venerdì 27 settembre 2013

Libro. La rivoluzione urbana prossima ventura: "Città ribell"i di David Harvey.

«Le città sono un prodotto del tempo. Esse sono gli stampi in cui si sono raffreddate e solidificate le vite degli uomini»[1] Lewis Mumford 
«Una città è buona solo se tali sono i suoi cittadini»[2] Aristotele 

micromega di Pierfranco Pellizzetti

Due anni fa avevamo lasciato David Harvey – il geografo diventato importante sociologo dei processi culturali che insegna nella City University newyorkese – a interrogarsi sulle modalità di quella transizione postcapitalistica che ormai da tempo proclama ineluttabilmente/storicisticamente “inscritta nelle stelle” (pur facendola dipendere, quanto alle tempistiche, da un volontarismo che riporta a quella fase del pensiero marxiano, postquarantottesco e ormai influenzato dalle vicende della Comune parigina, in cui l’azione diretta assurgeva a “levatrice della storia”): «bisognerà trovare un’alternativa… Se il capitale ci ha fornito un’abbondanza di mezzi con cui affrontare il compito della transizione anticapitalistica, i capitalisti e i loro tirapiedi faranno tutto quanto in loro potere per impedire una tale transizione, per quanto urgenti possano essere le circostanze. Ma il compito della transizione sta a noi, non ai plutocrati»[3]Ora ritroviamo il nostro autore in questo recentissimo contributo, Città Ribelli, pubblicato dal Saggiatore, e scopriamo che nel frattempo ha messo a punto un’embrionale risposta alla domanda con cui lasciava in sospeso il lettore della sua precedente produzione saggistica: «la rivoluzione dovrà essere urbana, o non sarà affatto».

Dunque, la città come terreno fertile di cambiamenti radicali; facendo la tara a quella retorica molto novecentesca – da cui Harvey continua a essere influenzato – che contrappone rivoluzione a riformismo, laddove quest’ultimo mirerebbe a efficientare l’esistente (per consentigli di superare le sue crisi cicliche) e la prima a frantumarne il punto di equilibrio vigente (premessa obbligata per soppiantare le vecchie egemonie con nuove, alternative). La vecchia tesi leniniana sul meccanicistico andante, per cui il “quantitativo” oltre certe soglie diventerebbe “qualitativo”. Semmai si potrebbe parlare più realisticamente (almeno secondo lo scrivente) della città quale campo di sperimentazioni per una rifondazione della democrazia dal basso.

Il ragionamento sviluppato in Città Ribelli corre lungo due binari che non si intersecano: ovvero tra la convinzione di come le città che abbiamo conosciuto stiano rapidamente scomparendo, espressa da Henry Lefebvre (il filosofo marxista e poi situazionista nella terza età, autore di testi fondativi di una “cittadinanza insorgente” quali Il Diritto alla città e Rivoluzione urbana), e le tesi speculari di un suo allievo (“erratico” lo definisce Harvey), Manuel Castells. Quel Castells che nel 1996, insieme al direttore del progetto catalano Cities-ciudades, Jordi Borja, scriveva in un Rapporto alla conferenza dell’ONU “Habitat II” tenutasi a Istanbul: «le città stanno assumendo un ruolo sempre più importante nella vita politica, economica, sociale, culturale e mediatica. Potremmo descrivere le città come agenti sociali complessi e multidimensionali»[4]. Il cosiddetto “nuovo spazio industriale” organizzato attorno ai flussi dell’informazione.

