giovedì 26 settembre 2013

È la privatizzazione, bellezza. Di Telecom e di altro

L’OCSE ci ricorda che la nostra produzione di merci è in calo tendenzialmente da 20 anni e che il PIL italiano sarà marchiato col segno meno anche quest’anno, mentre tutte le economie europee si stanno avviando verso una fase economica espansiva

di Bz
25 / 9 / 2013
 
Ai tempi del G8 di Genova, l’Italia si attestava al 6° posto tra le grandi potenze economiche mondiali nonostante che il processo di deindustrializzazione dell’economia italiana fosse già in atto da tempo con la delocalizzazione di molti tratti della filiera produttiva, così come era avvenuto e si stava dando per tutti i paesi motori del processo produttivo su scala globale.
Oggi ci troviamo a discutere del trasferimento della cabina di comando della Telecom dalle mani della finanza italiana a quelle della finanza iberica, sentendo ripetere alti lamenti del tutto simili a quelli che abbiamo dovuto sopportare durante la vendita di molte imprese e società che sono state il simbolo del miracolo economico italiano degli anni 60 del secolo scorso e del Made in Italy, e che ci ha reso trendy nei mercati internazionali.
Ma di cosa si lamentano, cosa ci vengono a raccontare i soloni italici della politica economica?!!
Per anni hanno battuto la grancassa delle magagne della gestione pubblica di molti ambiti della produzione industriale e dei servizi per accreditare la salvifica gestione dei privati e delle grandi multinazionali; con grandi plausi è stata salutata la stagione delle privatizzazioni – guarda caso - gestita in prima persona dai governi di ‘sinistra’.
Sarebbe il caso di liquidare il caso Telecom, quelli che l’hanno preceduta e quelli che la seguiranno, con la semplice parafrasi: ‘è la privatizzazione, bellezza!’ ma è anche l’occasione per ricordare alcuni passaggi delle politiche industriali italiane, che hanno avuto momenti di effimero splendore ed ora presentano il conto, lasciando sul terreno della produzione dei beni materiali ampie zone di desertificazione, con decine e decine di piccoli imprenditori morti sul campo.
Schematizzando al massimo, possiamo dire che, già negli anni 70, per l’anomalia politica del nostro paese, la divisione internazionale del lavoro ha definito un ruolo periferico per l’industria italiana, sostenendo l’abbandono o la lenta dismissione dei settori ad alta intensità di capitale e di ricerca [farmaceutica, chimica, chimica fine, elettronica, nucleare etc] ed incentivando il decentramento produttivo dei settori manifatturieri con l’obiettivo di smantellare la conflittualità delle grandi concentrazioni operaie. Si è aperta, così, la stagione del piccolo è bello, della deregolamentazione dei rapporti di lavoro, degli ex operai trasformati in nuovi padroncini.
Gran parte del boom economico italiano degli anni 80 e 90, della scalata ai piani alti dell’economia mondo, si è basato sulla compressione dei costi del lavoro vivo, sulla riorganizzazione dei flussi produttivi, della distribuzione e circolazione delle merci; in misura del tutto secondaria ad investimenti, capitalizzazione, innovazione produttiva.
Il tutto ha retto e prosperato fin tanto che il mercato delle merci non è diventato effettivamente globale. È del 2001 l’entrata della Cina nel WTO e da lì la musica è cambiata per tutti, di più per l’Italia costretta a difendere gli spazi del mercato internazionale che aveva conquistato, a forza di bassi salari e razionalizzazione produttiva. Come? Ancora una volta tentando di comprimerei costi del lavoro vivo, con la delocalizzazione delle imprese nell’eldorado produttivo dell’est europeo, della Turchia, della sponda sud del Mediterraneo. Il resto, dalla crisi di overdose finanziaria, emblematicamente rappresentato dal crollo Lehman Brothers, è cronaca recente che ci rappresenta un declino produttivo soprattutto europeo, dell’Europa mediterranea in particolare e una nuova mappatura del potenziale produttivo nei BRICS, con la Cina a competere alla pari con gli USA, col vantaggio, nei confronti del competitor americano, di avere un enorme mercato interno e di area d’influenza, oltre che un potere di ricatto politico, detenendo, la Cina, una buona fetta del debito commerciale e pubblico statunitense.
L’OCSE ci ricorda che la nostra produzione di merci è in calo tendenzialmente da 20 anni e che il PIL italiano sarà marchiato col segno meno anche quest’anno, mentre tutte le economie europee si stanno avviando verso una fase economica espansiva. L’Italia ha la maglia nera, è in fase recessiva, ci resterà ancora per un annetto, secondo le stime degli osservatori internazionali.
Siamo al disastro economico, dunque. No, non lo pensiamo: siamo in una crisi economica profonda, non effimera e passeggera, di quelle che lasceranno il segno per gli anni a venire, in cui si possono aprire le possibilità per sperimentare anomali percorsi di uscita dalla crisi stessa, percorsi fondati sulla cooperazione, la solidarietà, il recupero, nuove forme di imprenditorialità socializzata; esperienze che si intravvedono in tutta l’Europa mediterranea.
Descriverli, interpretarli, starci dentro e sperimentarli è un nostro interesse, un compito collettivo aldilà delle pretestuose menate sulla Telecom.


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