto Stato, tra la lower middle class
e il proletariato dei precari che non hanno nulla da spartire con i
ricchi professionisti o gli attori della speculazione finanziaria. Tra
di loro i legami sono tenui e, quando ci sono, il conflitto è aspro. In
questo caso, parlare di “Quinto Stato” significa descrivere un orizzonte
che contiene scandalose differenze di classe, ma anche una vita sociale
aperta al conflitto.
La plasticità di una categoria che indica
una condizione, e non solo un soggetto produttivo o contrattuale,
impedisce di identificare il Quinto Stato solo in una classe creativa,
un ceto professionale o imprenditoriale. Per noi il problema è emerso
scrivendo "La furia dei cervelli", un libro lungamente analizzato in
"Capitalismo in-finito". Oggi sappiamo che il Quinto Stato non allude
solo allo status di una categoria professionale, ma incarna il futuro di
un lavoro che sarà sempre più indipendente, intermittente e autonomo e
già oggi indica la condizione di una vastissima porzione della
forza-lavoro attiva, al di là delle nazionalità di riferimento.
Il
Quinto Stato resta un motore della ricchezza, anche se viene
disconosciuto dalle rappresentanze politiche, imprenditoriali o
sindacali.
Questa è la situazione che sta emergendo in una crisi
che ha già distrutto oltre un milione di posti di fissi in Italia, ma
non ha certamente cancellato la capacità di vivere in maniera operosa.
Il Quinto Stato si definisce in base ad una capacità comune agli esseri
umani e alle possibilità di affermarla sui territori e nelle città,
indicati da Bonomi come i luoghi dove elaborare un progetto di “green
society” alternativo all'Europa dell'austerità.
Coalizioni
Il
Quinto Stato oggi è un processo discontinuo la cui finalità resta
ancora da comprendere. Ciò non toglie che esso abbia caratterizzato i
processi produttivi e sociali degli ultimi trent'anni. Politicamente si è
espresso nel sindacalismo territoriale della Lega Nord o nel blocco
sociale berlusconiano. Il Movimento 5 Stelle, anch'esso può essere
considerato un'espressione del Quinto Stato, si limita a sostituire
l'identificazione con il Capo Beppe Grillo al legame ancestrale con un
territorio o all'ambizione di governare il paese come una rete Mediaset.
Questi limiti non dovrebbero tuttavia distogliere l'attenzione
dal fatto che il Quinto Stato è anche un soggetto di riferimento per la
politica. Bonomi sostiene che il suo futuro resta legato alla
possibilità di costruire coalizioni tra le vittime e gli attori di un
processo che ha cambiato radicalmente la società italiana. Per
realizzarle è necessaria una forza politica (e non solo un partito o un
movimento personale) che abbiamo visto risvegliarsi nel lavoro culturale
o nella difesa dei beni comuni, con la difficoltà di produrre risultati
tangibili.
E tuttavia è difficile capire come costruire tali
coalizioni. In due anni abbiamo assistito ad una frammentazione politica
che ha portato i movimenti anti-austerity a dividersi in parti più
piccole di un atomo. E non sappiamo se e quanto i soggetti del "fare
impresa" di cui parla Bonomi si sentano rappresentati dalla
Confindustria di Giorgio Squinzi che, al fondo, propone un rilancio
della manifattura; la ripresa degli investimenti sulle energie fossili.
Due aspetti che ci sembrano molto lontani da un progetto di "green
society" e di eco-sostenibilità.
Il lavoro autonomo, indipendente
o precario è stato disarticolato dalla crisi, ha peggiorato la sua
condizione socio-economica, non favorisce la sua partecipazione alla
sfera pubblica.
Una miscela esplosiva
Il
crash economico-finanziario è iniziato nel 2007-2008 e continuerà a
lungo. Qui siamo. Ma non dobbiamo perdere l'abitudine allo sguardo
lungo, e in profondità, sulla trasformazione. Quella del lavoro che
coinvolge direttamente il rapporto con i "territori" e con le
"istituzioni". A partire da questa triangolazione è possibile
intravvedere un nuovo orizzonte per la "politica". Non è teoria, è
pratica. Si afferma nella difesa dei "beni comuni", oppure nell'impegno
per nuovi modelli di sviluppo estranei ai faraonici progetti delle
"grandi opere". Per Bonomi si riconosce sempre meno nell'"antropologia
economica delle 3C: Capannoni-Comunità-Campanile".
La crisi ha
trasformato la percezione del territorio. Spesso ci soffermiamo sugli
aspetti mortiferi, legati alla desertificazione industriale,
all'abbandono di migliaia di famiglie sul lastrico, con o senza cassa
integrazione. In molti casi, l'unico centro resta quello degli
ipermercati.
Il territorio è diventato una gabbia senza uscita.
Esiste anche la percezione del suo allungamento e della sua dispersione.
Il Nord Est, ad esempio, è ormai una macro-area che comprende almeno un
paio di nazioni europee. E altri esempi di delocalizzazione si
potrebbero fare.