Insomma, in bilico tra il pessimismo lefebvriano e l’ottimismo castellsiano, potremmo dire che le città non scompaiono e neppure si ricompattano, semmai si dividono e segmentano nei processi di “gentrificazione” indotti dalla globalità finanziarizzata, che creano “centri vetrina” abitati/frequentati dai ceti vincenti nella ristrutturazione turbocapitalistica, confinano nelle periferie i “ceti pericolosi” ed espellono i residui “ceti industriosi” (dagli artigiani alla cosiddetta “borghesia riflessiva”) dal contesto creatosi nei processi di deindustrializzazione. Ossia il dualismo centro-periferia come prodotto dei rapporti di dominio. Con un codicillo: la specializzazione del territorio non corrisponde necessariamente e strettamente a meccaniche perimetrazioni dentro/fuori: sono ipotizzabili zone periferiche nell’area centrale (vedi le suburre come cisti dei centri storici) e – di converso – aree a funzione centrale nelle fasce più esterne (le cosiddette edge city, le città ai bordi, «consistenti concentrazioni di uffici e attività economiche lungo gli assi residenziali di aree periferiche che sono collegate a localizzazioni centrali mediante apparati elettronici avanzati»[5], come nei casi della Defense a Parigi o del Docklands londinese).

Una gerarchizzazione degli spazi urbani che porta a definire le odierne “periferie” come i luoghi della marginalità e della subalternità. Non più le fasce fisicamente esterne della città; dove l’attività economica urbana iniziava a sfocarsi, trascolorando senza soluzione di continuità in quella rurale. Ciò che fino a ieri ci rappresentava il senso comune: dalle “città aperte” dell’antichità greca e romana fino alla città industriale della Modernità. Fino a quando – grossomodo dopo il 1973 – non è avvenuto lo svuotamento del contratto sociale tra capitale, lavoro e Stato; frutto ben poco commestibile della stagione NeoLib, che ha segnato l’ultimo quarantennio. È iniziata ad avanzare una nuova fase di capitalismo deregolato che – come si diceva – pretende di ricondurre a sistema economico ogni mondo della vita. Con immediato impatto – tra l’altro – anche sulla configurazione urbana e la messa in gerarchia dei suoi spazi, nella logica dell’egemonia e della conseguente subalternità indotta. Perché le città – ce lo ricordava lo storico del fenomeno urbano Lewis Mumford – sono sempre un prodotto del tempo

Nell’odierna fase storica, il capitalismo, finanziarizzandosi e smaterializzandosi (dirottando le attività manifatturiere lungo le filiere del decentramento produttivo transnazionale), ha perso definitivamente la connotazione industrialista del periodo immediatamente precedente, che consentiva alle aree esterne dell’età keynesiano-fordista di non essere intrinsecamente marginali né subalterne al comando centrale; grazie all’organizzazione politica del lavoro, al conflitto per i diritti e i risarcimenti.

Qui veniamo al punto. La dimensione civica è sede del conflitto centrale, in quanto concentrazione di moltitudini in un luogo; basta sostituire lo sguardo dell’urbanista con quello del sociologo, e questa considerazione diventa lapalissiana. Soltanto che il perimetro di condensazione della potenza sociale al tempo del capitalismo industrialista era la fabbrica.

In questa fase postindustriale può esserlo la città? Basta intenderci. Sempre che si sia capaci di portare a teoria quanto ai propugnatori della rifondazione democratica su scala urbana, ad oggi, ancora non riesce di mettere a fuoco: come e dove piantare la leva della trasformazione. Quella leva che al tempo del conflitto tra imprenditori e lavoratori era situata nella riproduzione del capitale attraverso i processi produttivi (inceppabile attraverso l’arma dello sciopero).

Fatto sta che nella volatilizzazione (“liquidizzazione” dice Bauman) della società, a differenza del proletario, il precario non fa classe. Su un punto Harvey converge con quanto Castells esprimeva nella sua analisi sull’indignazione, pubblicata l’anno scorso: i movimenti indignati hanno prodotto “trasformazioni nelle menti delle persone” e «se le persone pensano in modo diverso, se mettono in comune la propria indignazione e custodiscono la speranza di cambiare, la società alla fine cambierà»[6]. Sarà. A chi scrive sembrano più profezie formulate nella speranza che si autoavverino; nell’auspicio che il “partito Zuccotti Park” (dieci anni fa lo chiamavano “Porto Alegre”) sconfigga “il partito Wall Street” (già “Davos”). Con il piccolo particolare non trascurabile che per ora “Zuccotti” e “Porto Alegre”, in quanto “partiti”, sono ancora soggetti immaginari e – ciò che più conta – del tutto disarmati.

