L’OCSE ci ricorda che la nostra produzione di merci è
in calo tendenzialmente da 20 anni e che il PIL italiano sarà marchiato col
segno meno anche quest’anno, mentre tutte le economie europee si stanno
avviando verso una fase economica espansiva
di Bz
25 / 9 /
2013
Ai tempi del G8 di Genova, l’Italia si attestava al 6°
posto tra le grandi potenze economiche mondiali nonostante che il processo di
deindustrializzazione dell’economia italiana fosse già in atto da tempo con la
delocalizzazione di molti tratti della filiera produttiva, così come era
avvenuto e si stava dando per tutti i paesi motori del processo produttivo su
scala globale.
Oggi ci troviamo a discutere del trasferimento della
cabina di comando della Telecom dalle mani della finanza italiana a quelle
della finanza iberica, sentendo ripetere alti lamenti del tutto simili a quelli
che abbiamo dovuto sopportare durante la vendita di molte imprese e società che
sono state il simbolo del miracolo economico italiano degli anni 60 del secolo
scorso e del Made in Italy, e che ci ha reso trendy nei mercati internazionali.
Ma di cosa si lamentano, cosa ci vengono a raccontare
i soloni italici della politica economica?!!
Per anni hanno battuto la grancassa delle magagne
della gestione pubblica di molti ambiti della produzione industriale e dei
servizi per accreditare la salvifica gestione dei privati e delle grandi
multinazionali; con grandi plausi è stata salutata la stagione delle
privatizzazioni – guarda caso - gestita in prima persona dai governi di
‘sinistra’.
Sarebbe il caso di liquidare il caso Telecom, quelli
che l’hanno preceduta e quelli che la seguiranno, con la semplice parafrasi: ‘è
la privatizzazione, bellezza!’ ma è anche l’occasione per ricordare alcuni
passaggi delle politiche industriali italiane, che hanno avuto momenti di
effimero splendore ed ora presentano il conto, lasciando sul terreno della
produzione dei beni materiali ampie zone di desertificazione, con decine e
decine di piccoli imprenditori morti sul campo.
Schematizzando al massimo, possiamo dire che, già
negli anni 70, per l’anomalia politica del nostro paese, la divisione
internazionale del lavoro ha definito un ruolo periferico per l’industria
italiana, sostenendo l’abbandono o la lenta dismissione dei settori ad alta
intensità di capitale e di ricerca [farmaceutica, chimica, chimica fine,
elettronica, nucleare etc] ed incentivando il decentramento produttivo dei
settori manifatturieri con l’obiettivo di smantellare la conflittualità delle
grandi concentrazioni operaie. Si è aperta, così, la stagione del piccolo è
bello, della deregolamentazione dei rapporti di lavoro, degli ex operai
trasformati in nuovi padroncini.
Gran parte del boom economico italiano degli anni 80 e
90, della scalata ai piani alti dell’economia mondo, si è basato sulla
compressione dei costi del lavoro vivo, sulla riorganizzazione dei flussi
produttivi, della distribuzione e circolazione delle merci; in misura del tutto
secondaria ad investimenti, capitalizzazione, innovazione produttiva.
Il tutto ha retto e prosperato fin tanto che il
mercato delle merci non è diventato effettivamente globale. È del 2001
l’entrata della Cina nel WTO e da lì la musica è cambiata per tutti, di più per
l’Italia costretta a difendere gli spazi del mercato internazionale che aveva
conquistato, a forza di bassi salari e razionalizzazione produttiva. Come?
Ancora una volta tentando di comprimerei costi del lavoro vivo, con la
delocalizzazione delle imprese nell’eldorado produttivo dell’est europeo, della
Turchia, della sponda sud del Mediterraneo. Il resto, dalla crisi di overdose
finanziaria, emblematicamente rappresentato dal crollo Lehman Brothers, è
cronaca recente che ci rappresenta un declino produttivo soprattutto europeo,
dell’Europa mediterranea in particolare e una nuova mappatura del potenziale
produttivo nei BRICS, con la Cina a competere alla pari con gli USA, col
vantaggio, nei confronti del competitor americano, di avere un enorme mercato
interno e di area d’influenza, oltre che un potere di ricatto politico,
detenendo, la Cina, una buona fetta del debito commerciale e pubblico
statunitense.
L’OCSE ci ricorda che la nostra produzione di merci è
in calo tendenzialmente da 20 anni e che il PIL italiano sarà marchiato col
segno meno anche quest’anno, mentre tutte le economie europee si stanno
avviando verso una fase economica espansiva. L’Italia ha la maglia nera, è in
fase recessiva, ci resterà ancora per un annetto, secondo le stime degli
osservatori internazionali.
Siamo al disastro economico, dunque. No, non lo
pensiamo: siamo in una crisi economica profonda, non effimera e passeggera, di
quelle che lasceranno il segno per gli anni a venire, in cui si possono aprire
le possibilità per sperimentare anomali percorsi di uscita dalla crisi stessa,
percorsi fondati sulla cooperazione, la solidarietà, il recupero, nuove forme
di imprenditorialità socializzata; esperienze che si intravvedono in tutta
l’Europa mediterranea.
Descriverli, interpretarli, starci dentro e
sperimentarli è un nostro interesse, un compito collettivo aldilà delle
pretestuose menate sulla Telecom.
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