Bonomi propone invece un'altra idea di
territorio: Non piú una sommatoria di contesti locali governati secondo
uno schema piramidale centro-periferia, ma piuttosto un intreccio in
fieri di piattaforme territoriali di interconnessione tra società locali
e flussi.
La sua attenzione va ad un capitalismo
"flessibile
in cui cresce l’importanza delle componenti immateriali, delle
tecnologie informatiche, di un capitale umano fatto di saperi formali di
diversa natura e intensità".
Nel territorio come piattaforma si
affermano nuove logiche di organizzazione sociale fuori dalle matrici
comunitarie e localistiche tradizionali, con l’estendersi dello spazio
di riferimento dello sviluppo oltre la dimensione locale e
l’agglomerarsi di grandi piattaforme produttive. Seguirebbe una
riorganizzazione politico-istituzionale
"di poteri e funzioni
dello Stato centrale e dei livelli istituzionali locali o sopranazionali
e il passaggio dallo Stato soggetto allo Stato funzione”.
Oggi
questa riorganizzazione è guidata dalle politiche di austerità e dalla
loro idea di territorio, di capitalismo e di riorganizzazione
istituzionale. Bonomi segnala come i "governi dei tecnici" abbiano
gravemente danneggiato la "neo-borghesia" del capitalismo molecolare
(più tasse) come i lavoratori precarizzati (con la riforma Fornero del
lavoro e delle pensioni). Entrambi si trovano impigliati nelle reti di
un capitalismo sbrindellato. La crisi è stata aggravata dall'intreccio
fatale del fallimento del post-fordismo all'italiana con quello delle
politiche dell'austerità.
Questa è una miscela esplosiva.
Il mutualismo
Lo
strumento per riprendere l'iniziativa in questa cornice potrebbe essere
il mutualismo. La proposta è presente anche nel libro di Bonomi. La
lunga storia di questo concetto ha portato la sinistra a intenderlo come
una forma di solidarietà tra i poveri. Il mutualismo è invece lo
strumento utile per creare coalizioni democratiche che abbiano lo scopo
di garantire il mutuo soccorso, regimi di auto-governo e nuove
istituzioni territoriali. Sono queste le basi, solidali e non
individualistiche, per una riforma universale del Welfare che tuteli le
potenzialità della persona e non la sua appartenenza a corporazioni,
sindacati o classi sociali.
Questa prospettiva resta purtroppo
una prerogativa di minoranze attive e viene ignorata dalla maggioranza
del Quinto Stato, sempre più passivo, rancoroso e impoverito. Ciò non
toglie che, per chi fosse interessato a “fare politica”, il mutualismo
rappresenti un'opzione concreta, oltre che una radicale alternativa
all'austerità. E non può essere altrimenti perché il mutualismo esprime
l'esigenza di costruire una società dove milioni di persone
continueranno a vivere e a lavorare in maniera indipendente e dovranno
difendere la propria autonomia contro tutte le forme di sfruttamento e
ricatto.
Tra i principi costituenti del mutualismo c'è la
secolare tradizione civica italiana che ha sempre ragionato sul
municipalismo e il suo rapporto con i territori e con le persone che li
vivono e li attraversano. Nella tradizione del mutualismo c'è anche
l'idea di un'Europa intesa come uno spazio dove affermare la libertà, la
solidarietà e la giustizia sociale. Infine c'è la pretesa di incidere
sulle scelte politiche a livello locale. Collegare questi livelli nella
stessa cornice potrebbe servire ad affrontare il problema della
rappresentanza, oltre che a riattivare la partecipazione.
Una scommessa altissima
A
sinistra quando si parla di "politica" si evocano sempre principi
intramontabili che difficilmente scaldano il cuore. Oppure ci si dedica
alle alchimie dei "soggetti politici" e dei cartelli elettorali, un
bricolage che non porta mai a nulla. Sarebbe invece preferibile partire
da ciò che si muove sui territori.
A partire da questa base si
può configurare un campo, oggi allo stato a dir poco fluido, composto da
coalizioni tra associazionismo civico e promozione sociale con le
diverse anime che compongono il Quinto Stato: lavoratori indipendenti,
auto e piccola impresa e molti altri segmenti sparsi nella sterminata
provincia italiana, sospesi tra sottoccupazione e assenza di
retribuzione. Vista dall'alto, al di fuori delle dinamiche presenti sui
territori e nelle reti, questa resta una prospettiva difficile.
Ripartiamo invece dal basso e restiamo alle cose, lì dove nascono i
rapporti tra le persone, i territori e le istituzioni.
In Italia
esiste una domanda di riappropriazione dei flussi economici, della
tutela e della valorizzazione socio-culturale dei territori. Si
continuano a costruire reti tra spazi e soggetti sociali, economici,
istituzionali capaci di produrre ricchezza e buone forme di vita, invece
che sfruttamento e passioni tristi.
La loro è una scommessa
altissima, anche perché manca una visione condivisa della società.
Corrono il rischio di perderci nella difesa testimoniale e minoritaria
del localismo, di identità posticce, rassegnandoci all'aggravarsi delle
differenze di classe e della povertà.
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