Intanto il potere del denaro, sebbene in palpabile difficoltà, controlla le agende pubbliche, imponendo la priorità di assecondare i propri interessi in termini di tutele e dinamiche di accumulazione per esproprio.

Il precariato batterà in breccia l’operazione restaurativa? Problematico crederlo, visto che il prosciugamento di ricchezza sociale dell’area centrale della società ne ha ridimensionato le energie combattive; spingendola verso una sorta di fatalismo debilitato. Anche perché ha prevalso la strategia comunicativa NeoLib di lavaggio del cervello collettivo attraverso ansiogene politiche della paura; per cui rispetto alla sicurezza welfariana di lavoro e dignità (security) ora risulta anteposta la ricerca dell’incolumità (safety)[7] minacciata da fantasmi evocati ad arte (il terrorista, l’immigrato, il dirottatore, l’avvelenatore di pozzi…).

Sicché – per ora – di certo vi è soltanto l’importanza di potenziare “la militanza urbana”. Lo diceva già Pasqual Maragal i Mira, sindaco della renaixencia di Barcellona nei lontani anni Ottanta del secolo scorso[8]. Per fare che cosa? La rivoluzione con bandiere rosse che garriscono al vento e gli squilli dell’Internazionale? Magari – più semplicemente – per conquistare il governo democratico delle istituzioni urbane, per nuove ripartenze progressiste.

Anche qui facile a dirsi, meno a farsi, in assenza di un pensiero strategico che unifichi le varie realtà locali e le differenti tematiche in una comune lotta di liberazione dalle operazioni postdemocratiche. Parlando dei fatti di casa nostra, certo le presunte riappropriazioni delle città realizzatesi in tempi recenti non hanno prodotto esiti particolarmente confortanti: dalla Milano di Pisapia alla Parma di Pizzarotti, dalla Napoli di De Magistris alla Genova di Marco Doria.

In conclusione, Harvey traccia con il suo recentissimo saggio il perimetro della possibile rottura insanabile dell’ordine capitalistico.

Resta ancora da stabilire il “come” (“che fare”, diceva quel tale) e “il chi”. Ossia il soggetto rivoluzionario, nella mutazione del proletariato in precariato, di cui anche il nostro autore auspica l’apparizione. Con le sue parole: «se mai esisterà un movimento rivoluzionario all’altezza di questi nostri tempi e di questa nostra parte del mondo il problematico e disorganizzato ‘precariato’ dovrà esserne parte essenziale. Come questi gruppi eterogenei possano autorganizzarsi all’interno di una forza rivoluzionaria rappresenta il problema politico del presente»[9]. E poi aggiunge: «in ogni caso, nel XXI secolo dobbiamo ancora vedere un movimento coerente di opposizione»[10].

Appunto. La risposta al prossimo saggio?

NOTE

[1] L. Mumford, La cultura delle città, Ed. di Comunità, Torino 1999, pag. LXXII
[2]
Aristotele, Politica
[3]
D. Harvey, L’enigma del capitale, Feltrinelli, Milano 2011, pag. 278
[4]
J. Borja e M. Castells, La città globale, De Agostini Novara 2002, pag. 95
[5]
S. Sassen, Le città globali, il Mulino, Bologna 1997, pag. 121
[6]
M. Castells, Reti di indignazione e di speranza, EGEA, Milano 2012, pag.114
[7]
Z. Barman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000, pag. 25
[8]
R. Huges, Barcellona, Mondatori, Milano 2004, pag. 37
[9]
D. Harvey, Città ribelli, cit., pag. 14
[10]
Ivi, pag. 44

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